Sindacato

Le conciliazioni in sede sindacale tra “formalismi”, oneri probatori e contrattazione collettiva

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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024 n. 43

 

Non sono passate di certo inosservate le recenti pronunce della Corte di Cassazione riguardanti i presupposti affinché una conciliazione esperita in sede sindacale possa sortire gli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ. e cioè l’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni concordate dalle parti. I nuovi approdi giurisprudenziali, infatti, stanno facendo discutere tutti gli attori coinvolti nei processi di negoziazione dei c.d. verbali tombali, cioè quegli accordi in cui le parti del rapporto di lavoro dirimono in via definitiva ogni lite in occasione della relativa cessazione.

 

Con ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sia necessario che la conciliazione sia sottoscritta presso una sede sindacale intesa nella sua dimensione “materiale”, essendo piuttosto sufficiente che il lavoratore (o la lavoratrice) sia pienamente informato e reso consapevole da un sindacalista circa le conseguenze giuridiche derivanti dalla sottoscrizione dell’accordo. In altri termini, ciò che è essenziale, ai fini della validità di una conciliazione in sede sindacale e della produzione degli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ., è che il sindacalista aiuti il lavoratore a comprendere e valutare la convenienza dell’accordo rispetto all’oggetto della lite, accertandosi che la sua volontà non sia stata coartata o condizionata (anche) dal datore di lavoro. In tale quadro, nell’ordinanza la Corte precisa che la sede sindacale nella sua accezione fisico-topografica non rappresenterebbe un requisito formale ma solo “funzionale” ad assicurare al lavoratore l’esercizio di un libero convincimento, senza alcun condizionamento (cfr. punto 5 dell’ordinanza). Se, però, il lavoratore ha effettivamente ricevuto una adeguata assistenza sindacale, il fatto che poi l’accordo sia stato sottoscritto presso la sede aziendale (nel caso di specie, uno studio oculistico) non rileva, con conseguente idoneità dell’accordo a produrre l’effetto dell’inoppugnabilità previsto dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.

 

Sennonché, qualche mese dopo, la Suprema Corte è ritornata sulla questione: nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, gli ermellini hanno sostenuto che la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette. Secondo la Corte, i luoghi designati dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.  sono tassativi e non ammettono alternative, «sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia perché in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro» (cfr. punto 18 dell’ordinanza). Pertanto, la sede sindacale alla quale farebbe riferimento tanto l’art. 2113, comma 4 cod. civ. che l’art. 411, comma 3, cod. proc. civ., non va intesa solo come “luogo virtuale di protezione” del lavoratore, integrata dalla sola presenza del sindacalista, bensì anche come “luogo fisico-topografico”.

 

Nel registrare l’esistenza di due orientamenti tra loro parzialmente in contrasto – rispetto ai quali sarebbe auspicabile un intervento nomofilattico da parte della stessa Corte – v’è però da notare, in prima battuta, che l’eventuale verbale di conciliazione sottoscritto in una sede che non sia quella “fisica” dell’associazione sindacale non darebbe luogo automaticamente ad una invalidità dell’atto, essendo sempre possibile dimostrare che, in realtà, il lavoratore (o la lavoratrice) sia stato messo nelle condizioni di poter maturare il suo libero convincimento grazie ad una effettiva assistenza del sindacalista. È questa, del resto, la conclusione alla quale perviene l’ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975: se la conciliazione è stata conclusa nella sede sindacale intesa in senso “materiale”, posto che la prova della piena consapevolezza dell’atto dispositivo del lavoratore può dirsi in re ipsa o desumersi in via presuntiva «graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale»; diversamente, laddove la conciliazione sia stata conclusa in una sede diversa, l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante l’assenza di una sede protetta intesa in senso “fisico”, il lavoratore, grazie all’effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto modo di comprendere contenuto ed effetto delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.

