Le conciliazioni in sede sindacale tra “formalismi”, oneri probatori e contrattazione collettiva


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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024 n. 43

 

Non sono passate di certo inosservate le recenti pronunce della Corte di Cassazione riguardanti i presupposti affinché una conciliazione esperita in sede sindacale possa sortire gli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ. e cioè l’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni concordate dalle parti. I nuovi approdi giurisprudenziali, infatti, stanno facendo discutere tutti gli attori coinvolti nei processi di negoziazione dei c.d. verbali tombali, cioè quegli accordi in cui le parti del rapporto di lavoro dirimono in via definitiva ogni lite in occasione della relativa cessazione.

 

Con ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sia necessario che la conciliazione sia sottoscritta presso una sede sindacale intesa nella sua dimensione “materiale”, essendo piuttosto sufficiente che il lavoratore (o la lavoratrice) sia pienamente informato e reso consapevole da un sindacalista circa le conseguenze giuridiche derivanti dalla sottoscrizione dell’accordo. In altri termini, ciò che è essenziale, ai fini della validità di una conciliazione in sede sindacale e della produzione degli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ., è che il sindacalista aiuti il lavoratore a comprendere e valutare la convenienza dell’accordo rispetto all’oggetto della lite, accertandosi che la sua volontà non sia stata coartata o condizionata (anche) dal datore di lavoro. In tale quadro, nell’ordinanza la Corte precisa che la sede sindacale nella sua accezione fisico-topografica non rappresenterebbe un requisito formale ma solo “funzionale” ad assicurare al lavoratore l’esercizio di un libero convincimento, senza alcun condizionamento (cfr. punto 5 dell’ordinanza). Se, però, il lavoratore ha effettivamente ricevuto una adeguata assistenza sindacale, il fatto che poi l’accordo sia stato sottoscritto presso la sede aziendale (nel caso di specie, uno studio oculistico) non rileva, con conseguente idoneità dell’accordo a produrre l’effetto dell’inoppugnabilità previsto dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.

 

Sennonché, qualche mese dopo, la Suprema Corte è ritornata sulla questione: nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, gli ermellini hanno sostenuto che la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette. Secondo la Corte, i luoghi designati dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.  sono tassativi e non ammettono alternative, «sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia perché in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro» (cfr. punto 18 dell’ordinanza). Pertanto, la sede sindacale alla quale farebbe riferimento tanto l’art. 2113, comma 4 cod. civ. che l’art. 411, comma 3, cod. proc. civ., non va intesa solo come “luogo virtuale di protezione” del lavoratore, integrata dalla sola presenza del sindacalista, bensì anche come “luogo fisico-topografico”.

 

Nel registrare l’esistenza di due orientamenti tra loro parzialmente in contrasto – rispetto ai quali sarebbe auspicabile un intervento nomofilattico da parte della stessa Corte – v’è però da notare, in prima battuta, che l’eventuale verbale di conciliazione sottoscritto in una sede che non sia quella “fisica” dell’associazione sindacale non darebbe luogo automaticamente ad una invalidità dell’atto, essendo sempre possibile dimostrare che, in realtà, il lavoratore (o la lavoratrice) sia stato messo nelle condizioni di poter maturare il suo libero convincimento grazie ad una effettiva assistenza del sindacalista. È questa, del resto, la conclusione alla quale perviene l’ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975: se la conciliazione è stata conclusa nella sede sindacale intesa in senso “materiale”, posto che la prova della piena consapevolezza dell’atto dispositivo del lavoratore può dirsi in re ipsa o desumersi in via presuntiva «graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale»; diversamente, laddove la conciliazione sia stata conclusa in una sede diversa, l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante l’assenza di una sede protetta intesa in senso “fisico”, il lavoratore, grazie all’effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto modo di comprendere contenuto ed effetto delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.

 

Posta in questi termini, dunque, la questione si sposterebbe semmai sull’eventuale ripartizione degli oneri probatori, anche perché non è sempre detto che per il solo fatto che la negoziazione dell’accordo si sia svolta presso una sede sindacale il lavoratore sia stato adeguatamente assistito ai fini del compimento delle dovute valutazioni che occorre fare in una fase in cui si sta per rinunciare definitivamente all’accertamento dei diritti connessi al rapporto di lavoro, molti dei quali inderogabili e quindi indisponibili. Pertanto, anche laddove dovesse accertarsi che la conciliazione sia stata conclusa non presso la sede sindacale ma in presenza di un sindacalista che abbia effettivamente assistito il lavoratore, l’accertamento dell’invalidità della conciliazione dipenderebbe dalla capacità del datore di lavoro di dimostrare che il lavoratore non ha subito alcun condizionamento e che sia stato adeguatamente assistito.

 

Inoltre, a non convincere del tutto il rigido orientamento assunto dalla Corte nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, sovviene la lettera della legge la quale, proprio con riferimento alla conciliazione in sede sindacale, riconosce un significativo spazio di regolazione alla contrattazione collettiva. L’art. 412-ter cod. proc. civ., infatti, prevede che la conciliazione può essere esperita «altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». Dunque, il contratto collettivo – a qualunque livello esso sia sottoscritto (nazionale, territoriale o aziendale) posto che la norma nulla dice al riguardo – ha il potere di definire delle modalità conciliative proprie, che possono anche prescindere dalla fisicità del luogo, purché idonee a tutelare la posizione di debolezza negoziale del lavoratore, dati gli effetti che scaturiscono da un accordo di conciliazione ex art. 2113, comma 4 cod. civ. È in questa cornice concettuale che deve essere ricondotto il recente accordo collettivo territoriale sottoscritto a Treviso il 22 ottobre 2024, da Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali Cgil, Cisl e Uil. Coltivando legittimamente il rinvio che l’art. 412-ter cod. proc. civ. depone in favore della contrattazione collettiva, l’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est», se coinvolta.

 

Allo scopo di garantire un adeguato livello di tutela al lavoratore, l’accordo prevede che l’organizzazione sindacale che assiste il lavoratore debba poter essere messa al corrente del luogo ove si svolgerà la conciliazione, in modo tale da poter verificare preventivamente se vi siano i rischi di particolari condizionamenti del lavoratore. Non solo; a presidio di una maggiore tutela del lavoratore, l’accordo prescrive anche la necessaria e contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto. L’accordo, dunque, definisce una procedura nel pieno rispetto degli spazi di regolazione che la legge affida all’autonomia collettiva, senza che da questa possano desumersi particolari vincoli spaziali o procedurali. È in questo senso che si giustifica la scelta delle organizzazioni sindacali di non porre l’accento sulla dimensione fisica del luogo ma sulle procedure, evidentemente consapevoli anche del fatto che l’unico precedente giurisprudenziale a propendere per una concezione anche “fisica” di sede sindacale riguarda un caso in cui le parti del rapporto avevano conciliato senza seguire delle procedure definite da alcun accordo o contratto collettivo, seguendo piuttosto la prassi (cioè conciliare presso i locali aziendali e in assenza di una disciplina collettiva di riferimento che autorizzi una tale procedura prevedendo delle contromisure).

 

Nicoletta Serrani

ADAPT Labour Lawyers associate

@Nicserrani

 

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