ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 9 ottobre 2023, n. 34
Il dibattito pubblico sul tema del lavoro povero e del salario minimo si arricchisce di un nuovo capitolo. È stato infatti reso noto dal CNEL il documento Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, quale esito della istruttoria tecnica svolta su incarico della presidenza del Consiglio dei Ministri dello scorso 11 luglio ai sensi dell’art. 99 della Costituzione. Il documento passa ora alla Assemblea del CNEL per il voto finale previsto per il prossimo 12 ottobre.
Con riferimento alla parte di inquadramento e analisi del problema, è di particolare interesse che siano state evidenziate le criticità legate alle basi informative relative ai dati sulle retribuzioni (v. Parte I, punto 4), che risultano fondamentali per poter procedere a una corretta rappresentazione delle retribuzioni percepite dai lavoratori, a confronti e a valutazioni sul tema (sul punto sia consentito rimandare a S. Spattini, Retribuzione oraria e salario minimo legale: l’importanza di comprendere la fonte e la generazione dei dati, in Bollettino ADAPT 24 luglio 2023, n. 28).
Inoltre, si afferma la necessità di meglio sviluppare l’Archivio dei contratti collettivi nazionali di lavoro del CNEL, in particolare allineando la classificazione in macro aree e settori in parallelo con la revisione dei codici ATECO in corso da parte di ISTAT.
Nell’inquadramento della questione dei salari minimi, vengono, invece, sottolineate le ragioni del lavoro povero in Italia, che ISTAT ha in diversi documenti evidenziato come legate alla scarsa intensità e continuità del lavoro. Anche Banca d’Italia sottolinea la presenza di redditi più bassi collegati a forme di lavoro temporaneo e a lavoro part‑time.
Rispetto alla questione problematica della c.d. contrattazione pirata, fenomeno che si vorrebbe contrastare con il salario minimo legale, viene dal CNEL certificato come «fattore di grave perturbazione del sistema di relazioni industriali e anche di corretta concorrenza tra le imprese con particolare riferimento ad alcune aree geografiche del Paese e in alcuni settori produttivi». Tuttavia, anche il CNEL sottolinea come di fatto il fenomeno si possa considerare marginale poiché le categorie che aderiscono a CGIL, CISL, UIL firmano 211 contratti collettivi nazionali di lavoro, che coprono 13.364.336 lavoratori dipendenti del settore privato (sempre con eccezione di agricoltura e lavoro domestico) (96,5% dei dipendenti dei quali si conosce il contratto applicato, in quanto indicato negli Uniemens), mentre i sindacati non rappresentati al CNEL sono attualmente firmatari di 353 CCNL, applicati soltanto a 54.220 lavoratori dipendenti, pari allo 0,4% dei lavoratori di cui è noto il CCNL applicato.
Dal documento emerge chiaramente che la sola introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe innanzitutto la rilevante questione del lavoro povero, che, come evidenziato, è dovuto non tanto al livello delle retribuzioni orarie, ma piuttosto a ridotta intensità e continuità della occupazione. Ugualmente un salario minimo legale non inciderebbe né sulla pratica del dumpingcontrattuale, tanto meno potrebbe rafforzare la contrattazione collettiva.
Nell’affermare la centralità della contrattazione collettiva nella fissazione dei trattamenti salariali adeguati, posizione che potrebbe considerarsi scontata provenendo dal CNEL, dove siedono in maggioranza rappresentanti delle parti sociali, si argomenta, in sostanza, riportando le ragioni per cui un salario minimo legale non può essere un perfetto sostituto dei minimi contrattuali. Infatti, questi costituiscono soltanto una parte, ancorché rilevante, del trattamento retributivo del lavoratore. Peraltro, occorre ricordare che i contratti collettivi fissano minimi per ogni livello del sistema di classificazione professionale. Inoltre, viene evidenziato come la contrattazione collettiva non sia un semplice sostituto della contrattazione economica individuale, ma al contrario «una vera e propria istituzione “politica” che concorre alla compensazione tra la domanda e l’offerta di lavoro».
Altra conclusione a cui perviene la Commissione del CNEL è «l’opportunità e l’urgenza di un piano di azione nazionale affidato al CNEL per la valorizzazione e il sostegno della contrattazione collettiva anche in termini di contributo al ripensamento delle misure pubbliche di incentivazione economica a imprese e lavoro». Da un lato tale piano dovrebbe supportare la contrattazione collettiva a prendere in considerazione le trasformazioni della domanda e della offerta di lavoro e quindi adeguare la strutturazione dei contratti collettivi per dare risposta sia alla questione salariale sia al nodo della produttività. Dall’altro lato, il menzionato piano di azione nazionale potrebbe diventare in supporto per Governo e Parlamento nel prendere in considerazione una revisione delle risorse economiche a sostegno della contrattazione collettiva, dell’occupazione di qualità, del welfare aziendale, della bilateralità delle piccole e medie imprese, della attività d’impresa e della produttività, in particolare riorientandoli verso i soli sistemi di contrattazione collettiva e bilateralità più consolidati e la cui fruibilità andrebbe subordinata alla condizione della integrale applicazione dei trattamenti retributivi complessivi garantiti dai contratti collettivi più diffusi a livello nazionale di categoria.