 

Posta in questi termini, dunque, la questione si sposterebbe semmai sull’eventuale ripartizione degli oneri probatori, anche perché non è sempre detto che per il solo fatto che la negoziazione dell’accordo si sia svolta presso una sede sindacale il lavoratore sia stato adeguatamente assistito ai fini del compimento delle dovute valutazioni che occorre fare in una fase in cui si sta per rinunciare definitivamente all’accertamento dei diritti connessi al rapporto di lavoro, molti dei quali inderogabili e quindi indisponibili. Pertanto, anche laddove dovesse accertarsi che la conciliazione sia stata conclusa non presso la sede sindacale ma in presenza di un sindacalista che abbia effettivamente assistito il lavoratore, l’accertamento dell’invalidità della conciliazione dipenderebbe dalla capacità del datore di lavoro di dimostrare che il lavoratore non ha subito alcun condizionamento e che sia stato adeguatamente assistito.

 

Inoltre, a non convincere del tutto il rigido orientamento assunto dalla Corte nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, sovviene la lettera della legge la quale, proprio con riferimento alla conciliazione in sede sindacale, riconosce un significativo spazio di regolazione alla contrattazione collettiva. L’art. 412-ter cod. proc. civ., infatti, prevede che la conciliazione può essere esperita «altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». Dunque, il contratto collettivo – a qualunque livello esso sia sottoscritto (nazionale, territoriale o aziendale) posto che la norma nulla dice al riguardo – ha il potere di definire delle modalità conciliative proprie, che possono anche prescindere dalla fisicità del luogo, purché idonee a tutelare la posizione di debolezza negoziale del lavoratore, dati gli effetti che scaturiscono da un accordo di conciliazione ex art. 2113, comma 4 cod. civ. È in questa cornice concettuale che deve essere ricondotto il recente accordo collettivo territoriale sottoscritto a Treviso il 22 ottobre 2024, da Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali Cgil, Cisl e Uil. Coltivando legittimamente il rinvio che l’art. 412-ter cod. proc. civ. depone in favore della contrattazione collettiva, l’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est», se coinvolta.

 

Allo scopo di garantire un adeguato livello di tutela al lavoratore, l’accordo prevede che l’organizzazione sindacale che assiste il lavoratore debba poter essere messa al corrente del luogo ove si svolgerà la conciliazione, in modo tale da poter verificare preventivamente se vi siano i rischi di particolari condizionamenti del lavoratore. Non solo; a presidio di una maggiore tutela del lavoratore, l’accordo prescrive anche la necessaria e contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto. L’accordo, dunque, definisce una procedura nel pieno rispetto degli spazi di regolazione che la legge affida all’autonomia collettiva, senza che da questa possano desumersi particolari vincoli spaziali o procedurali. È in questo senso che si giustifica la scelta delle organizzazioni sindacali di non porre l’accento sulla dimensione fisica del luogo ma sulle procedure, evidentemente consapevoli anche del fatto che l’unico precedente giurisprudenziale a propendere per una concezione anche “fisica” di sede sindacale riguarda un caso in cui le parti del rapporto avevano conciliato senza seguire delle procedure definite da alcun accordo o contratto collettivo, seguendo piuttosto la prassi (cioè conciliare presso i locali aziendali e in assenza di una disciplina collettiva di riferimento che autorizzi una tale procedura prevedendo delle contromisure).

 

Nicoletta Serrani

ADAPT Labour Lawyers associate

@Nicserrani

 

Conciliazioni sindacali (anche) “da remoto”: brevi note su un recente accordo sottoscritto a Treviso

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Bollettino ADAPT 28 ottobre 2024 n. 38

 

Il 22 ottobre 2024 è stato sottoscritto a Treviso un accordo collettivo territoriale «per l’individuazione delle sedi e delle modalità per le conciliazioni delle controversie di lavoro (artt. 411 e 412-ter c.p.c.)», anche qualora queste si svolgano “da remoto”. Firmatari dell’accordo risultano essere la Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali CgilCisl e Uil. Scopo dell’accordo è quello di «individuare le sedi e le modalità idonee alla stipulazione di conciliazioni individuali in materia di lavoro» in sede sindacale, al fine di sottrarre gli accordi conciliativi dal regime di impugnazione previsto dall’art. 2113, comma 2 c.c. (come prevede espressamente l’art. 2113, comma 4 c.c.).


