sede protetta

Varato il “correttivo” del Codice appalti pubblici: vincono i sistemi di contrattazione collettiva genuini ma la partita non è ancora del tutto chiusa

Varato il “correttivo” del Codice appalti pubblici: vincono i sistemi di contrattazione collettiva genuini ma la partita non è ancora del tutto chiusa

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

 

Bollettino ADAPT 7 gennaio 2025, n. 1

 

Il 23 dicembre 2024 il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il decreto correttivo al Codice degli appalti pubblici. Il decreto legislativo, che modifica e integra il d.lgs. n. 36/2023, entrerà in vigore dal 1° gennaio 2025. L’attuale articolato normativo presenta non poche differenze rispetto alla prima bozza, che aveva fatto tanto discutere e rispetto alla quale non poche critiche erano state sollevate da parte delle organizzazioni sindacali e datoriali (sul punto si vedano F. Chirico, Correttivo codice appalti pubblici: la posizione dei sindacati e A. Sannipoli, Correttivo codice appalti pubblici: la posizione delle associazioni datoriali, in Bollettino speciale ADAPT 11 dicembre 2024, n. 7).

 

Le perplessità maggiori avevano riguardato la definizione dei criteri per determinare il grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali firmatari dei CCNL da applicare nell’ambito degli appalti pubblici, ritenuti inadeguati e non in grado di intercettare i soli sistemi contrattuali effettivamente espressione della fattispecie tutelata dall’articolo 39 della Costituzione (sul punto si veda G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, Riforma codice appalti pubblici: una spallata alla tenuta del sistema di relazioni industriali, in Bollettino speciale ADAPT 11 dicembre 2024, n. 7). Criteri che ora sono stati espunti dal testo (quasi) definitivo del decreto correttivo; un segno tangibile del fatto che il Governo ha dovuto fare “marcia indietro” sulla misurazione della rappresentatività sindacale, una tematica lacerante e divisivo specie se non concertata con le parti sociali. Ma gli elementi di novità non terminano qui.

 

L’art. 2 del decreto correttivo nella sua ultima versione introduce alcune specifiche riguardanti l’obbligo di indicare nel bando di gara, a certe condizioni, anche i contratti collettivi da applicare alle attività “scorporabili, secondarie, accessorie o sussidiarie” rispetto a quelle oggetto dell’appalto. Si tratta, nei fatti, di una “deroga” al criterio dell’attività prevalente di cui all’art. 11, comma 1 del d.lgs. n. 36/2023. Peraltro, il decreto correttivo prevede ora che anche per le attività marginali o secondarie sia possibile applicare un CCNL diverso purché si dimostri che questo attribuisca il medesimo livello di tutele del CCNL che dovrebbe essere applicato in ragione dell’attività (secondaria o scorporata) da eseguire.

 

L’art. 73 del decreto correttivo innova anche l’Allegato I.01, che andrà a confluire nel d.lgs. n. 36/2023, e che stabilisce i criteri e le modalità per individuare il CCNL da applicare ai lavoratori nell’ambito degli appalti pubblici. Rispetto al testo previgente, un elemento di novità è rappresentato dal fatto che, ai fini della individuazione del CCNL di cui all’art. 11, comma 1 del d.lgs. n. 36/2023, l’art. 2, comma 3, lett. a) dell’Allegato impone di fare riferimento ai contratti collettivi utilizzati dal Ministero del Lavoro per determinare il costo medio del lavoro nei diversi settori (funzione che l’art. 41, comma 13 del d.lgs. n. 36/2023 affida esplicitamente al Dicastero). Laddove manchino, l’art. 2, comma 3, lett. b) dell’Allegato consente alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti di chiedere al Ministro del Lavoro quale sia il CCNL corrispondente ai criteri stabiliti dall’art. 11 del d.lgs. n. 36/2023.

 

All’art. 3 del medesimo Allegato viene ribadita la regola della equivalenza presunta rispetto ai CCNL che disciplinano le medesime attività d’impresa ma si differenziano in ragione della natura giuridica dell’impresa che lo applica (cooperative, imprese artigiane, PMI). Regola che peraltro viene maggiormente esplicitata per il settore edile: al comma successivo, con una disposizione “di dettaglio”, si stabilisce che i CCNL aventi i codici CNEL F012 (CCNL imprese edili e cooperative sottoscritto tra Ance, Legacoop Produzione e Servizi, Confcooperative Lavoro, Servizi e Agci Produzione e Lavoro e Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil), F015 (CCNL imprese artigiane e  PMI dell’edilizia e affini sottoscritto tra Cna Costruzioni, Anaepa Confartigianato, Fiae Casartigiani, Claai Edilizia e Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil) e F018 (CCNL PMI edili ed affini sottoscritto tra Confapi Aniem e Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil) possono considerarsi equivalenti in via presuntiva.

