ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18
Sì, sono quasi 1.000 i CCNL depositati al CNEL (992 al 31 dicembre 2021). Tuttavia, consultando i dati provenienti dagli Uniemens, emerge il fatto che soltanto 419 CCNL sono rilevati nel 2021 in queste dichiarazioni.
Anche decurtando dal totale dei CCNL depositati al CNEL nel 2021 (992) i CCNL del settore Agricoltura (A) e Lavoro domestico (H1) che non sono rilevati negli Uniemens1, risulta che soltanto il 46% dei CCNL depositati al CNEL è utilizzato o almeno rilevato nelle denunce mensili Uniemens, mentre il restante 54%, non lo è. Sarebbe quindi opportuno, nella comunicazione pubblica e anche nel confronto politico, sottolineare questo dato per evitare equivoci e malintesi su una presunta patologia del nostro sistema di relazioni industriali.
CCNL depositati al CNEL e rilevati in Uniemens – Anno 2021 |
||
CCNL Depositati al CNEL | 992 | |
CCNL settore Agricoltura (A) | 57 | |
CCNL settore Lavoro domestico (H1) | 29 | |
CCNL depositati al CNEL senza CCNL settore Agricoltura e Lavoro domestico | 906 | |
CCNL rilevati in Uniemens | 419 | 46% |
Differenza CCNL depositati e rilevati | 487 | 54% |
Fonte: Elaborazione su dati Archivio dei contratti collettivi nazionali di lavoro depositati al CNEL [file: “CCNL settore privato 29 aprile 2022”] e CNEL, 14° Report periodico dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro vigenti depositati nell’Archivio CNEL, dicembre 2021).
Va anche segnalato che questo 46% dei CCNL depositati, rilevati e quindi utilizzati, sono applicati a 12.914.115 di lavoratori dipendenti del settore privato, impiegati presso 1.461.446 di datori di lavoro. Emerge poi che di quei 419 CCNL applicati, sono 162 (cioè 38,7% degli applicati e 17,9% dei depositati senza CCNL settore Agricoltura e Lavoro domestico) firmati da CGIL-CISL-UIL coprono 12.527.049 di lavoratori (97,0%) rilevati nei flussi Uniemens (v., anche, N. Giangrande, I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro: numero di contratti, lavoratori interessati, ruolo dei sindacati confederali, Fondazione Di Vittorio, 3 maggio 2022).
Tutti questi dati smentiscono dunque categoricamente chi afferma che queste sigle sindacali non governano più la contrattazione collettiva per la maggior parte della forza lavoro oppure che lasciano scoperti moltissimi lavoratori. E smentiscono anche quanti sollevano l’urgenza di una legge sindacale o di una legge sul salario minimo legale sul presupposto, non fondato, di una estrema polverizzazione del nostro sistema di contrattazione collettiva.
Per quanto riguarda i livelli retributivi, i dati ISTAT (novembre 2020) rilevano retribuzioni contrattuali orarie lorde da un minimo di 6,15 euro degli operai agricoli con la qualifica più bassa ad un massimo di 56,85 euro per le figure apicali del settore del credito, con un valore medio di 14,00 euro e quello mediano è 12,57 euro (v. ISTAT, Memoria scritta dell’Istituto nazionale di statistica, Audizione della 11° Commissione del Senato della Repubblica sulla Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (n. COM(2020) 682 definitivo), 20 gennaio 2021).
Con riferimento, invece, alla retribuzione lorda per ora lavorata, nel 2019 l’ISTAT ha calcolato un valore medio di 18,2 euro per il totale dell’economia per i dipendenti regolari, che diventava di 17,1 euro se si computano anche i lavoratori irregolari. Infatti, l’ISTAT stima per questi lavoratori una retribuzione media pari a poco meno della metà di quella dei lavoratori regolari e un tasso di irregolarità pari a 15,1%, misurato come dipendenti irregolari sul totale in unità di lavoro equivalenti a tempo pieno. Sono inoltre individuati il settore agricolo e quello del lavoro domestico come i settori con la maggiore incidenza di irregolarità pari rispettivamente al 39,7% e al 58,6% delle unità di lavoro equivalente a tempo pieno. Queste evidentemente determina un forte impatto sulla retribuzione lorda per ora lavorata, che infatti in questi settori è calcolata in 9,2 euro nel settore agricolo e di 7,3 euro per il lavoro domestico, i valori più bassi registrati tra tutti i settori (v. ISTAT, Memoria scritta dell’Istituto nazionale di statistica, Audizione della 11° Commissione del Senato della Repubblica sulla Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (n. COM(2020) 682 definitivo), 20 gennaio 2021, p. 8 e 9).
