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La contrattazione settoriale nel Regno Unito

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Bollettino ADAPT 2 settembre 2024 n. 30

 

A differenza del panorama italiano, in cui la contrattazione c.d. “multi-datoriale” di settore è fortemente sviluppata, nel Regno Unito, sin dagli anni ’80 si è assistito ad un decentramento della contrattazione collettiva. Si è giunti, dunque, ad una situazione in cui la contrattazione di settore è tendenzialmente scomparsa e si è creato un mercato del lavoro altamente individualizzato con uno scarso ruolo dei sindacati.

 

All’interno del contributo Introducing sectoral bargaining in the UK: why it makes sense and how it might be done, Keith Sisson, professore emerito di Relazioni industriali presso l’Università di Warwick si dedica all’analisi di un potenziale reinserimento della contrattazione settoriale nel Regno Unito e ai benefici che questa comporterebbe sia per i sindacati che per le associazioni dei datori di lavoro. Nella seconda parte del suo contributo, si affrontano invece le questioni che sarebbe necessario risolvere nel caso in cui il Regno Unito riuscisse ad introdurre la contrattazione settoriale.

 

I benefici dell’introduzione di una contrattazione di settore

 

Il contributo prende le mosse dalla circostanza che i lavoratori inglesi avrebbero perso molto a causa del declino della contrattazione settoriale e della regolamentazione congiunta: un esempio sono gli aumenti salariali inferiori all’inflazione e la maggiore insicurezza dei rapporti di lavoro. È però interessante osservare come anche i datori di lavoro risultino impoveriti dallo scarno ruolo della contrattazione di settore, avendo ottenuto non tanto la flessibilità contrattuale sperata, quanto piuttosto una maggiore rigidità giuridica. In mancanza di accordi settoriali, infatti, è stato necessario introdurre una serie di tutele legali per la gestione dei rischi, ma non sempre soluzioni uniformi nel panorama nazionale risultano efficaci in contesti lavorativi fortemente differenziati.

 

È essenziale tenere a mente che quando si parla di contrattazione collettiva, non ci si riferisce al solo salario, ma a una regolamentazione congiunta di diverse questioni, come il coinvolgimento dei dipendenti, la formazione e lo sviluppo del personale, la disciplina del licenziamento e tanto altro. Sisson si dedica all’approfondimento dei benefici dello sviluppo della contrattazione di settore. Secondo l’autore, ci sono due ragioni principali per cui gli accordi settoriali devono essere preferiti alla regolamentazione legale: la prima è il maggiore coinvolgimento dei lavoratori e la seconda è la capacità della contrattazione collettiva di adeguarsi alle peculiarità dei singoli ambiti e settori.

 

La contrattazione di settore andrebbe preferita alla regolazione unilaterale aziendale, inoltre, perché per i datori di lavoro vi è un notevole risparmio sui costi di gestione delle relazioni di lavoro.

 

Sulla base dell’analisi dell’autore, un approccio di settore permetterebbe di uniformare le condizioni di lavoro delle aziende di un determinato ambito e di evitare che si crei una ricchezza fondata su salari bassi e cattive condizioni per i lavoratori. Questo approccio va a vantaggio sia dei sindacati che delle organizzazioni datoriali. Queste ultime, infatti, acquisirebbero un ruolo di intermediario, consentendo a tutte le aziende rappresentate e non solo alle grandi realtà, di partecipare ai processi di definizione delle politiche sul lavoro a livello nazionale.

 

Peraltro, i benefici del coinvolgimento dei rappresentanti sindacali e datoriali sono stati riconosciuti anche nel rapporto dell’OCSE, Global Deal report, Social Dialogue, Skills and Covid-19 (2020),  in cui si afferma che il dialogo sociale è stato fondamentale per affrontare i danni causati dalla pandemia. La contrattazione settoriale migliora, infatti, la qualità delle decisioni rendendole più coerenti con la specifica problematica. Un confronto costante con le organizzazioni rappresentative migliora la comprensione dei problemi e permette, all’insorgere di una crisi, di trovare un maggiore consenso e una maggiore apertura ad una soluzione condivisa.