 

L’art. 4 dell’Allegato innova invece l’elenco delle voci-parametri attraverso le quali misurare l’equivalenza delle tutele tra CCNL: da 12 voci si passa a 14 voci. In particolare, sono stati aggiunti gli obblighi di denuncia agli enti previdenziali e assicurativi e la disciplina sulla formazione in materia di sicurezza sul lavoro. Si tratta di ulteriori parametri rispetto ai quali se non c’è perfetta equivalenza tra il CCNL indicato nel bando e quello applicato dall’operatore economico, lo scostamento non può considerarsi in nessun caso marginale (e quindi ammissibile), come precisa l’art. 4, comma 6.

 

Il tentativo di inserire nel decreto correttivo criteri ambigui per allargare – inopportunamente – le maglie della rappresentatività dei soggetti datoriali e sindacali firmatari dei contratti collettivi nazionali di lavoro da tenere come riferimento per determinare il costo del lavoro negli appalti pubblici non è dunque andato a buon fine. E questo è sicuramente merito anche della coesione con cui si sono mossi tutti gli attori che presidiano oggi i sistemi di relazioni industriali genuini mettendo così ai margini le non poche sponde “politiche” di cui godono soggetti poco o nulla rappresentativi che, da anni, conquistano piccoli spazi di azione operando in dumping.

 

Resta il fatto che la partita non è ancora del tutto chiusa perché il decreto correttivo rinvia su questioni importanti a decisioni che dovranno essere assunte dal Ministro del lavoro sia rispetto alla determinazione del costo medio del lavoro per ogni settore, come impone l’articolo 41, comma 13, del decreto legislativo n. 36/2023, sia rispetto alla indicazione del contratto collettivo applicabile (o da utilizzare per una verifica del livello delle tutele) in assenza di un CCNL di riferimento. Una grande responsabilità, quella del Ministero del lavoro, rispetto alla quale i margini di ambiguità andranno presto sciolti nella consapevolezza che su questo terreno, centrale per la tenuta del nostro sistema di relazioni industriali, attori rappresentativi oggi divisi e litigiosi su quasi tutti i fronti sono però ancora in grado di unire le forze e muoversi in modo compatto quando è in gioco l’effettività della fattispecie contrattuale e sindacale tutelata e promossa dalla nostra Carta costituzionale.

 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

ADAPT Senior Fellow

@Gio_Piglialarmi

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@MicheTiraboschi

 

Conciliazioni sindacali (anche) “da remoto”: brevi note su un recente accordo sottoscritto a Treviso

Conciliazioni sindacali (anche) “da remoto”: brevi note su un recente accordo sottoscritto a Treviso

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

 

Bollettino ADAPT 28 ottobre 2024 n. 38

 

Il 22 ottobre 2024 è stato sottoscritto a Treviso un accordo collettivo territoriale «per l’individuazione delle sedi e delle modalità per le conciliazioni delle controversie di lavoro (artt. 411 e 412-ter c.p.c.)», anche qualora queste si svolgano “da remoto”. Firmatari dell’accordo risultano essere la Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali CgilCisl e Uil. Scopo dell’accordo è quello di «individuare le sedi e le modalità idonee alla stipulazione di conciliazioni individuali in materia di lavoro» in sede sindacale, al fine di sottrarre gli accordi conciliativi dal regime di impugnazione previsto dall’art. 2113, comma 2 c.c. (come prevede espressamente l’art. 2113, comma 4 c.c.).


 
L’interesse a definire e individuare con un accordo collettivo quali siano gli spazi che possono essere intesi alla stregua di una “sede sindacale” – competenza che sulla materia la contrattazione ha per espressa delega della legge (art. 412-ter c.p.c.) – è dettato da (non meglio precisate) «ragioni organizzative e logistiche». L’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est», se coinvolta.


 
Inoltre, l’accordo prevede espressamente che la conciliazione si intenderà validamente stipulata ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c. “in sede sindacale” anche quando questa «sia conclusa in modalità “da remoto”, ovvero per il tramite di piattaforme telematiche che mettano in contatto le parti non fisicamente presenti in uno stesso locale, purché tali piattaforme consentano la identificabilità delle parti stesse».