Per ragionare sull’eventuale necessità, come da qualcuno sostenuto, del salario minimo legale per garantire livelli retributivi minimi adeguati, sono utili alcuni altri dati relativi alle posizioni lavorative a “bassa retribuzione”, individuate come quelle con retribuzione oraria inferiore ai 7,66 euro lordi (dati 2018). Sempre l’ISTAT informa che sono circa il 6% (5,9%) del totale delle posizioni: concentrate in alcune specifici settori (in particolare 22% nel settore “Altre attività di servizi”: servizi alla persona e attività di organizzazioni economiche, di datori di lavoro e professionali); più diffuse tra le donne (6,5%) rispetto agli uomini (5,5%); tra gli stranieri (8,7%) rispetto agli italiani (5,4%); tra i giovani sotto i 29 anni (10,9%) in confronto delle classi di età più adulta (sotto al 5%); nelle imprese di piccole dimensioni (meno di 10 dipendenti) (7,6%) rispetto alle imprese con almeno 250 dipendenti (4%); al Sud (9,5%) più del Centro (6,5%), del Nord ovest (4,9%) e del Nord Est (4,1%) (v. ISTAT, Memoria scritta dell’Istituto nazionale di statistica, Audizione della 11° Commissione del Senato della Repubblica sulla Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (n. COM(2020) 682 definitivo), 20 gennaio 2021, p. 7).
I dati mostrano che i lavoratori che si trovano nelle posizioni a più bassa retribuzione sono appartenenti a categorie note come le più svantaggiate sul mercato del lavoro. Ma questo non può dipendere dalle retribuzioni fissate dalla contrattazione collettiva, perché queste non discrimino tra uomini e donne, italiani e stranieri ecc. Pertanto, il problema del lavoro povero (se non per alcune figure professionali o settori specifici) non pare potersi attribuire alle retribuzioni fissate dalla contrattazione collettiva, ma piuttosto dalla modalità di applicazione dei contratti nei confronti delle diverse categorie di lavoratori o nei diversi contesti (aziendali o geografici) e dalle caratteristiche del rapporto di lavoro.
Il problema delle posizioni lavorative a “bassa retribuzione” non può essere nemmeno attribuito all’elevato numero di CCNL o dei contratti definiti in gergo sindacale “pirata”, poiché si è già detto che i CCNL effettivamente applicati sono meno della metà di quelli depositati e ancora meno sono quelli applicati alla stragrande maggioranza dei lavoratori.
Invece, per i dati sopra indicati, il problema dei lavori a bassa retribuzione dovrebbe essere ricercato nell’alta diffusione del lavoro irregolare che lascia i lavoratori privi di ogni tutela, compresa quella relativa ai salari minimi contrattuali. Altre cause del lavoro povero sono la discontinuità e frammentarietà dei rapporti di lavoro e il limitato numero di ore di lavoro (c.d. part time involontario). A tutto ciò, ci aggiunge anche la crescente diffusione di lavoro occasionale o di forme di lavoro senza contratto (tirocini extracurriculari) che per definizione sono escluse dalla applicazione della contrattazione collettiva.
Se tutto ciò è vero, non si può allora sostenere che la contrattazione collettiva non sia in grado di garantire la fissazione di minimi retributivi adeguati (tranne per alcune identificate basse qualifiche e per alcuni specifici e limitati settori), perché appunto le posizioni lavorative a bassa retribuzione oraria (low pay jobs) sono determinate proprio dalla non applicazione o dalla applicazione non corretta dei contratti collettivi, dall’impiego di stagisti, collaboratori autonomi, lavoratori part-time involontari, lavoratori occasionali e temporanei. Vero anche che la contrattazione collettiva è molto di più della semplice fissazione di un salario. È un processo sociale di costruzione e crescita dei mercati del lavoro, delle professionalità, del welfare negoziale e contrattuale che concorre a creare i presupposti della produttività e della creazione di valore che è la sola ricetta credibile per impostare il problema redistributivo che è il punto terminale di ogni ragionamento e non il punto di inizio (cfr. R. Brunetta, M. Tiraboschi, Salari e nuova questione sociale: la via maestra delle relazioni industriali, Working Paper ADAPT n. 4/2022, p. 11).