 

All’interno del suo elaborato, Sisson elenca anche quelli che potrebbero essere i vantaggi degli accordi di settore a livello macroeconomico, ovvero:

1. un migliore bilanciamento fra salari, inflazione, livelli di disoccupazione e tassi di crescita economica. Sempre secondo l’OCSE (in Negotiating Our Way Up: Collective Bargaining in a Changing World of Work del 2019): “(…) il coordinamento aiuta le parti sociali a tenere conto della situazione del ciclo economico e degli effetti macroeconomici degli accordi salariali sulla competitività. Il livello effettivo di centralizzazione è un’altra dimensione cruciale: i sistemi in cui il decentramento è organizzato e coordinato dal centro (cioè sistemi in cui gli accordi a livello settoriale stabiliscono ampi quadri normativi ma lasciano le disposizioni di dettaglio alle negoziazioni di livello aziendale e dove il coordinamento è piuttosto forte) tendono a produrre buone performance occupazionali e una maggiore produttività”;

2. minori disuguaglianze. L’OCSE prende come riferimento tre misure per i confronti internazionali sulle disuguaglianze: la dispersione dei redditi (in base alla quale per salario basso si intende un salario inferiore di due terzi rispetto al salario orario mediano e per salario alto si considera quello che supera di 1,5 volte il salario orario mediano); il coefficiente di Gini (che condensa la distribuzione del reddito disponibile fra le famiglie in un numero compreso fra zero e uno; più alto il numero, maggiore la disuguaglianza); il c.d. “gender wage gap” misurato come differenza tra i guadagni mediani di uomini e donne rispetto ai guadagni mediani degli uomini. Con riferimento a tutte e tre le misure, la disuguaglianza risulta maggiore nel Regno Unito e negli Stati Uniti rispetto agli altri paesi OCSE, e ciò probabilmente è legato ad un maggiore decentramento (disorganizzato) della contrattazione collettiva. È emerso, infatti, che maggiori densità sindacale e centralizzazione/coordinamento della contrattazione salariale sono direttamente proporzionali ad una minore disuguaglianza salariale complessiva.

 

Contrattazione settoriale nel Regno Unito – Come introdurla

 

Sisson parte da un punto di attualità nel Regno Unito, ossia l’impegno da parte del Labour Party di introdurre un accordo nel settore socio-sanitario, ad oggi incapace di assolvere ai suoi compiti essenziali a causa di numerose questioni, tra cui l’assetto composto sia dal settore pubblico (NHS) che da servizi privati, problemi nell’assunzione e nel mantenimento della forza lavoro.

 

Nonostante il Labour Party mostri cautela verso il sostegno alla contrattazione di settore per l’intera economia del Regno Unito, questa è ritenuta particolarmente necessaria nella cosiddetta “foundational economy”, ovvero quella parte di economia composta da settori non competitivi e al di fuori della concorrenza internazionale (es.: assistenza all’infanzia, servizi di pulizie, logistica). Di particolare importanza è la struttura di questi settori, costituiti principalmente da piccole e medie imprese (PMI) costrette a contrattare individualmente, che quindi beneficerebbero grandemente dall’introduzione di un accordo di settore capace di abbattere i costi di transazione. Tuttavia, la debolezza delle parti datoriali nel settore è fonte di preoccupazione, rispetto alla quale accordi tripartiti (con il coinvolgimento del governo) potrebbero essere risolutivi.

 

Istituzioni principali

 

La proposta ha come punto di partenza i Wages Council e i contratti già consolidati, e la responsabilità statutaria di avviare le procedure spetterebbe al Segretario di Stato. Dopo la consultazione delle parti, egli dovrebbe quindi istituire un National Joint Council (NCJ) qualora “non esistesse una contrattazione collettiva efficace a livello settoriale; o la contrattazione collettiva presente nel settore non sia sufficiente a stabilire termini e condizioni minimi per l’intero settore in relazione alle materie obbligatorie”. Tale consiglio sarebbe composto da un pari numero di rappresentanti dei lavoratori e datori di lavoro e in cui il Segretario di Stato potrebbe decidere se inserire dei membri indipendenti con diritto di voto con il compito di conciliatori in caso di stallo delle negoziazioni. L’importanza degli accordi tripartiti rimarrebbe la stessa.

 

Gli accordi settoriali come codici anziché contratti

 

Sisson ricostruisce la storia del quadro giuridico riguardante le relazioni industriali, affermando che il declino della contrattazione collettiva in Regno Unito si riconduce spesso alla mancanza di contratti giuridicamente vincolanti, obbligari solo a livello d’onore e non come codici statutari in un contesto di common law. Tuttavia, di fatto non c’era nessun ostacolo per le parti sociali nel rendere i contratti negoziati legalmente vincolanti, quanto piuttosto una mancanza di volontà delle stesse parti e un’incompatibilità di linguaggio (a questo proposito la Royal Commission on Trade Union and Employers’ Associations argomentava che per essere codificati, essi avrebbero dovuto essere stati riscritti con l’ausilio di un avvocato professionista). Invero, la maggioranza della Commissione ha respinto le proposte di rendere giuridicamente vincolanti i contratti collettivi non tanto per motivi di principio, quanto piuttosto adducendo come causa la concretezza della contrattazione collettiva nel Regno Unito.