 
L’interesse a definire e individuare con un accordo collettivo quali siano gli spazi che possono essere intesi alla stregua di una “sede sindacale” – competenza che sulla materia la contrattazione ha per espressa delega della legge (art. 412-ter c.p.c.) – è dettato da (non meglio precisate) «ragioni organizzative e logistiche». L’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est», se coinvolta.


 
Inoltre, l’accordo prevede espressamente che la conciliazione si intenderà validamente stipulata ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c. “in sede sindacale” anche quando questa «sia conclusa in modalità “da remoto”, ovvero per il tramite di piattaforme telematiche che mettano in contatto le parti non fisicamente presenti in uno stesso locale, purché tali piattaforme consentano la identificabilità delle parti stesse».


 
Infine, l’accordo definisce alcuni requisiti che la conciliazione in sede sindacale deve presentare ai fini della produzione degli effetti di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (cioè l’inoppugnabilità) tra i quali: a) l’effettiva assistenza da parte del sindacalista affinché il lavoratore, una volta reso consapevole del contenuto dell’accordo, sia messo in condizione di poter valutare l’opportunità di sottoscrivere il verbale di conciliazione; b) la contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto; c) la necessità di dare atto nel verbale di conciliazione della consapevolezza da parte del lavoratore del luogo prescelto per negoziare l’accordo di conciliazione e della assistenza sindacale ricevuta; d) nel caso di conciliazioni da remoto, è necessario che il verbale sia sottoscritto dalle parti «tramite firma autografa su copia analogica» dell’accordo condiviso tramite scansione, escludendo così la possibilità di poter utilizzare la firma digitale certificata.


 
L’accordo territoriale solleva inevitabilmente alcuni interrogativi, non solo per diversi aspetti legati al suo contenuto ma anche perché sottoscritto nel bel mezzo dell’iter parlamentare riguardante il DDL Lavoro n. 1532-bis che tra le tante cose detta anche una specifica disposizione per le conciliazioni da remoto (cfr. G. Piglialarmi, N. Serrani, Le conciliazioni in materia di lavoro: le novità del DDL Lavoro, in Bollettino speciale ADAPT 18 ottobre 2024, n. 5).


 
Procedendo con ordine, un primo nodo che la prima lettura dell’accordo solleva riguarda l’efficacia soggettiva dello stesso: per espressa volontà delle parti, questo si applica «senza limiti di tempo, alle conciliazioni tra lavoratori che siano assistiti da funzionari delle organizzazioni sindacali» sottoscriventi e «datori di lavoro associati a Confindustria Veneto Est» o assistiti comunque da quest’ultima. Dunque, il presupposto per poter invocare il rispetto delle modalità conciliative stabilite in questo accordo è che le parti diano mandato di farsi assistere alle organizzazioni sindacali (dei lavoratori e dei datori di lavoro) sottoscriventi.


 
Viene da chiedersi, però, come si concilia il contenuto di questo accordo territoriale – che legittimamente si inserisce in uno spazio regolativo che la legge demanda all’autonomia collettiva (art. 412-ter c.p.c.) – con le specifiche previsioni dei CCNL sottoscritti dalle federazioni di categoria aderenti a Confindustria e le rispettive federazioni sindacali dei lavoratori di categoria aderenti alle tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil. A titolo di esempio, l’art. 80 del CCNL Industria Alimentare (codice E012) prevede espressamente che in caso di controversia tra le parti inerente allo svolgimento del rapporto di lavoro, queste dovranno obbligatoriamente sottoporre la questione «a commissioni costituite dalle strutture territoriali di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil» con la collaborazione delle associazioni datoriali per espletare il tentativo di conciliazione in sede sindacale prima di adire l’autorità giudiziaria.