Invocare, allora, il salario minimo legale come soluzione per tutelare le fasce di lavoratori che percepiscono basse retribuzioni significa non conoscere le dinamiche retributive sopradescritte, né le relazioni industriali (si veda il webinar ADAPT, La proposta europea di salario minimo: quale impatto su contrattazione e rappresentanza?, 11 novembre 2020). Veramente si crede che qualcuno, magari una commissione di professori designati dalla politica, sia in grado di definire la tariffa meglio degli attori sociali che rappresentano imprese e lavoratori dei diversi settori produttivi? (cfr., anche, M. Dalla Sega, Il ruolo della CCNL oggi, tra autonomia negoziale e interventismo: qualche spunto da alcune ultime analisi sulla contrattazione in Italia, in Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18).
Inoltre, la richiesta del salario minimo legate come soluzione al lavoro povero rischia di essere semplicistica, perché la questione è anche di effettività. Il salario minimo legale non garantisce maggiore effettività rispetto al salario minimo contrattuale. In entrambi i casi, è necessario il rispetto della previsione normativa, legale o contrattuale (S. Spattini, Salario minimo legale: quando semplificare significa negare la complessità del lavoro, in Bollettino ADAPT 27 settembre 2021, n. 33), che può facilmente essere disattesa. Esempio ne è il lavoro irregolare, che sfuggirebbe dalle maglie del salario minimo legale, come sfugge da quelle dei salari minimi contrattuali.
Infine, se il problema del lavoro povero non è la fissazione di minimi retributivi adeguati da parte della contrattazione che risultano, allo stato e fatta eccezione per il caso particolare del lavoro domestico, superiori alle cifre indicate nelle diverse proposte legislative (vedi lo studio su Salario minimo e contrattazione collettiva curato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano richiamato recentemente da Pietro Ichino) e la contrattazione collettiva copre ancora una percentuale altissima di lavoratori, la soluzione al lavoro povero e a basse retribuzioni non è l’introduzione del salario minimo legale. Questo è dimostrato anche dalla comparazione. Infatti, i paesi che dagli anni’90 del Novecento ad oggi hanno introdotto il salario minimo legale come strumento per combattere il fenomeno del lavoro povero, lo hanno fatto perché hanno visto inesorabilmente diminuire la copertura della contrattazione collettiva ben sotto l’80%. Al contrario i paesi europei che insieme all’Italia non hanno salari minimi legali hanno coperture contrattuali oltre questa soglia (S. Spattini, La proposta europea di salario minimo legale: il punto di vista italiano e comparato in Bollettino ADAPT 21 settembre 2020, n. 34 (articolo aggiornato il 10 novembre 2020) e Salario minimo legale vs contrattazione collettiva in Italia e in Europa, in Bollettino ADAPT 23 marzo 2015, n. 11).
Se i sostenitori della legge sul salario minimo legale o della legge sulla rappresentanza e l’efficacia generalizzata del contratto collettivo hanno buoni argomenti per sostenere l’inadeguatezza del sistema contrattuale italiano rispetto alla fissazione di minimi retributivi, è ora di tirarli fuori. La storiella dei 1.000 contratti collettivi nazionali davvero non regge e sorprende che provenga da autorevoli studiosi che pure per lungo tempo hanno avuto ruoli istituzionali presso il nostro ente previdenziale con tutta la possibilità dunque di conoscere la realtà di questi contratti e delle dinamiche retributive sottostanti.
Silvia Spattini
Direttrice ADAPT
@SilviaSpattini
Coordinatore scientifico ADAPT
1 «Sono esclusi i CCNL del settore “agricoltura” e “lavoro domestico”, perché in tali settori le informazioni su aziende e lavoratori affluiscono all’INPS almeno in parte attraverso flussi informativi diversi da UNIEMENS», CNEL, Foglio “guida al file”, CCNL settore privato 29 aprile 2022.