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Bollettino ADAPT 14 marzo 2022, n. 10
È indubbio come i contratti collettivi siano uno strumento congiunto di governo del mercato di lavoro utilizzato dalle parti mediante cui vengono ricoperti innumerevoli aspetti della prestazione di lavoro, a partire da quello salariale. Il tema retributivo è oggetto di negoziazione fra sindacati e associazioni datoriali sin dall’origine della contrattazione collettiva, nonché argomento di ricerca della dottrina che guarda all’evoluzione del ruolo delle relazioni industriali nell’incidere nell’incontro fra domanda e offerta, dettando dei parametri per misurare la prestazione di lavoro.
Il working paper dell’ETUI Are collective agreements losing their bite si concentra precisamente su questo aspetto: è ancora possibile considerare i contratti collettivi e la contrattazione collettiva efficaci e rilevanti in tema di salario? Ossia, se ed in che modo gli accordi collettivi fra le parti possono incidere positivamente sul salario del lavoratore?
Il contesto delineato dal WP riferisce di un’involuzione della contrattazione collettiva in Europa, che nel periodo fra il 2002 ed il 2018 si è applicata a sempre meno lavoratori. In particolare, si sono registrate alcune tendenze che meritano nota: guardando al dato di copertura della contrattazione collettiva, il declino del tasso di applicazione del “collettivo” si è registrato in paesi già caratterizzati da percentuali medio-basse di negoziazione. Ancor più nello specifico, guardando al gruppo a medio-bassa copertura, il report sottolinea una generale tendenza ad uno spostamento dal livello decentralizzato a quello centralizzato di contrattazione. Il dato suggerisce come sia proprio questa diminuzione in termini di contrattazione decentralizzata ad aver influito nel calo della percentuale di applicazione della contrattazione collettiva. La tendenza appena descritta non è però stata osservata in modo eguale in tutti i paesi comunitari, dal momento che ad esempio in Polonia, Bulgaria, Cipro e Germania, l’involuzione della percentuale di copertura della contrattazione collettiva è stata invece accompagnata da un trend di decentralizzazione della stessa.
Diversamente, nei paesi ad alta copertura si sono registrati più bassi tassi di diminuzione di applicazione della contrattazione collettiva, contemporaneamente ad una tendenza ad una maggiore centralizzazione. Guardando ancora una volta al dato specifico, è poi possibile riconoscere differenze nel grado di centralizzazione all’interno degli stati ad alta copertura. Più specificamente, in paesi quali Belgio, Portogallo e Spagna nonostante il raccordo “centralizzazione-alta copertura”, si riferisce un alto ruolo della contrattazione aziendale.
Queste differenze in copertura e centralizzazione fra i diversi paesi dimostrano in ogni caso, nel periodo analizzato, una forte relazione fra gli elementi di centralizzazione e copertura. Il processo ha quindi portato ad una polarizzazione verso due clusters: da un lato, per l’appunto, i paesi ad alta copertura e alta centralizzazione, dall’altro, gli stati a bassa copertura ed applicanti una contrattazione decentralizzata (pur riconoscendo in alcuni casi tendenze alla centralizzazione, contemporaneamente alla diminuzione di accordi d’impresa). Viene quindi riconosciuto un legame generale fra sistemi centralizzati ed alta copertura contrattuale: l’equazione sembra dunque essere quella tale per cui per ottenere un alto livello di copertura contrattuale collettiva è necessario intervenire tramite un più alto livello di contrattazione, ovvero tramite il livello nazionale/centralizzato.
Affrontati quindi i fattori di descrizione generale di centralizzazione, ovvero di copertura, prima di affrontare lo specifico tema dei divari retributivi, è opportuno distinguere fra le diverse e plurali fonti che possono intervenire nella dinamica salariale, ossia: un qualsiasi contratto, un accordo centrale (prevalentemente nazionale o settoriale), aziendale ed in ultimo nessun accordo collettivo. Una prima risultanza fa innanzitutto riferimento a come il salario sia necessariamente definito dall’equazione di innumerevoli fattori, quali ad esempio l’età, l’educazione, l’occupazione, le ore lavorate ed il tipo di contratto: ogni sorta di accordo difatti “stima” una previsione di salario secondo i fattori dati.