 
Lasciando da parte la questione relativa al fatto che il CCNL ritenga ancora sussistere un obbligo che non è più tale per la legge (art. 410 c.p.c.), trattandosi solo di una facoltà salvo i casi espressamente previsti – aspetto, questo, che pure meriterebbe qualche riflessione – il CCNL Industria Alimentare individua una specifica commissione territoriale presso la quale esperire il tentativo di conciliazione; commissione, peraltro, che deve essere costituita e gestita da federazioni di categoria (datoriali e sindacali) e non a livello confederale-territoriale. Da questo punto di vista, dunque, si pone un problema di carattere endo-sindacale poiché occorre comprendere se un lavoratore e un’impresa dell’industria alimentare operanti a Treviso e che applicano al rapporto di lavoro il CCNL E012, possano conciliare seguendo l’iter stabilito nel CCNL dalle federazioni di categoria o quello definito nell’accordo territoriale sottoscritto dalle confederazioni sindacali.


 
Il problema potrebbe essere affrontato prendendo le mosse da diversi punti di vista. Per un verso, l’accordo territoriale potrebbe essere applicabile in via residuale, cioè laddove i CCNL ricadenti nel sistema contrattuale di Confindustria non contemplino una specifica disciplina al riguardo. Diversamente, laddove il CCNL applicato nell’impresa detti una specifica disciplina – come nel caso sopra richiamato – le modalità conciliative stabilite dall’accordo territoriale non possono avere alcun seguito, salva l’ipotesi in cui si inquadri il suddetto accordo territoriale nel prisma della contrattazione di prossimità (art. 8 del d.l. n. 138/2011). Come è noto, gli accordi di prossimità – che possono essere sottoscritti sia a livello aziendale che territoriale – possono dettare specifiche disposizioni legate ad alcuni aspetti del rapporto di lavoro, anche in deroga alla legge o al CCNL, purché siano espressamente individuati nel testo dell’accordo – oltreché la volontà di avvalersi di un accordo ex art. 8 – alcuni obiettivi da raggiungere o esigenze da soddisfare.


 
Da questo punto di vista, se l’accordo territoriale interviene su una “materia” che può essere oggetto di un contratto di prossimità (perché inerisce gli aspetti legati, sia pure non direttamente, al recesso dal rapporto di lavoro; cfr. art. 8, comma 2, lett. e) del d.l. n. 138/2011), risulterebbe però assente il riferimento alla disposizione normativa e anche scarsamente motivato sotto il profilo delle esigenze che giustificano una simile pattuizione nel territorio di Treviso (evocare, infatti, una non meglio precisata “ragione logistica” sarebbe poca cosa rispetto ad una giustificazione molto più pregnante che la consolidata giurisprudenza in materia richiede ai fini della legittimità dell’accordo di prossimità).


 
Un altro aspetto controverso riguarda la possibilità di considerare come “sede sindacale” anche i locali aziendali, previo accordo tra le parti e le organizzazioni sindacali. Anche in questo caso, si pone un grosso interrogativo: come si concilia questa scelta delle parti sindacali rispetto a quella “austera” giurisprudenza che ritiene la conciliazione conclusa presso i locali aziendali impugnabile, nonostante questa sia avvenuta in presenza del sindacalista (salvo prova contraria fornita dal datore di lavoro)? Proprio di recente, infatti, è stato escluso che la sede aziendale possa assurgere a “sede protetta” per espletare un tentativo di conciliazione e sottoscrivere un accordo ex art. 2113, comma 4 c.c. giacché questa non ha «il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore» (Cass. Civ. Sez. Lav. 15 aprile 2024, n. 10065). In altri termini, il fatto che l’art. 412-ter c.p.c. abiliti la contrattazione a definire “sedi” e “modalità” della conciliazione in sede sindacale, non si tradurrebbe in una sorta di “delega in bianco” per cui il contratto o l’accordo collettivo possa poi “eleggere” qualsiasi luogo a sede sindacale. L’approccio del formante giurisprudenziale sembra prediligere, invece, una interpretazione molto più restrittiva, nel senso che il contratto collettivo può definire quali siano le sedi sindacali presso le quali esperire il tentativo di conciliazione purché queste siano idonee a non condizionare la libertà decisionale del lavoratore.