 

Dunque, oggi, per quanto riguarda la legislazione necessaria per introdurre la contrattazione settoriale, il suggerimento è di rendere gli accordi di settore dei contratti giuridicamente vincolanti, in forma di “Good Work sector Agreements”, e attuati, ad esempio, dagli stessi organismi governativi che vigilano sulle normative nazionali, come avviene in Irlanda e in Nuova Zelanda. A sostegno di tale proposta, si suggerisce l’introduzione di un nuovo sistema di Tribunale del Lavoro, articolato in più livelli, con giurisdizione esclusiva per trattare tutte le questioni relative al lavoro. Le criticità emerse per questa ipotesi riguardano i numerosi problemi di adattamento del quadro legislativo: difatti, la stessa Royal Commission afferma che il modello di common law britannico richiederebbe il lavoro congiunto di esperti di relazioni sindacali e di avvocati.

 

Per questi motivi, sono esplorate nel testo altre ipotesi, fra cui la possibilità di rendere l’accordo di settore un ‘Order’, il mancato rispetto del quale costituirebbe un reato, legittimando così i lavoratori a presentare una richiesta civile in caso di mancato pagamento delle tariffe appropriate; ovvero, consentire al Segretario di Stato di proporre alle parti sociali di trasformare il proprio accordo di settore in un Codice di Condotta dell’Acas, ente pubblico che fornisce servizi di consulenza, conciliazione e mediazione fra le parti sociali. È indubbio, d’altronde, che questo approccio richiederebbe minori aggiustamenti al quadro legislativo, avendo inoltre il vantaggio di far esprimere i contratti di settore nel linguaggio delle relazioni sindacali e di non richiedere il supporto di un avvocato, oltre a promuovere e condividere le relazioni industriali stesse, nonché le best practices con ruolo educativo fondamentale nell’aiutare le imprese a rimanere aggiornate sulle sfide di settore.

 

Se, da un lato, chiarisce Sisson, è chiaro che la scelta di un percorso rispetto a un altro dipenderà da come il governo vorrà promuovere gli accordi settoriali in termini di obiettivi e finalità, dall’altro è evidente che, qualunque sia il percorso scelto, vi sia la necessità di istituire un’autorità pubblica che controlli la legittimità degli accordi settoriali.

 

Il principio di equità

 

All’interno del documento, il principio di equità (fairness) assume un ruolo centrale, soprattutto riguardo alla priorità da attribuire al “lavoro equo” rispetto alla “paga equa”. Questo principio si articola in due dimensioni: l’equilibrio tra sforzi e benefici e l’equità nelle decisioni che vengono prese. Il pericolo di concentrarsi sulla sola questione del salario è che, infatti, questioni come queste così come il dialogo sociale, vengono marginalizzate perché poco si prestano alla “negoziazione distributiva”. In aggiunta, ciò deteriorerebbe anche la situazione delle PMI in quanto si aumenterebbe in maniera significativa il costo del lavoro, portando a tagli del personale e un aumento del carico di lavoro sui dipendenti rimanenti.

 

Il contenuto degli accordi

 

Due sono quindi le tipologie di contenuti degli accordi descritti da Sisson se venisse inserita la contrattazione settoriale, considerando poi che argomenti specifici varierebbero da settore a settore:

il lavoro equo, ripreso anche da Fair Work Tales, e in particolare le questioni relative a: giusta ricompensa; rappresentanza collettiva; sicurezza e flessibilità; possibilità di accesso; crescita e progresso; ambiente lavorativo sano e inclusivo; diritti sostanziali;

– la disciplina di questioni sostanziali come retribuzione, straordinari, pensioni e ferie, come riaffermato anche da una proposta del Trade Union Congress (TUC); aspetti procedurali e diritti dei lavoratori, come quello di informazione e consultazione.

 

È indubbio, però, afferma Sisson, che le proposte finali dovranno tenere in considerazione il rapporto fra i diversi livelli di contrattazione. Le preoccupazioni dell’autore riguardano principalmente il fenomeno della “decentralizzazione disorganizzata” che può verificarsi quando la contrattazione si sposta dal livello settoriale a quello aziendale senza alcun coordinamento tra i due livelli. Questo comporta infatti il rischio che l’autorità dell’accordo settoriale venga indebolita, soprattutto a discapito dei lavoratori nelle PMI, a causa delle deroghe, delle riforme e delle eccezioni previste a livello aziendale. Difatti, solo se avviene in maniera adeguata e dunque con un “decentramento organizzato”, caratterizzato da coordinamento fra i livelli, questa transizione può portare ad una situazione ideale in cui vengono affermate le condizioni minime a livello settoriale, senza il rischio che vengano messe in discussione nelle negoziazioni a livello aziendale.