Un punto di particolare interesse riguarda la posizione che suggerisce la valorizzazione degli accordi interconfederali come strumento per individuare a livello di settore una giusta retribuzione. Auspicabilmente, essi potrebbero inserirsi in un quadro creato da un protocollo triangolare sulla politica dei redditi e della occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo sull’esempio del Protocollo Ciampi-Giugni del 1993. In questo ambito, la Commissione ritiene che potrebbero anche essere gestita la nota criticità dei ritardi nei rinnovi contrattuali, «prevedendo adeguati meccanismi di salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori».
Si ritiene, poi, che in quella cornice potrebbe essere trattata un’altra questione importante, quanto delicata, consistente nei criteri per stabilire per ogni i settori la rappresentatività delle parti contraenti.
Infine, si riferisce anche della volontà di promuovere una riflessione istituzionale sulla promozione della contrattazione collettiva, sulla rappresentanza, sui perimetri contrattuali e sui sistemi qualificati di bilateralità.
Sulla base dell’analisi e delle osservazioni conclusive, il documento del CNEL perviene a una serie di proposte operative pensate principalmente in relazione alla prossima legge di bilancio e al collegato lavoro.
Con riferimento all’ambito di produttività e salari, innanzitutto, ritiene che il CNEL possa essere promosso come sede del National Productivity Board per l’Italia. Si tratta di un organismo previsto dalla Raccomandazione del Consiglio del 20 settembre 2016 sull’istituzione di comitati nazionali per la produttività e di cui l’Italia (insieme a pochi altri Paesi) è sprovvista. In questo contesto, le parti sociali potrebbero intervenire nel tentativo di legare le dinamiche retributive a quelle della produttività.
Si suggerisce poi una revisione degli incentivi previsti per i contratti di prossimità, per il welfare aziendale e per le misure di detassazione del premio di risultato, affinché siano più efficaci rispetto agli obiettivi dati, con attenzione verso le piccole e medie imprese, che si lega poi alla proposta delle parti sociali di intervenire in modo strutturale sul cuneo fiscale.
Sulla rilevante questione del lavoro povero, evidenziato che esso riguarda in modo più accentuato lavoratori temporanei, parasubordinati, lavoratori non genuinamente autonomi, lavoratori occasionali, stagisti, lavoratori con mansioni discontinue o di semplice attesa o custodia e lavoratori a tempo parziale involontario, si suggerisce di introdurre per questi lavoratori una tariffa tramite contrattazione, parametrata sugli indicatori della direttiva europea (60% del salario mediano o il 50% del salario medio).
Con particolare riferimento alla problematica del limitato numero di ore di lavoro, che caratterizza i contratti in alcuni settori, di interesse è la proposta di interventi legislativi specifici volti appunto a garantire un minimo di ore di lavoro, come per esempio l’istituto del “monte ore garantito” del CCNL delle agenzie di somministrazione o analogo meccanismo esistente nel settore del turismo.
Rispetto, poi, ad alcuni settori più critici dal punto di vista dei livelli retributivi, viene suggerita la strada di interventi volti al supporto al reddito dei lavoratori e delle famiglie, al contrasto al sommerso, al controllo delle gare pubbliche al massimo ribasso. In particolare, pensando all’ambito del lavoro domestico e di cura, dove i datori di lavoro sono le famiglie e dove un aumento delle tariffe retributive significherebbe uno scivolamento verso il lavoro nero, la Commissione dell’informazione suggerisce interventi e incentivi pubblici volti al sostegno alla famiglia, all’invecchiamento attivo e alla non autosufficienza.
Di particolare rilevanza, poi, è il suggerimento di re-introdurre la regola di parità di trattamento retributivo nell’ambito degli appalti.
Il problema dei c.d. contratti “pirata” potrebbe, secondo la Commissione, essere affrontato in sede legislativa con un intervento che favorisca i contratti collettivi maggiormente diffusi per ogni settore di riferimento, che generalmente sono quelli che garantiscono migliori condizioni normative ed economiche, rispetto alla contrattazione al ribasso. Da segnalare la proposta di condizionare la registrazione di un nuovo CCNL nell’Archivio nazionale dei contratti collettivi nazionali di lavoro e l’assegnazione del codice alfanumerico unico al rispetto del trattamento economico e normativo dei contratti collettivi maggiormente applicati, proprio per evitare la concorrenza al ribasso.
Si suggerisce poi un intervento normativo volto a chiarire che, nella determinazione del trattamento retributivo di cui all’articolo 36 della Costituzione, il giudice debba fare riferimento non solo al minimo tabellare ma al trattamento economico complessivo ordinario spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi di maggiore diffusione.
Di rilievo infine è la proposta di un intervento normativo che potrebbe individuare come standard di riferimento per la retribuzione minima adeguata la retribuzione stabilita come minimale contributivo, consistente in quella prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative.
Silvia Spattini
Direttrice ADAPT
@SilviaSpattini