Contrattazione decentrata: un mondo ancora da esplorare*
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Bollettino ADAPT 3 giugno 2024 n. 22
Il XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, approvato dalla Assemblea del CNEL lo scorso 18 aprile, ha evidenziato come la conoscenza della contrattazione collettiva decentrata in Italia sia ancora molto limitata e parziale. Si deve in effetti tornare a inizio secolo per ritrovare un tentativo istituzionale, seppure episodico, di indagine campionaria nel senso tecnico del termine del fenomeno (segnatamente i contratti decentrati sottoscritti tra il 1995 e il 2000), in una epoca in cui l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro del CNEL si faceva opportunamente carico di raccogliere e monitorare non solo i contratti nazionali di categoria ma anche la contrattazione territoriale e quella aziendale (CNEL, La contrattazione aziendale nel settore privato dell’economia, 2002). Tentativo che non ha avuto seguito a causa del progetto di soppressione del CNEL che, seppure non riuscito, ha fortemente limitato, attraverso un drastico taglio di risorse, le attività di manutenzione e implementazione dell’archivio nazionale dei contratti che, negli ultimi dieci anni, è così diventato poco più di un archivio dei contratti nazionali (fatta eccezione per la contrattazione del settore pubblico rispetto alla quale vige un obbligo di deposito).
Il tema del monitoraggio della contrattazione collettiva decentrata è invero tutt’altro che secondario per chi abbia a cuore le sorti del nostro Paese, non solo per l’esigenza di una attendibile conoscenza delle dinamiche contrattuali di ciascun settore economico o produttivo, così da ricostruire i raccordi tra contrattazione di primo e secondo livello, ma anche per venire a capo di questioni che penalizzano da decenni crescita e coesione sociale. Pensiamo alla questione salariale, che non può essere compresa unicamente tramite la contrattazione nazionale di categoria; e pensiamo al nodo storico della produttività che non fa passi in avanti pur in presenza di ingenti risorse pubbliche destinata al sostegno e promozione della contrattazione decentrata di produttività. Poco aiutano, in proposito, i pur preziosi report mensili del Ministero del lavoro che si limitano infatti ad analisi quantitative con riferimento cioè al numero e alla distribuzione geografica dei contratti aziendali e territoriali depositati presso le direzioni territoriali del lavoro ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo n. 151 del 2015.
Accanto ad analisi condotte, tendenzialmente in modo episodico e frammentario, da singoli studiosi e ricercatori, assumono pertanto particolare importanza le rilevazioni condotte dalle stesse parti sociali. Confindustria raccoglie (dal 2013) informazioni sulla contrattazione decentrata e sui suoi contenuti nell’ambito della annuale indagine sul lavoro condotta presso un campione di circa 4.000 imprese associate. Analisi dirette sui testi contrattuali di secondo livello sono poi condotte da Cgil e Cisl e, più recentemente, seppure su un numero più limitato di contratti, anche dalla Uil. Chi volesse conoscere le dinamiche della contrattazione decentrata in Italia non può dunque non esaminare i rapporti periodicamente prodotti dalla Cisl (attraverso l’osservatorio OCSEL, a partire dal 2012 per un totale di 14.911 contratti esaminati), dalla Cgil (con la Fondazione Di Vittorio, a partire dal 2019, su un campione complessivo di 5.755 contratti stipulati tra il 2015 e il 2023) e dalla Uil tramite il progetto Digit@Uil avviato nel 2017 (progetto che ha sinora raccolto e analizzato 791 contratti aziendali sottoscritti tra il 2012 e il 2023).
Che l’interesse per lo studio della contrattazione collettiva si ravvivi attorno al 2012 non è un dato casuale risalendo a questa fase storica la forte sollecitazione delle istituzioni europee verso l’Italia a rilanciare la contrattazione decentrata come stimolo alla produttività e alla crescita. Lo sforzo delle organizzazioni sindacali confederali, per nulla banale in termini organizzativi e financo politici, considerata le sensibilità delle associazioni datoriali e delle stesse federazioni sindacali di categoria circa l’opportunità di far circolare testi negoziali riservati o comunque strategici, è senz’altro meritevole e da seguire con attenzione per il prezioso contributo alla conoscenza di un fenomeno ampiamente sconosciuto nonostante il forte radicamento almeno nelle imprese di maggiori dimensioni. Come ricorda il citato rapporto CNEL, richiamando sul punto l’azione di monitoraggio statistico sulla contrattazione decentrata da parte di ISTAT, il 23,1% delle imprese con almeno 10 dipendenti del settore privato extra-agricolo applica un contratto collettivo di livello decentrato. I lavoratori occupati in imprese dove si applica un contratto decentrato sono conseguentemente stimati attorno al 55,1% dei dipendenti totali (parliamo, giova ripetere, delle sole imprese con almeno 10 dipendenti).