 
Last but not least, viene da chiedersi come si coordinino le disposizioni dell’accordo territoriale relative alle conciliazioni “da remoto” con l’art. 20 del DDL Lavoro che, oltre ad abilitare anche le sedi sindacali a ricorrere alle conciliazioni telematiche, affida ad un decreto ministeriale la competenza a stabilire «le regole tecniche per l’adozione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione» nelle conciliazioni in materia di lavoro che si svolgeranno “a distanza”. Da un lato, è opportuno specificare che ad ora le modalità definite nell’accordo sindacale trevigiano sono ancora del tutto valide ed efficaci posto che l’art. 20, comma 4 del DDL fa salve le modalità e le prassi vigenti fino all’emanazione del decreto ministeriale, che dovrà avvenire nei 12 mesi successivi all’entrata in vigore del DDL. Dall’altro, è pur vero che l’accordo collettivo territoriale registra l’impegno delle parti a modificare l’articolato nel caso di «interventi normativi o giurisprudenziali» riguardanti l’oggetto dell’accordo.


 
Tuttavia, giova precisare che a fare da sfondo a tutti gli aspetti tecnico-giuridici sopra accennati vi sarebbe la volontà dell’autonomia collettiva di voler cominciare a regolare una prassi già molto diffusa  quella delle conciliazioni da remoto, appunto – allo scopo di definire delle misure di garanzia in favore del lavoratore e, allo stesso tempo, fornire maggiori rassicurazioni per le imprese circa la inoppugnabilità dei verbali di conciliazione sottoscritti attraverso la modalità telematica. In questo senso, l’accordo territoriale può essere inteso come un primo passo verso la regolazione di una procedura (tendenzialmente) rispettosa dei principi giurisprudenziali in materia, onde evitare che tutto venga lasciato all’informalità con non poche conseguenze sulla validità delle conciliazioni in sede sindacale (per alcuni rilievi critici sulle conciliazioni da remoto e i relativi rischi di impugnabilità, sia consentito il rinvio a G. Piglialarmi, Contributo allo studio della certificazione nei rapporti di lavoro, ADAPT University Press, 2024, cap. V).


 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

ADAPT Senior Fellow

@Gio_Piglialarmi

La maggiore rappresentatività comparata nel settore del commercio: si può ripartire da Campobasso

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Bollettino ADAPT 1° luglio 2024 n. 26

 
Una legge di una assoluta avanguardia. Questo il giudizio di Umberto Romagnoli, un indimenticato Maestro del diritto del lavoro, sulla riforma del processo del lavoro del 1973. A condizione, tuttavia, che il giudice del lavoro fosse messo in grado di conoscere le reali dinamiche delle relazioni industriali.

 
Anche per questo motivo Umberto Romagnoli suggerì di valorizzare l’art. 21, comma 4, della legge n. 533/1973, dove si affida al Ministro della giustizia di organizzare specifici corsi di preparazione per i magistrati che intendessero acquisire una particolare specializzazione in materia di lavoro e sindacato.

 
L’idea era quella di superare una certa autoreferenzialità del formalismo giuridico e integrare la classica formazione delle professioni legali con materie che ancora oggi non vengono prese in considerazione dai piani di studio delle facoltà giuridiche (U. Romagnoli, A cosa serve questa ricerca, in T. Treu (a cura di), Sindacato e magistratura nei conflitti di lavoro, vol. II, Il Mulino, 1975, pp. 197-212, spec. p. 205).

 
È in questa prospettiva che forse si può leggere il rebus interpretativo della maggiore rappresentatività comparata che potrebbe invero trovare facile soluzione partendo dai dati di realtà e anche nel buon senso visto che non è in discussione la rappresentatività di questo o quel sindacato, che oggi non si nega a nessuno o quasi, ma il criterio di selezione di un determinato contratto collettivo, a fini legali, in ragione della sua provenienza da un sistema di contrattazione collettiva che, comparato agli altri che insistono sullo stesso settore, risulta più rappresentativo.

