Il ruolo del CCNL oggi, tra autonomia negoziale e interventismo: qualche spunto da alcune ultime analisi sulla contrattazione in Italia

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Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18

 

Lo scorso 3 maggio, a Roma è stato presentato il Rapporto a cura della Fondazione di Vittorio dal titolo I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro: numero di contratti, lavoratori interessati, ruolo dei sindacati confederali. L’analisi offre un’utile prospettiva per guardare all’attuale stato di salute delle relazioni industriali in Italia e, in particolare, di quello che rimane lo strumento centrale per la determinazione delle condizioni economiche e normative per i lavoratori occupati nei diversi settori del nostro mercato del lavoro, ossia il contratto nazionale. Uno strumento che, negli ultimi anni, è stato messo a dura prova a causa della proliferazione degli stessi contratti, connessa ad una sempre più ampia frammentazione degli attori della rappresentanza e aggravata dall’incertezza relativa alla situazione pandemica e dalle conseguenze economiche dell’attuale crisi internazionale.

Sotto il primo aspetto, appaiono fortemente indicativi i dati del Cnel, riportati nello stesso report della Fondazione, dai quali emerge come tra il 2012 e il 2021 i contratti depositati presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro siano aumentati dell’80%, sfiorando quota 1.000. Al 31 dicembre 2021 risultavano infatti depositati 992 contratti vigenti.

Sotto il secondo profilo, invece, è stata registrata la difficoltà delle relazioni industriali di garantire “certezze” sul piano economico e normativo ai lavoratori dei diversi settori a fronte dei rischi, disagi ed incertezze determinati dalle circostanze inedite degli ultimi due anni. Si tratta di una dinamica emersa anche nell’ultimo Rapporto Adapt sulla contrattazione collettiva in Italia, laddove è stato evidenziato che le trattative per i più importanti rinnovi nazionali siano state rallentate o interrotte per lunghe fasi. Difficoltà che hanno allungato inevitabilmente i periodi di vacanza contrattuale – anche di quei contratti “affetti” da un’ultrattività cronica – e che sono testimoniate dall’ampio ricorso delle parti, in sede di rinnovo, all’introduzione di specifiche quote una tantum finalizzate a fornire una prima risposta sul piano economico a lavoratrici e lavoratori che per mesi, e in alcuni casi anni, si sono visti applicare un contratto nazionale scaduto.

A fronte di questi elementi critici, sono molte le voci che si sono espresse in favore di un “cambio di passo” da parte non solo degli attori delle relazioni industriali ma anche della politica, sia per arginare la piaga della proliferazione dei contratti collettivi che per migliorare le condizioni salariali dei lavoratori. Tra queste, si segnala anche l’ultimo intervento di Tito Boeri e Roberto Perotti, che lo scorso 5 maggio, dalle pagine di Repubblica, hanno manifestato l’urgenza di introdurre da un lato una legge sulla rappresentanza, per “porre ordine nel caos della contrattazione collettiva”; dall’altro, di introdurre per legge un salario minimo, al fine fornire risposte ai lavoratori impiegati nelle tantissime imprese che non sono coperte da contratti collettivi.

Eppure, da questo punto di vista, lo scenario che ci viene consegnato dall’ultimo report della Fondazione di Vittorio, presenta alcuni elementi di particolare interesse, che paiono mettere in discussione questa narrazione “interventista” sul tema. In primo luogo, la ricerca ha il merito di fare sintesi tra le analisi di alcuni centri di ricerca nazionali e internazionali (Istat, Inapp, Ocse, Amsterdam Institute for Advanced Labour Studies) che, al di là delle fonti e delle metodologie di indagine differenti, concordano nell’indicare come il nostro Paese si collochi, in Europa, tra quelli con la più estesa copertura contrattuale. Dati che si trovano ben al di sopra, in ogni caso, rispetto alle soglie di percentuale minima di copertura della contrattazione collettiva che sono attualmente in sede di discussione, nell’ambito della Proposta di direttiva n. 682 del 2020 sui salari minimi adeguati nell’Unione Europea (UE).

Guardando poi a quali sono, nel dettaglio, i contratti che sono applicati ai lavoratori nel settore privato, in questo caso i dati Uniemens elaborati dal CNEL e riportati dalla Fondazione Di Vittorio forniscono un ulteriore elemento interessante. Emerge infatti come, nonostante i contratti siglati dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil (autonomamente o insieme ad altre sigle sindacali) corrispondano, sul piano quantitativo, solo al 24,8% dei 992 CCNL depositati, questi siano applicati al 97% dei lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva nel settore privato, con punte che si avvicinano al 100% nei macro-settori (rappresentanti dall’industria metalmeccanica, da quella chimica e alimentare), e una percentuale inferiore al 90% (nello specifico, 84,3%) solo nel macrosettore “plurisettoriale, microsettoriale e altri”, entro il quale sono ricompresi CCNL di diversa natura.