 

A tal fine, il documento suggerisce la necessità che le stesse parti sociali sostengano lo sviluppo del dialogo sociale, in particolare attraverso una dichiarazione dell’obiettivo complessivo dell’accordo settoriale, dunque facendo esplicito riferimento alle questioni che l’accordo si propone di affrontare; ovvero l’organizzazione di incontri trimestrali del consiglio tripartito, con gruppi di lavoro congiunti che si occupino di ricercare e monitorare le principali criticità del settore, anche con l’ausilio di esperti e terze parti.

 

Per quanto riguarda invece il ruolo del governo nazionale guidato dai Labour, l’autore si rifà alle linee guida della Commissione Europea. Si richiama, in particolare, la necessità di:

– assicurare la consultazione delle parti sociali nella progettazione di politiche economiche e sociali;

– incoraggiare le parti sociali a prendere in considerazione nuove forme di lavoro;

– consentire alle organizzazioni datoriali e dei lavoratori di crescere, facendo in modo che abbiano le informazioni rilevanti e assicurando loro il supporto da parte del governo nazionale.

 

Promuovere la produttività

 

Afferma Sisson che, tuttavia, nelle discussioni sull’introduzione della contrattazione settoriale si è prestata poca o nessuna attenzione a come verranno finanziati i miglioramenti previsti in termini di salario e condizioni di lavoro, che ovviamente dipenderanno a seconda del settore. Ad esempio, nel settore socio-sanitario è probabile che i fondi possano arrivare direttamente dal governo nazionale nella forma di investimenti sulla forza lavoro. Diversamente, in altri settori, non essendo previsto alcun finanziamento a causa delle pressioni attese sulla spesa pubblica, si prevede che i finanziamenti potranno derivare dagli stessi profitti delle aziende.  Tuttavia, anche in questo caso alcune aziende registreranno alcune criticità poiché ancora intrappolate nello schema di “bassa retribuzione, bassa qualificazione, bassa produttività”. Considerando, dunque, la limitata capacità di redistribuzione dai lavoratori più pagati a quelli meno pagati all’interno del settore, queste aziende avranno bisogno di aiuto per migliorare la loro produttività e performance, agendo non solo sull’eliminazione del basso salario ma incentivando tutta una serie di politiche coordinate e di sotto investimento e crescita.

 

In generale, si raccomanda al governo nazionale di modificare il suo modello di sviluppo economico investendo nell’innovazione e nella produttività della foundational economy, oltre a eliminare fattori che minano standard lavorativi dignitosi.

 

Conclusioni

 

Auspicando l’introduzione della contrattazione settoriale nel Regno Unito, Sisson analizza nel suo paper come questo possa concretamente attuarsi nel contesto politico-legislativo attuale britannico. È evidente, infatti, che questa transizione possa avvenire in un sistema di common law, in cui gli accordi sono di difficile codificazione, solo attraverso concrete misure a sostegno. Sisson raccomanda, inoltre, una visione più ampia del concetto di contrattazione settoriale, non basata esclusivamente sull’aumento dei salari ma piuttosto sul ‘fair work’, ossia l’insieme delle garanzie di cui deve godere il lavoratore (es.: formazione, sicurezza).

 

Nel contesto delineato, è quindi chiaro come la proposta dell’attuale Governo di introdurre la contrattazione settoriale nell’ambito socio-sanitario possa essere un trampolino di lancio per mettere in pratica le proposte illustrate dall’autore per migliorare non solo la contrattazione collettiva, ma anche, attraverso essa, le condizioni di quei settori appartenenti alla ‘foundational economy.

 

Francesca Coluccia

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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Emanuele Ligas

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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Il ruolo della contrattazione collettiva nelle proposte di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro

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Bollettino speciale ADAPT 10 luglio 2024, n. 4

 

l presente articolo studia la rilevanza che viene data alla contrattazione collettiva nella determinazione dell’orario di lavoro nelle più recenti proposte di legge sul tema. In effetti, trattandosi di un aspetto fondamentale e centrale per la contrattazione collettiva, risulta essenziale mettere in luce le possibilità e i limiti riconosciuti dalla legislazione a tale strumento di regolazione dei mercati del lavoro.
 