 

Si pensi al caso in cui il datore di lavoro deve determinare la retribuzione imponibile ai fini previdenziali (art. 2, comma 25 della legge n. 549/1995), oppure quando lo stesso richiede il riconoscimento di particolari benefici economici e normativi (cfr. art. 1, comma 1175 della legge n. 296/2006); o, ancora, quando l’imprenditore vuole usufruire di particolari misure di flessibilità nell’impiego di tipologie contrattuali no-standard (cfr. art. 51 del d.lgs. n. 81/2015). Quale è il contratto collettivo di riferimento per il settore o, più precisamente, in caso di presenza di più contratti di settore quale è il contratto da applicare al caso concreto?

 
Sul punto compete indubbiamente al giudice il dovere di dirimere il dubbio su quale, tra più contratti, sia quello che è sottoscritto da organizzazioni sindacali (anche tra loro “coalizzate”) i cui indici di rappresentatività, messi in comparazione a quelli posseduti da altre organizzazioni sindacali sottoscriventi CCNL concorrenti, risultino superiori.

 

Di grande interesse, da questo punto di vista è la recente sentenza del Tribunale di Campobasso dello scorso 10 aprile 2024 che bene integra il ragionamento giuridico con una puntuale conoscenza dei dati di realtà del nostro sistema di relazioni industriali.

 

Esattamente come suggeriva Umberto Romagnoli e che, per questo motivo, potrebbe ora fornire un utile contributo per fare definitivamente chiarezza su una questione troppo a lungo gestita in modo distante dalla ratio legis e dalle dinamiche contrattuali in aderenza all’art. 39 della Costituzione che promuove il sindacato non in sé ma nella prospettiva della effettività della tutela dei lavoratori.

 

Il Tribunale di Campobasso, giustamente, sottolinea che “per stabilire la maggiore o minore rappresentatività non si deve considerare il CCNL bensì le parti sociali, sia dal lato datoriale sia dal lato lavoratori”.

 

Pertanto, al giudice del lavoro non può essere assolutamente indifferente se il contratto collettivo applicato dalla impresa sia sottoscritto da una organizzazione sindacale dei lavoratori o dei datori piuttosto che da un’altra.

 

Quando la legge lo richiede in modo specifico, la verifica della rappresentatività comparata deve riguardare pertanto sia la delegazione sindacale dei lavoratori che quella delle imprese considerando, quindi, non questa o quella organizzazione sindacale singolarmente intesa ma l’intera compagine sindacale (dei lavoratori e delle imprese) che partecipa alla gestione di un determinato sistema contrattuale.

 

In questo senso, il Tribunale di Campobasso ha puntualizzato che, ai fini dell’art. art. 2, comma 25 della legge n. 549/1995, il CCNL Commercio ANPIT-CISAL non può dirsi sottoscritto “dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria” poiché, seppure sia riscontrabile un certo grado di rappresentatività in capo alla CISAL attraverso l’esame di alcuni documenti istituzionali, non può dirsi lo stesso riguardo all’ANPIT, non citata nella documentazione acquisita agli atti del processo.

 

Per contro, il giudice osserva come dalla medesima documentazione allegata agli atti del processo emerga che il CCNL Terziario, Distribuzione e Servizi sottoscritto dall’associazione datoriale Confcommercio e dalle organizzazioni sindacali Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil sia il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo rispetto agli altri CCNL di categoria, in quanto l’organizzazione datoriale sottoscrivente sarebbe “rappresentativa del 97,23% delle Aziende del Settore” mentre la coalizione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori sarebbe rappresentativa “del 95,04% dei lavoratori del settore, pari a 396.858 Aziende e 2.396.370 lavoratori del settore”.

 

Dati questi facilmente verificabili attraverso il codice alfanumerico dei rispettivi CCNL e i flussi Uniemens come riportato nell’Archivio nazionale dei contratti e accordi collettivi di lavoro del CNEL.