Generalmente, appare poi come il salario e nello specifico i premi di risultati siano positivi a livello aggregato in tutti i modelli di contrattazione valutati; un primo dato che può essere tratto dall’analisi è dunque come la contrattazione, sia essa centralizzata o decentralizzata, tenda a maggiorare il salario dei lavoratori, rispetto invece a lavoratori, presi con stesse caratteristiche ed in una medesima categoria, ma la cui prestazione è determinata dal solo contratto individuale. Una prima motivazione può essere individuata nel fatto che, nei paesi a più alto tasso di contrattazione collettiva, e dunque in cui più lavoratori sono sottoposti ad accordi nazionali o di secondo livello, da un lato, coloro che sono sottoposti a contrattazione sono generalmente lavoratori della fascia medio-bassa, che dunque possono avvalersi della contrattazione collettiva per un miglioramento/maggiorazione del salario ovvero del premio di risultato; allo stesso tempo, dall’altro lato, coloro che rimangono al di fuori dell’ambito di applicazione degli stessi accordi, solitamente sono lavoratori ad alta professionalità, un fattore che giustifica i più alti salari di suddetti lavoratori e che al contempo descrive la mancanza di accordo sulla loro figura.
A supporto di tale tesi sulla preferibilità della contrattazione collettiva piuttosto che la mancanza della stessa, è opportuno anche riferire dati su di uno specifico elemento del salario ovvero il premio di risultato: il report ETUI riferisce come difatti lo stesso risulti in diminuzione in quei paesi in cui le percentuali di copertura della contrattazione collettiva sono in calo. Un esempio di questo stretto legame è riportato dai dati: si può infatti riconoscere come in Unione Europea la percentuale di lavoratori non coperti da alcun contratto collettivo sia aumentata fra il 2002 ed il 2018 di 19 punti percentuali, aumento associato secondo il WP ad una diminuzione del premio di risultato (e complessivamente anche del salario) di circa 3,5 punti percentuali, fra i soggetti cui è applicato un contratto collettivo e individui invece non coperti da alcuno. Ancora una volta si può riferire questo calo ad un minore potere contrattuale dei lavoratori, solitamente o precedentemente determinati dalla contrattazione collettiva, e che, senza l’ausilio di accordi categoriali nazionali ovvero aziendali, non hanno la possibilità, al pari dei soggetti ad alta professionalità, di porre in essere contrattazione individuale sui temi del salario.
Se dunque generalmente la contrattazione è preferibile ad una situazione priva di accordi collettivi, un secondo dato da sottolineare, è la registrazione di una tendenza ad una maggiorazione dei salari e dei premi quando questi siano inseriti in un accordo nazionale piuttosto che in un contratto decentralizzato (di impresa). Il report riferisce difatti nella metà dei paesi comunitari ampie differenze delle medie di salario per i lavoratori coperti da accordo centralizzato piuttosto che decentralizzato.
Ancora, questo “favore” nei confronti della contrattazione centralizzata può anche rinvenirsi in altri due fattori, quali: l’elemento di evoluzione temporale, che descrive come, anche se inizialmente il salario era inferiore negli accordi nazionali piuttosto che in quelli di cui al secondo livello, si può riconoscere una tendenza verso una maggiore perequazione della retribuzione nel tempo nel primo (esempi sono la Grecia, il Portogallo ed il Belgio); la presenza in salario di premi ancora positivi anche in caso di bassa copertura di contrattazione collettiva, quando si sia in presenza di modelli di contrattazione centralizzata.
Le evidenze riportate ben sottolineano come la contrattazione collettiva sia ancora strumento necessario ai lavoratori per la misurazione corretta e confacente del salario, nonché per assicurarsi una sua maggiorazione. Tuttavia, è altrettanto indubbio come su questi aspetti incida la vincolatività, dunque il potere negoziale, che significa quanto le parti sociali abbiano potere nella contrattazione e, conseguentemente, a quanti lavoratori è successivamente applicato l’accordo e che sono sottoposti allo stesso.
Il WP riferisce difatti un collegamento fra la misura del premio salariale ed il potere contrattuale: se è solito associare il premio di risultato al potere di negoziazione delle associazioni sindacali, dunque considerando tale elemento del salario come di per sé un indice del potere contrattuale, è opportuno integrare la riflessione sul modello sociale e di relazioni industriali prevalenti nel paese, così da tenere in considerazione tutti quei fattori politico-istituzionali che contestualmente contribuiscono a rendere il contratto collettivo di così ampia estensione e peso (anche con riferimento al tema del salario).
Concludendo, l’analisi sottolinea come un rafforzamento della contrattazione collettiva, oltre agli obiettivi di generali in termini di rappresentanza del lavoratore e qualità del lavoro stessa, tutti aspetti che indubbiamente sono coperti dall’ambito d’azione delle relazioni industriali, sia ancora importante a livello di un rimodernato governo del sistema sempre in trasformazione del mercato del lavoro, contribuendo ad una nuova misurazione della prestazione di lavoro, secondo indici di benessere per il lavoratore e di contribuzione alla creazione di ricchezza per le stesse aziende e la società.
ADAPT Junior Fellow