Questi elementi, naturalmente, invitano comunque a non abbassare la guardia su alcuni effetti che la moltiplicazione dei contratti collettivi nazionali, al di là della loro scarsa copertura contrattuale, portano con sé. Da una parte, come evidenziato nello stesso report della Fondazione, una prima conseguenza può essere rappresentata dalla pressione verso il basso, sui salari e sulle condizioni lavorative”, che i contratti “concorrenti” esercitano nei confronti dei “CCNL più consolidati e rappresentativi. In secondo luogo, la contemporanea presenza di un numero sempre maggiore di associazioni sindacali e datoriali nel panorama nazionale – e quindi una vera e propria “frammentazione” del sistema della rappresentanza – può rappresentare un ostacolo allo svolgimento delle trattative per il rinnovo di importanti contratti nazionali, nonché dare vita ad annosi contrasti giurisprudenziali. Paradigmatico di entrambi i processi è il caso della vigilanza privata, di cui si è parlato recentemente anche su questo Bollettino (G. Piglialarmi, Abusus non tollit usum. Brevi note sulle ragioni di un contratto, in Bollettino ADAPT, 2022, n. 17). Infine, il fatto che molti CCNL stipulati da soggetti di dubbia rappresentatività si applichino ad un esiguo numero di imprese – basti vedere, sotto questo aspetto, i dati riportati dall’analisi congiunta di INPS e CNEL del 2018 sui numerosi contratti nazionali che si applicano a meno di 5 aziende (esemplificativo in questo senso è il CCNL FAMAR per le imprese agricole e affini, che viene applicato da una sola impresa e copre 2 lavoratori) – testimonia come tanti contratti siano in effetti costruiti “su misura” rispetto alla istanze di singole aziende che sfuggono al campo di applicazione dei CCNL più consolidati.

La questione, quindi, invita a riflettere in maniera più ampia su quanto le stesse parti sociali possano agire, in via autonoma, per dare forza ai contratti nazionali, affinché continuino a mantenere quel ruolo di “autorità salariali” nei diversi settori (F. Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in DLRI, 1998, n. 78, p. 223). Sotto questo aspetto, negli ultimi rapporti Adapt sono stati evidenziati numerosi elementi di interesse. Da una parte è vero che le federazioni di Cgil, Cisl e Uil hanno mostrato, anche in questi ultimi due anni, importanti segnali di vitalità, arrivando a siglare 22 rinnovi di CCNL, in un anno profondamente condizionato dall’emergenza pandemica quale il 2020. Un dato che è quasi raddoppiato nel corso del 2021, con alcuni passaggi particolarmente importanti (si pensi alla conclusione della tornata contrattuale del settore metalmeccanico) e che è destinato a consolidarsi nel corso del 2022. Guardando però a un’analisi trasversale dei vari contratti, sono emersi anche alcuni limiti degli attuali contenuti e assetti della contrattazione nazionale. In primo luogo, la complessità nel governare efficacemente la dinamica salariale, attraverso meccanismi autonomi e preventivi dell’aumento dei minimi tabellari, quasi sempre slegati dalle linee guida poste da un livello interconfederale che fatica sempre più a governare i processi delle singole federazioni di categoria. A questo primo elemento si aggiunge il forte disallineamento tra contratti nazionali “moderni” – che hanno saputo introdurre tutele innovative nel campo di temi quali la sicurezza, la formazione e il welfare – e soluzioni negoziali che si sono limitate esclusivamente ad un rinnovo dei minimi tabellari. Infine, sullo sfondo, restano sempre due questioni: il debole coordinamento tra i diversi livelli di contrattazione, all’interno di molti contesti produttivi, come dimostra l’ampia autonomia regolatoria da parte della contrattazione aziendale in diversi settori; e la difficoltà di dirimere i conflitti che insorgono tra le imprese, sempre più disomogenee per grandezza e per caratteristiche. È questo insanabile conflitto che, spesso, tenta le imprese ad abbandonare il sistema di relazioni industriali per approdare alla ben nota contrattazione pirata, non a caso, definita come contrattazione priva di dinamiche di rivendicazione perché piegata a soddisfare le uniche esigenze organizzative dell’impresa.

Tutto ciò non toglie che l’impressione, in sintesi, è che la migliore risposta alle problematiche presentate possa giungere principalmente dagli stessi attori delle relazioni industriali, chiamati nei prossimi rinnovi nazionali a rispondere a sfide sempre più complesse attraverso soluzioni che sappiano essere allo stesso tempo pragmatiche e coraggiose. Potrebbe infatti essere questo il modo più efficace per far sì che i rinnovi contrattuali nazionali non rappresentino un mero rito simbolico ma mantengano la propria funzione anticoncorrenziale di riferimento nei vari settori del nostro mercato del lavoro, senza la necessità di particolari “invasioni di campo” da parte del legislatore.

Michele Dalla Sega

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@Michele_ds95

 

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