In particolare, sono stati analizzati i testi delle tre proposte di legge e la Documentazione per l’esame dei Progetti di legge del Servizio studi della Camera dei deputati, che si è occupata di analizzare destinatari, contenuto, campo di applicazione, nonché alcune delle materie considerate dalle proposte di legge (Dossier n. 272 – Schede di lettura 3 aprile 2024).
 
 
“Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro”, proposta n. 142 presentata il 13 ottobre 2022 dai Deputati Fratoianni e Mari
 

La proposta di legge “Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro” presentata dai deputati Fratoianni e Mari (proposta n. 142 presentata il 13 ottobre 2022) ha come oggetto principale la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. In particolare, la presente proposta di legge, a differenza delle altre analizzate nell’articolo, prevede la riduzione dell’orario normale di lavoro, attualmente stabilito dal d. lgs. n. 66/2003, portandolo da 40 ore settimanali a 34. Infatti, i promotori non vogliono incentivare sperimentazioni in merito alla riduzione dell’orario di lavoro in azienda ma intendono imporre per legge il limite normale di 34 ore settimanali a parità di salario.

 
La proposta di legge ricalca quindi la struttura del D. lgs. del 2003, anche nella parte in cui la contrattazione collettiva può derogare alla disciplina legislativa. In particolare, il rinvio alla contrattazione collettiva viene compiuto per regolare: la modulazione dell’orario settimanale di lavoro e la gestione negoziale della flessibilità oraria; le pause di lavoro e il riposo giornaliero; le ferie annuali; le attività usuranti; il lavoro straordinario; il lavoro notturno e le sanzioni in caso di violazione delle disposizioni.
 
Nello specifico, sono i contratti collettivi a dover «prevedere una riduzione dell’orario legale di lavoro fino a un orario medio settimanale di trentaquattro ore, fermi restando i vigenti limiti legali e contrattuali inferiori» (art.7). Pertanto, la contrattazione collettiva di settore resta la fonte competente a organizzare e modulare il nuovo orario di lavoro.  La distribuzione dell’orario normale di lavoro settimanale e giornaliero, anche su base multiperiodale, è stabilita in sede contrattuale, ma sono consentite variazioni successive nella distribuzione dell’orario previo confronto con le rappresentanze sindacali, anche aziendali, e il consenso del lavoratore interessato. Per quanto riguarda l’orario massimo, invece, è disposto che in nessun caso – salvo le eccezioni previste dagli artt. 10 e 11 del regolamento di cui al regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955 – l’orario settimanale di lavoro, comprensivo delle ore di lavoro straordinario, può superare le quaranta ore settimanali o le otto ore giornaliere, prevedendo un limite legale inderogabile per l’autonomia collettiva. Rispetto alla disciplina vigente, pertanto, si introduce una soglia giornaliera e non più solo settimanale e viene eliminata la possibilità di calcolare la durata massima settimanale come media di un periodo superiore alla settimana. Attualmente, infatti l’art. 4 del D. lgs. n. 66 del 2003 prevede che la durata massima dell’orario di lavoro debba essere calcolata come media di un periodo non superiore ai quattro mesi, con la possibilità per il contratto collettivo di stabilire un tempo superiore in presenza di ragioni obiettive.
 
La proposta di legge mira, inoltre, a limitare il lavoro straordinario a un massimo di due ore al giorno e sei ore alla settimana. La contrattazione collettiva può stabilire il limite annuale, le maggiorazioni retributive e la procedura per il lavoro straordinario, garantendo in aggiunta, a livello di contrattazione nazionale, un minimo di maggiorazione almeno del 40% sulla retribuzione ordinaria, o del 50% per il lavoro festivo o notturno. Solo nel caso in cui non vi siano accordi collettivi (nazionali o aziendali), opera la disciplina legale.
 
Anche sulle pause di lavoro viene ricalcata la disciplina preesistente, ma viene aumentata la durata della pausa nel caso in cui l’orario di lavoro giornaliero ecceda le sei ore. Per quanto riguarda il riposo giornaliero, che la proposta eleva ad     almeno dodici ore consecutive nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore, è disposto che la contrattazione collettiva possa prevedere      deroghe, anche a livello aziendale, «per prestazioni di pronto intervento o di attesa nei servizi pubblici». Similmente, la determinazione della misura della retribuzione durante le ferie e delle modalità di utilizzo delle ferie viene demandata alla contrattazione collettiva nazionale, con il limite minimo di durata, stabilito ex lege, di almeno quattro settimane lavorative (art. 9).
 
La contrattazione collettiva è inoltre competente nella definizione della riduzione oraria per l’esercizio di attività usuranti di cui alla tabella A allegata al decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 374 che deve essere almeno di ulteriori cinque ore settimanali rispetto all’orario normale di lavoro di 34 ore (art. 10).
 