Ora, non è facile far dialogare tra loro le banche dati e i rapporti prodotti da Cgil, Cisl e Uil, così da cercare di mettere a fattor comune la significativa mole di dati che, nel tempo, sono stati prodotti. Un tentativo di comparazione è comunque possibile e consente di delineare qualche tendenza di massima invero in larga parte scontata. Pensiamo ai dati relativi alla diffusione geografica del fenomeno (i contratti collettivi di secondo livello sono sottoscritti il larga prevalenza nel Nord Italia) o settoriale (a farla da padrone è il settore manifatturiero, la metalmeccanica su tutti), ma anche, seppure per sommi capi, in funzione delle materie oggetto di negoziazione (prevalgono i salari e i premi di produttività, seguiti a ruota da tematiche di relazioni industriali come diritti di informazione e diritti di partecipazione, nonché materie come il welfare e orario di lavoro).
Tale preziosa base informativa sconta comunque tutti i limiti che derivano dalla disomogeneità dei metodi di archiviazione dei contratti collettivi e dai diversi criteri di costruzione delle diverse banche dati a partire dai metodi di raccolta e catalogazione. È infatti inevitabile che la pluralità di organizzazioni sindacali e centri studi che le sostengono e le diverse professionalità coinvolte impegnate nella attività analisi (ricercatori accademici, ricercatori non accademici, operatori e funzionari sindacali) si traduca anche in una ampia eterogeneità dei criteri di valutazione e sistematizzazione del materiale contrattuale. Una eterogeneità che, da un lato, è una ricchezza, perché sintomo di un crescente interesse alla materia ma che, dall’altro lato, inficia la qualità delle informazioni di cui si dispone anche a causa della non sovrapponibilità della base contrattuale e dei periodi di osservazione. Ciascuna organizzazione ha insomma la propria tecnica di raccolta dei testi contrattuali e non emerge, allo stato, un impegno comune per contribuire a una maggiore e minore conoscenza del fenomeno. Diverse sono le categorie tematiche nelle quali sono ricondotti le clausole contrattuali così come diversi sono financo i settori economici di riferimento che ciascuna banca dati utilizza per organizzare gli accordi. Così come ambigui sono i criteri di collocazione geografica per i quali si imputa un accordo a un territorio piuttosto che a un altro (il luogo della sottoscrizione piuttosto che la sede legale dell’azienda ovvero la sede di collocazione geografica del singolo impianto produttivo o stabilimento ecc.).
In assenza di un obbligo di deposito legale della contrattazione aziendale, che aiuterebbe non poco a un ordinato sviluppo del nostro sistema di contrattazione collettiva e in assenza, conseguentemente, di una azione di monitoraggio istituzionale da parte del CNEL o di altra istituzione pubblica, sarebbe oltremodo prezioso un coordinamento delle diverse fonti di archiviazione e monitoraggio ad opera delle parti sociali quantomeno in termini di uniformità dei metodi di archiviazione e di analisi del materiale contrattuale. È questa l’unica strada per rendere possibile un benchmark efficace tra i diversi rapporti realizzati da ogni singolo attore sindacale dal quale potrebbero ricavarsi, a beneficio reciproco, informazioni maggiormente attendibili così da avvicinarci alla esperienza di altri Paesi europei dove periodicamente sono rilasciati rapporti istituzionali di analisi e sistematizzazione di migliaia di accordi collettivi che contribuiscono a esplorare le cause dei problemi del mercato del lavoro e le loro possibili soluzioni nei territori e nelle aziende ad integrazione di quanto di buoni fa la contrattazione nazionale.
Università di Modena e Reggio Emilia
*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 22/2024