 
Infine, l’accordo definisce alcuni requisiti che la conciliazione in sede sindacale deve presentare ai fini della produzione degli effetti di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (cioè l’inoppugnabilità) tra i quali: a) l’effettiva assistenza da parte del sindacalista affinché il lavoratore, una volta reso consapevole del contenuto dell’accordo, sia messo in condizione di poter valutare l’opportunità di sottoscrivere il verbale di conciliazione; b) la contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto; c) la necessità di dare atto nel verbale di conciliazione della consapevolezza da parte del lavoratore del luogo prescelto per negoziare l’accordo di conciliazione e della assistenza sindacale ricevuta; d) nel caso di conciliazioni da remoto, è necessario che il verbale sia sottoscritto dalle parti «tramite firma autografa su copia analogica» dell’accordo condiviso tramite scansione, escludendo così la possibilità di poter utilizzare la firma digitale certificata.


 
L’accordo territoriale solleva inevitabilmente alcuni interrogativi, non solo per diversi aspetti legati al suo contenuto ma anche perché sottoscritto nel bel mezzo dell’iter parlamentare riguardante il DDL Lavoro n. 1532-bis che tra le tante cose detta anche una specifica disposizione per le conciliazioni da remoto (cfr. G. Piglialarmi, N. Serrani, Le conciliazioni in materia di lavoro: le novità del DDL Lavoro, in Bollettino speciale ADAPT 18 ottobre 2024, n. 5).


 
Procedendo con ordine, un primo nodo che la prima lettura dell’accordo solleva riguarda l’efficacia soggettiva dello stesso: per espressa volontà delle parti, questo si applica «senza limiti di tempo, alle conciliazioni tra lavoratori che siano assistiti da funzionari delle organizzazioni sindacali» sottoscriventi e «datori di lavoro associati a Confindustria Veneto Est» o assistiti comunque da quest’ultima. Dunque, il presupposto per poter invocare il rispetto delle modalità conciliative stabilite in questo accordo è che le parti diano mandato di farsi assistere alle organizzazioni sindacali (dei lavoratori e dei datori di lavoro) sottoscriventi.


 
Viene da chiedersi, però, come si concilia il contenuto di questo accordo territoriale – che legittimamente si inserisce in uno spazio regolativo che la legge demanda all’autonomia collettiva (art. 412-ter c.p.c.) – con le specifiche previsioni dei CCNL sottoscritti dalle federazioni di categoria aderenti a Confindustria e le rispettive federazioni sindacali dei lavoratori di categoria aderenti alle tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil. A titolo di esempio, l’art. 80 del CCNL Industria Alimentare (codice E012) prevede espressamente che in caso di controversia tra le parti inerente allo svolgimento del rapporto di lavoro, queste dovranno obbligatoriamente sottoporre la questione «a commissioni costituite dalle strutture territoriali di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil» con la collaborazione delle associazioni datoriali per espletare il tentativo di conciliazione in sede sindacale prima di adire l’autorità giudiziaria.


 
Lasciando da parte la questione relativa al fatto che il CCNL ritenga ancora sussistere un obbligo che non è più tale per la legge (art. 410 c.p.c.), trattandosi solo di una facoltà salvo i casi espressamente previsti – aspetto, questo, che pure meriterebbe qualche riflessione – il CCNL Industria Alimentare individua una specifica commissione territoriale presso la quale esperire il tentativo di conciliazione; commissione, peraltro, che deve essere costituita e gestita da federazioni di categoria (datoriali e sindacali) e non a livello confederale-territoriale. Da questo punto di vista, dunque, si pone un problema di carattere endo-sindacale poiché occorre comprendere se un lavoratore e un’impresa dell’industria alimentare operanti a Treviso e che applicano al rapporto di lavoro il CCNL E012, possano conciliare seguendo l’iter stabilito nel CCNL dalle federazioni di categoria o quello definito nell’accordo territoriale sottoscritto dalle confederazioni sindacali.


 
Il problema potrebbe essere affrontato prendendo le mosse da diversi punti di vista. Per un verso, l’accordo territoriale potrebbe essere applicabile in via residuale, cioè laddove i CCNL ricadenti nel sistema contrattuale di Confindustria non contemplino una specifica disciplina al riguardo. Diversamente, laddove il CCNL applicato nell’impresa detti una specifica disciplina – come nel caso sopra richiamato – le modalità conciliative stabilite dall’accordo territoriale non possono avere alcun seguito, salva l’ipotesi in cui si inquadri il suddetto accordo territoriale nel prisma della contrattazione di prossimità (art. 8 del d.l. n. 138/2011). Come è noto, gli accordi di prossimità – che possono essere sottoscritti sia a livello aziendale che territoriale – possono dettare specifiche disposizioni legate ad alcuni aspetti del rapporto di lavoro, anche in deroga alla legge o al CCNL, purché siano espressamente individuati nel testo dell’accordo – oltreché la volontà di avvalersi di un accordo ex art. 8 – alcuni obiettivi da raggiungere o esigenze da soddisfare.