Per quanto riguarda il lavoro notturno, la proposta di legge ricalca la disciplina preesistente circa la durata massima del lavoro notturno, aprendo qui alla possibilità – per previsione contrattuale, anche aziendale – di stabilire un periodo di riferimento superiore alle ventiquattro ore sul quale calcolare la media della durata della prestazione notturna. La norma, inoltre, sancisce che «l’orario notturno determina una riduzione della durata del tempo di lavoro settimanale e mensile e una maggiorazione retributiva» ed è la contrattazione collettiva, anche aziendale, a stabilirne i criteri e le modalità (art. 12) e a indicare i requisiti dei lavoratori esclusi dall’obbligo di effettuare lavoro notturno o prevedere trattamenti migliorativi a quelli previsti per legge (art. 13). Attenzione viene posta anche sul tema della salute e sicurezza delle prestazioni di lavoro notturno sul quale la contrattazione collettiva può prevedere modalità e specifiche misure di prevenzione per particolari categorie di lavoratori che eseguono prestazioni di lavoro notturno ed è competente anche per quanto riguarda il trasferimento al lavoro diurno nel caso sopraggiungano condizioni di salute che comportino l’inidoneità alla prestazione di lavoro notturno (artt. 15 e 16).
 
Particolarmente innovativa è l’attenzione che la proposta di legge rivolge alla conciliazione delle esigenze di vita-lavoro. Su questo tema, gli attori principali sono le parti sociali che possono stabilire tramite contratti collettivi, anche aziendali, orari individuali, collettivi, di gruppo e personalizzati in modo da diversificare la durata lavorativa, ad esempio, attraverso sistemi di banche di ore (art. 17). Per quanto riguarda la gestione della flessibilità dell’orario, l’art. 18 rinvia agli accordi sindacali aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale costituite nell’impresa o unità produttiva e amministrativa, o, in loro mancanza, dalle organizzazioni sindacali provinciali aderenti alle confederazioni stipulanti il contratto collettivo nazionali di categoria applicato nell’impresa o unità produttiva o l’accordo di comparto applicato nell’unità amministrativa. L’accordo può essere condizionato alla sua approvazione tramite referendum da parte della maggioranza dei lavoratori votanti tra i lavoratori interessanti nel caso di dissenso o di mancata sottoscrizione da parte di uno o più dei soggetti collettivi o nel caso lo richieda il 20 per cento dei lavoratori interessati.
 
Infine, le sanzioni amministrative e pecuniarie si applicano tanto in caso di violazione dei limiti legali quanto da quelli previsti dalla contrattazione. È poi la stessa contrattazione collettiva a dover adeguare la disciplina sull’orario di lavoro a quanto previsto dal disegno di legge alla prima scadenza contrattuale, comunque non oltre dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge (art. 21).
 
In conclusione, la contrattazione continua a svolgere un ruolo fondamentale in molti aspetti legati alla riduzione dell’orario di lavoro. Tuttavia, rispetto al D.lgs. 66/2003, sembra che questa proposta di legge ne limiti di fatto l’agibilità, introducendo numerosi vincoli precedentemente non previsti.


 
“Disposizioni sperimentali concernenti la riduzione dell’orario di lavoro mediante accordi definiti nell’ambito della contrattazione collettiva”, proposta n. 1000 presentata il 15 marzo 2023 dai Deputati Conte, Carotenuto e altri
 

La proposta di legge n. 1000 “Disposizioni sperimentali concernenti la riduzione dell’orario di lavoro mediante accordi definiti nell’ambito della contrattazione collettiva”, presentata il 15 marzo 2023, con primo firmatario il deputato Conte, mira ad incentivare l’adozione di forme di riduzione d’orario a parità di retribuzione mediante la stipula di specifiche intese da parte della contrattazione collettiva, allo scopo di adeguare l’attuale disciplina dell’orario di lavoro alle dinamiche sociali ed economiche, alle conseguenze dello sviluppo tecnologico sul mercato del lavoro, promuovere l’occupazione e incrementare la produttività del lavoro, migliorare la conciliazione vita-lavoro.
 
Nel merito della proposta, la contrattazione collettiva è quindi individuata quale strumento più idoneo per l’adozione di forme flessibili di organizzazione del lavoro concernenti una riduzione dell’orario settimanale a parità di salario. Più specificatamente, tale valorizzazione dell’autonomia contrattuale collettiva si evince già al comma 1 dell’art. 2, con il riconoscimento in capo alle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, nonché alle loro articolazioni territoriali o aziendali, la facoltà di stipulare «specifici contratti» per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione.
 