 

Ripartire da questa sentenza del Tribunale di Campobasso può, a nostro avviso, essere utile per due motivi. Da un lato, si chiude in radice e con trasparenza un labirinto interpretativo fondato su un equivoco fattuale con una posizione che non è certo strumentale a favore di questo di quel sistema contrattuale ma, più semplicemente, ad una corretta applicazione della legge per quello che espressamente afferma e per quella che è la sua ratio. Dall’altro, si apre la strada alla verifica della rappresentatività che tenga conto, più che delle singole organizzazioni sindacali, dei sistemi contrattuali che tali organizzazioni sindacali (delle imprese e dei lavoratori) generano e la relativa capacità di copertura (nei termini di numero di lavoratori e numero di imprese ai quali il CCNL viene applicato).


Giovanni Piglialarmi

Ricercatore in diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi


Michele Tiraboschi
Professore Ordinario di diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia

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Il sindacato metalmeccanico alla prova del rinnovo del principale contratto di settore

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Bollettino ADAPT 3 giugno 2024, n. 22

 

Con l’incontro che si è tenuto a Roma lo scorso 30 maggio, Federmeccanica, Assistal, Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil hanno dato ufficialmente avvio alla trattativa per il rinnovo del principale contratto collettivo del settore metalmeccanico in Italia, applicato da oltre 30.000 aziende e che interessa più di un milione e mezzo di lavoratori. Per il sindacato metalmeccanico, in particolare, è stata l’occasione per confrontarsi con la controparte e mostrare la “bontà” delle richieste contenute nell’ipotesi di piattaforma rivendicativa, presentata unitariamente lo scorso 20 febbraio e accolta favorevolmente dal 98% dei lavoratori consultati.

 

Nello specifico, dalla lettura di tale piattaforma, emerge la volontà delle tre sigle di voler agire lungo due direzioni principali: da un lato, rafforzare l’implementazione all’interno dei contesti aziendali di alcune “conquiste” dei precedenti rinnovi; dall’altro, affrontare le “sfide” che investono il lavoro metalmeccanico, ritagliando in entrambi i casi un ruolo di rilievo al livello decentrato. Sono in tal senso emblematici della prima necessità, gli interventi suggeriti dalla triade sindacale relativamente al sistema di inquadramento, al diritto soggettivo alla formazione continua, alle misure di conciliazione vita-lavoro, al sistema di partecipazione, alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, alla diffusione della contrattazione decentrata. In materia di inquadramento professionale, ad esempio, data la modesta attuazione della riforma introdotta con il rinnovo del 2021 (appurata anche grazie al confronto con la base svolto nella fase di definizione della piattaforma), i sindacati caldeggiano l’obbligo di istituire, per le aziende con più di 150 dipendenti, un apposito gruppo di lavoro bilaterale che, sulla base delle specificità del contesto aziendale, proceda a definire i profili professionali in considerazione dei sei criteri di professionalità individuati dal CCNL (anche mediante l’ausilio di esperti esterni). Invece, per quanto concerne la contrattazione decentrata, al fine di rafforzarne la diffusione, si suggerisce di modificare i criteri per la corresponsione dell’elemento perequativo in luogo dell’attuale formulazione contrattuale (che non ne prevede il riconoscimento in presenza di superminimi o altri emolumenti soggetti a contribuzione), così da escluderne l’erogazione solo nel caso in cui venga contrattato un premio di risultato; in tal modo, l’istituto riacquisterebbe una reale valenza quale incentivo alla diffusione e al rafforzamento della contrattazione aziendale.

 

Ma le tre federazioni sindacali hanno sfruttato l’occasione del primo incontro anche per portare la discussione negoziale verso quelle istanze declinate nella piattaforma che sono rappresentative delle nuove “sfide” del settore. Si pensi, a riguardo, al diritto soggettivo al bilancio delle competenze per tutti i lavoratori; al coinvolgimento dei lavoratori (e delle loro rappresentanze) nella definizione di progetti in chiave di sostenibilità ambientale o nella redazione del bilancio di sostenibilità (ESG); alla necessità di definire le modalità di utilizzo dell’intelligenza artificiale, al fine di evitarne un utilizzo distorto da parte delle imprese.  E poi, di rilievo è anche la richiesta – non certo inedita nella storia sindacale – di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, che indubbiamente avrà un peso rilevante sugli equilibri negoziali; giustificata dalla necessità di migliorare la qualità e l’attrattività del lavoro metalmeccanico, ovvero quale risposta contrattuale dinanzi alle trasformazioni in atto e ai mutamenti del lavoro, tale proposta mira ad avviare una fase di sperimentazione contrattuale che, forte delle recenti esperienze di contrattazione aziendale (si vedano, da ultimo, le intese sottoscritte in Automobili Lamborghini e Leonardo), porti ad una progressiva riduzione dell’orario di lavoro settimanale verso le 35 ore.