 
Da questo punto di vista, se l’accordo territoriale interviene su una “materia” che può essere oggetto di un contratto di prossimità (perché inerisce gli aspetti legati, sia pure non direttamente, al recesso dal rapporto di lavoro; cfr. art. 8, comma 2, lett. e) del d.l. n. 138/2011), risulterebbe però assente il riferimento alla disposizione normativa e anche scarsamente motivato sotto il profilo delle esigenze che giustificano una simile pattuizione nel territorio di Treviso (evocare, infatti, una non meglio precisata “ragione logistica” sarebbe poca cosa rispetto ad una giustificazione molto più pregnante che la consolidata giurisprudenza in materia richiede ai fini della legittimità dell’accordo di prossimità).


 
Un altro aspetto controverso riguarda la possibilità di considerare come “sede sindacale” anche i locali aziendali, previo accordo tra le parti e le organizzazioni sindacali. Anche in questo caso, si pone un grosso interrogativo: come si concilia questa scelta delle parti sindacali rispetto a quella “austera” giurisprudenza che ritiene la conciliazione conclusa presso i locali aziendali impugnabile, nonostante questa sia avvenuta in presenza del sindacalista (salvo prova contraria fornita dal datore di lavoro)? Proprio di recente, infatti, è stato escluso che la sede aziendale possa assurgere a “sede protetta” per espletare un tentativo di conciliazione e sottoscrivere un accordo ex art. 2113, comma 4 c.c. giacché questa non ha «il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore» (Cass. Civ. Sez. Lav. 15 aprile 2024, n. 10065). In altri termini, il fatto che l’art. 412-ter c.p.c. abiliti la contrattazione a definire “sedi” e “modalità” della conciliazione in sede sindacale, non si tradurrebbe in una sorta di “delega in bianco” per cui il contratto o l’accordo collettivo possa poi “eleggere” qualsiasi luogo a sede sindacale. L’approccio del formante giurisprudenziale sembra prediligere, invece, una interpretazione molto più restrittiva, nel senso che il contratto collettivo può definire quali siano le sedi sindacali presso le quali esperire il tentativo di conciliazione purché queste siano idonee a non condizionare la libertà decisionale del lavoratore.


 
Last but not least, viene da chiedersi come si coordinino le disposizioni dell’accordo territoriale relative alle conciliazioni “da remoto” con l’art. 20 del DDL Lavoro che, oltre ad abilitare anche le sedi sindacali a ricorrere alle conciliazioni telematiche, affida ad un decreto ministeriale la competenza a stabilire «le regole tecniche per l’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione» nelle conciliazioni in materia di lavoro che si svolgeranno “a distanza”. Da un lato, è opportuno specificare che ad ora le modalità definite nell’accordo sindacale trevigiano sono ancora del tutto valide ed efficaci posto che l’art. 20, comma 4 del DDL fa salve le modalità e le prassi vigenti fino all’emanazione del decreto ministeriale, che dovrà avvenire nei 12 mesi successivi all’entrata in vigore del DDL. Dall’altro, è pur vero che l’accordo collettivo territoriale registra l’impegno delle parti a modificare l’articolato nel caso di «interventi normativi o giurisprudenziali» riguardanti l’oggetto dell’accordo.


 
Tuttavia, giova precisare che a fare da sfondo a tutti gli aspetti tecnico-giuridici sopra accennati vi sarebbe la volontà dell’autonomia collettiva di voler cominciare a regolare una prassi già molto diffusa  quella delle conciliazioni da remoto, appunto – allo scopo di definire delle misure di garanzia in favore del lavoratore e, allo stesso tempo, fornire maggiori rassicurazioni per le imprese circa la inoppugnabilità dei verbali di conciliazione sottoscritti attraverso la modalità telematica. In questo senso, l’accordo territoriale può essere inteso come un primo passo verso la regolazione di una procedura (tendenzialmente) rispettosa dei principi giurisprudenziali in materia, onde evitare che tutto venga lasciato all’informalità con non poche conseguenze sulla validità delle conciliazioni in sede sindacale (per alcuni rilievi critici sulle conciliazioni da remoto e i relativi rischi di impugnabilità, sia consentito il rinvio a G. Piglialarmi, Contributo allo studio della certificazione nei rapporti di lavoro, ADAPT University Press, 2024, cap. V).


 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

ADAPT Senior Fellow

@Gio_Piglialarmi