La riduzione che si intende promuovere tramite la sottoscrizione di tali contratti riguarda l’orario normale settimanale (fissato in 40 ore dall’ art. 3 d. lgs. n. 66/2003), fino alla misura minima di 32 ore settimanali a parità di retribuzione (rinvio gruppo 2)È rimessa sempre agli attori collettivi la possibilità di stabilire, nell’ambito di tali contratti, i criteri e le modalità di individuazione dei lavoratori interessati all’applicazione (anche su base volontaria) di tali schemi di riduzione oraria (comma 2, art. 2).
 
La proposta di legge in esame attribuisce un ruolo di rilievo nella promozione di forme di riduzione oraria direttamente ai lavoratori e al datore di lavoro, seppur con un intervento che rispetto alla contrattazione collettiva è solo eventuale. Infatti, per sopperire all’eventuale inerzia da parte degli attori collettivi, è previsto che in mancanza di uno specifico accordo collettivo sulla riduzione d’orario, il 20% dei lavoratori dell’azienda o il datore di lavoro possono presentare una «proposta di contratto per la riduzione d’orario dell’orario», fino a 32 ore settimanali, a parità di retribuzione, da sottoporre a referendum dei lavoratori entro i 90 giorni successivi alla presentazione (comma 3).
 

Infine, un ulteriore esplicito rinvio alla contrattazione collettiva (tutti i livelli contrattuali) è sancito all’art. 5, ove è attribuito il potere di disciplinare ulteriori modalità di attuazione dei contratti per la riduzione d’orario.
 
 
“Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro”, proposta n. 1505 presentata il 20 ottobre 2023 dai Deputati Scotto, Schlein e altri

 
Il Disegno di legge “Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro”, proposta n. 1505 presentata il 20 ottobre 2023 dai Deputati Scotto, Schlein e altri si concentra sulla sfida della diversa organizzazione dei tempi di lavoro a parità di salario.
 
Il testo della proposta, in particolare, promuove la sottoscrizione di contratti collettivi tra imprese e le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, volti a definire modelli organizzativi che sperimentino la progressiva riduzione dell’orario di lavoro mantenendo invariato il salario, anche tramite l’adozione di turni su quattro giorni settimanali.
 
Un elemento centrale del disegno di legge è, dunque, la promozione delle sperimentazioni di riduzione dell’orario di lavoro attraverso la contrattazione collettiva. In particolare, nella proposta in esame, la riduzione dell’orario di lavoro è demandata ai contratti stipulati tra le imprese e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
 
Da queste prime evidenze emerge una differenza significativa rispetto, in particolare, alla proposta di legge “Disposizioni sperimentali concernenti la riduzione dell’orario di lavoro mediante accordi definiti nell’ambito della contrattazione collettiva” (proposta n. 1000, presentata il 15 marzo 2023 dai Deputati Conte, Carotenuto e altri). Mentre questa proposta di legge si concentra sugli accordi definiti dalle organizzazioni datoriali a livello nazionale, il disegno di legge presentato da Scotto, Schlein e altri sposta l’attenzione sulle imprese stesse come parti firmatarie dei contratti collettivi. Questo implica che il disegno di legge affida (quantomeno prevalentemente) alla contrattazione collettiva aziendale il compito di sperimentare la progressiva riduzione dell’orario di lavoro, mantenendo invariato il salario in cambio di un parziale esonero dal versamento dei contributi previdenziali previsti.
 
Il disegno di legge, quindi, non impone direttamente una riduzione dell’orario legale di lavoro attraverso i contratti collettivi, ma crea un sistema che incentiva tali sperimentazioni. Il disegno di legge dichiara infatti di voler sostenere la contrattazione collettiva che, rispettando il ruolo delle parti sociali, incentiva le soluzioni che permettono incrementi di produttività e riduzioni dell’orario di lavoro a parità di retribuzione. Emerge, in tal senso, una generale delega alla contrattazione collettiva aziendale rispetto alla ricerca e sperimentazioni di soluzioni che incentivino la riduzione dell’orario di lavoro tramite, ma non solo, la sperimentazione della settimana lavorativa di quattro giorni.
 
A differenza di altre proposte di legge, come il disegno di legge Fratoianni e Mari “Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro” (proposta n. 142 presentata il 13 ottobre 2022), la proposta in esame non entra nel dettaglio di questioni relative all’organizzazione del lavoro, sebbene queste siano tematiche rilevanti nel contesto della regolazione dell’orario.
 
