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Bollettino ADAPT 4 aprile 2022, n. 4
Come sovente accade, per gli operatori del diritto è dai casi pratici affrontati che emergono le riflessioni e i necessari momenti di approfondimento maggiormente proficui.
Ed ecco che, a fronte di una prospettata adesione (id est, associazione a tiolo oneroso) all’articolazione territoriale di una certa Confederazione datoriale, il titolare di un’azienda, sollecitato dal proprio consulente, pone la questione circa gli effetti che una tale iniziativa sortirebbe sui rapporti lavorativi già in essere e, segnatamente, se in tal modo divenisse vincolato all’applicazione del differente CCNL sottoscritto dall’organizzazione sindacale.
Sicché, senza necessità di scandire il “tormentato” percorso dell’efficacia soggettiva “limitata” dei contratti collettiva post corporativi (per una ricostruzione completa, P. A. Varesi, Pluralismo e rappresentatività sindacale 50 anni dopo lo Statuto dei lavoratori, Giornate di studio AIDLASS 5 e 6 maggio 2020), occorre invece confrontarsi con la mai – de facto – superata ricostruzione civilistica delle relazioni sindacali, operata dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665).
Per vero, nell’interpretare i termini di “sopravvivenza” degli artt. 2069 e 2070 c.c., facendo propria la riconduzione dell’autonomia collettiva «alle regole civilistiche, tanto da giustificare la definizione dei contratti in questione come negozi giuridici di “diritto comune”», è lo stesso organo supremo di nomofilachia a instillare la problematica di cui ci stiamo occupando, stabilendo che «Il comma 1 dell’art. 2070 cod. civ. (secondo cui l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione».
Tanto che, con la sola puntualizzazione che l’obbligo debba sorgere esclusivamente per i rapporti individuali intercorrenti fra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti (di recente, Cass. 13 ottobre 2021, n. 27923, “Ragioni della decisione”, sub 4), in modo assolutamente ricorrente la giurisprudenza di legittimità si è espressa distinguendo le fattispecie nel senso che, «in mancanza di tale condizione» ovvero in alternativa al vincolo per associazione, si ritengono altresì impegnate le parti che «abbiano espressamente aderito ai patti collettivi oppure li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente desumibile da una costante e prolungata applicazione, senza contestazione alcuna, delle relative clausole» (così, Cass. 31 dicembre 2021, n. 42097, “Considerato che”, sub. 5).
Tuttavia, un’analisi più accurata della giurisprudenza sembra condurre ad altra conclusione ovvero che la semplice “iscrizione” non sia, di per sé sola, idonea a creare un effetto cogente, come tale modificativo delle pattuizioni individuali già intercorse.
Piuttosto, attingendo da una più attenta interpretazione giurisdizionale, l’eventuale adesione ad un’organizzazione sindacale di categoria non rappresenterebbe altro che una delle declinazioni possibili dei c.d. “atti di volontà”, capaci, giuridicamente, di manifestare la comune intenzione di accettare che il rapporto di lavoro sia sottoposto a una specifica disciplina collettiva (in questi termini, Cass. 2 maggio 2019, n. 11537).
Peraltro, questo concorderebbe anche col constatare che, nell’Ordinamento attuale, non sussista affatto un principio di inscindibilità fra iscrizione a una certa organizzazione di rappresentanza e applicazione di un dato CCNL, poiché, tale evenienza «comporterebbe una limitazione della libertà [art. 39, comma 1 Cost.] per le parti del rapporto di lavoro di individuare il contratto collettivo più adatto al tipo di assetto aziendale» (Cass. 14 maggio 2003, n. 7465).
A bene vedere e chiudendo il cerchio, una tale interpretazione sembra anche aderire maggiormente alle posizioni ricostruttive contenute nella sentenza resa dalle Sezioni Unite poc’anzi richiamate, in quanto in un passaggio della pronuncia, si specifica «che dopo la soppressione dell’ordinamento corporativo i contratti collettivi […] possono avere efficacia soltanto in volentes, ossia, ancora, che la loro efficacia, non estesa alla generalità, è limitata a quanti, con l’iscrizione alle associazioni sindacali, hanno a queste conferito la rappresentanza dei propri interessi nella stipulazione dei contratti collettivi», dunque, come anzidetto, una adesione espressiva di una “caratteristica” rappresentanza (art. 1387 e s.s. c.c.).
Orbene, concludendo sulla fattispecie concreta in esame e alla luce dell’iter logico-giuridico approcciato, nessun problema inerente alla fonte eteronoma da applicare si poteva, comunque, porre. E questo per almeno due ordini di ragioni.
Per un verso, la struttura provinciale dell’organizzazione sindacale alla quale l’azienda presta adesione svolgeva essenzialmente (e come spesso accade oggi) attività di “servizi” all’impresa (inter alia, consulenza energetica, assicurativa, sicurezza del lavoro etc.), non occupandosi, nella sostanza, di contrattazione collettiva; per altro e decisivo verso, la stessa, approfondendo la sua dimensione endoassociativa, era parte di una certa Confederazione nazionale e non, invece, della particolare Federazione, effettiva sottoscrittrice del CCNL “non desiderato”.
Federico Avanzi
ADAPT Professional Fellow