 

La piattaforma contiene, inoltre, proposte in tema di appalti, stabilizzazione dei lavoratori precari e politiche di genere. Con riferimento alle misure di welfare, invece, si chiede di aumentare l’importo dei flexible benefits, di rafforzare il fondo di sanità integrativa “Métasalute” (con un aumento del contributo aziendale), e di prevedere di forme di premialità ulteriori per incentivare l’adesione dei lavoratori al fondo di previdenza complementare “Cometa”.

 

Ultima, ma di certo non meno importante, è la “partita” salariale, che si apre con la richiesta sindacale di un aumento dei minimi tabellari (TEM) pari a 280 euro (al livello mediano C3), con analoga rivalutazione dei trattamenti di trasferta e reperibilità. E stando a quanto emerso dal primo confronto al tavolo di trattativa, è proprio sul salario che si sono evidenziate le distanze maggiori tra gli attori negoziali. Del resto, Federmeccanica, già prima dell’inizio del negoziato, aveva fatto trapelare il suo disappunto, giudicando negativamente tale richiesta, poiché al di sopra dell’andamento dell’indice inflattivo di riferimento (Ipca-Nei) stimato per il triennio 2024-2026, e richiamando i sindacati al rispetto delle regole interconfederali. Una posizione, questa, che emerge chiaramente anche dal documento che l’associazione datoriale ha consegnato alle organizzazioni sindacali al tavolo, e che comincia con la descrizione di uno scenario di mercato sempre più complesso e sfidante, anche per l’azione di circostanze imprevedibili come la pandemia e le guerre, che avrebbe contratto i margini di profitto e fermato la produttività di gran parte delle aziende del settore. Dal canto loro, le tre federazioni sindacali hanno ribadito la “correttezza” della richiesta salariale avanzata, che passa dalla conferma di quel modello contrattuale (mutuato dalle regole stabilite dal Patto della Fabbrica) che già nel precedente rinnovo aveva consentito aumenti retributivi del TEM più alti dell’andamento dell’indice Ipca, anche in virtù delle innovazioni organizzative introdotte (relative alla riforma del sistema di inquadramento). Inoltre, l’aumento richiesto è giustificato anche dalla necessità di fornire una risposta salariale significativa volta a tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni e a valorizzare il lavoro metalmeccanico.

 

Infine, non va dimenticato un ulteriore aspetto, che potrà avere un riflesso in queste prime fasi di trattativa e che attiene all’erogazione, nel mese di giugno, dell’ultima tranche di aumento contrattuale sui minimi stabilito dal CCNL vigente (che scadrà infatti il prossimo 30 giugno 2024). Un aumento che se saranno confermate le previsioni diffuse dall’Istat – grazie al meccanismo di adeguamento automatico all’inflazione, introdotto con il rinnovo del 2016 e rafforzato poi con la cd. “clausola di salvaguardia”, varata con il rinnovo del 2021 – sarà pari a 6,6 punti percentuali, ovvero 131,50 euro (considerando il livello C3); portando così l’incremento medio sui minimi a favore dei lavoratori metalmeccanici per il periodo di vigenza contrattuale ad oltre 300 euro (più alto dei 112 euro concordati dalle parti alla sottoscrizione del CCNL). Forse è anche per questo che Federmeccanica ha deciso – con una decisione insolita – di avviare la trattativa partendo proprio dalla questione più delicata, quella salariale, con i prossimi incontri che si svolgeranno nei mesi di giugno e luglio, e la consapevolezza delle parti di non poter assumere iniziative unilaterali né procedere ad azioni dirette sino a novembre.

 

Giuseppe Biundo

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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