In tal senso, si può altresì riconoscere una quasi totale autonomia conferita alle parti sociali, in particolare alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e alle imprese, riguardo alle modalità e ai contenuti delle disposizioni in merito alla riduzione dell’orario di lavoro. Questo implica che le parti coinvolte hanno la facoltà di negoziare e determinare specifiche soluzioni adattate alle loro esigenze e contesti operativi. La flessibilità concessa può consentire di sviluppare accordi che possano rispondere in maniera più efficace alle peculiarità dei singoli settori e delle diverse realtà aziendali. L’approccio adottato dalla proposta di legge, dunque, sembra mirare a garantire che le misure adottate siano non solo fattibili, in termini astratti, ma anche concretamente sostenibili, promuovendo così un equilibrio tra l’efficienza produttiva e la competitività delle imprese e il benessere dei lavoratori. In definitiva, la responsabilità di definire i dettagli operativi della riduzione dell’orario lavorativo è affidata direttamente ai soggetti che meglio conoscono le dinamiche e le necessità del proprio ambiente di lavoro, conferendo un ruolo centrale alla contrattazione collettiva aziendale come strumento di regolazione e innovazione nel mondo del lavoro.
 
Per concludere, è opportuno sottolineare che il disegno di legge contempla specifiche deroghe per il settore agricolo e domesticodecisione presumibilmente motivata dalle particolari caratteristiche delle attività svolte. Tuttavia, risulta evidente che assegnare alla contrattazione collettiva il compito di regolare la possibile normativa sulla riduzione dell’orario di lavoro renda tale specificazione apparentemente superflua, considerando che le parti sociali avrebbero comunque la facoltà di decidere l’applicazione della normativa per specifiche categorie professionali, escludendone altre in base alle peculiarità intrinseche del lavoro stesso.
 
 
Conclusioni
 
Rinviando ad altra sede per la trattazione su cosa s’intenda per riduzione dell’orario di lavoro, elemento che inevitabilmente incide su ciascuna proposta di legge, qui abbiamo voluto interrogarci su quale sia il ruolo attribuito dalle diverse proposte alla contrattazione collettiva, nel suo rapporto con la legge, in materia di governo del tempo di lavoro.
 
Guardando al primo disegno “Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro”, proposta n. 142 presentata il 13 ottobre 2022 dai Deputati Fratoianni e Mari, si nota come la fonte che introduce il nuovo limite orario settimanale ridotto sia la legge e non la contrattazione collettiva. Infatti, i promotori intendono imporre per legge il limite di 34 ore settimanali a parità di salario, lasciando invece alla contrattazione collettiva, principalmente nazionale, il compito di «prevedere una riduzione dell’orario legale di lavoro fino a un orario medio settimanale di trentaquattro ore, fermi restando i vigenti limiti legali e contrattuali inferiori» (art.7). Pertanto, la contrattazione collettiva di settore è, dopo la legge ed ex lege, la fonte competente a organizzare e modulare il nuovo orario di lavoro. Conseguentemente, la proposta prevede inoltre un rinvio alla contrattazione collettiva in merito a tematiche quali l’orario settimanale di lavoro, la sua modulazione e la gestione negoziale della flessibilità oraria; le pause di lavoro e il riposo giornaliero; le ferie annuali; le attività usuranti; il lavoro straordinario; il lavoro notturno e le sanzioni in caso di violazione delle disposizioni.
 
Differentemente, il disegno “Disposizioni sperimentali concernenti la riduzione dell’orario di lavoro mediante accordi definiti nell’ambito della contrattazione collettiva”, proposta n. 1000 presentata il 15 marzo 2023 dai Deputati Conte, Carotenuto e altri, nonché      il disegno “Disposizioni per favorire la riduzione dell’orario di lavoro”, proposta n. 1505 presentata il 20 ottobre 2023 dai Deputati Scotto, Schlein e altri incentivano la contrattazione collettiva quale strumento centrale per promuovere modalità di riduzione dell’orario attraverso sperimentazioni.
 
Dato il richiamo, seppur diversificato, delle diverse proposte di legge alla contrattazione collettiva, è opportuno in secondo luogo indagare quale livello di contrattazione sia promosso. Per quanto riguarda la prima proposta presa in considerazione, il livello privilegiato è il livello nazionale: è alla contrattazione collettiva di settore che si affida il compito di ridurre l’orario di lavoro settimanale lavorato. Invero, in merito a questioni complementari, si apre anche all’azione della contrattazione collettiva aziendale.
 
Se la seconda proposta di legge adotta una soluzione mediana, prevedendo un ruolo per la contrattazione di settore ma aprendo anche alla contrattazione collettiva aziendale, la proposta dai Deputati Scotto, Schlein e altri, incentiva invece il solo livello aziendale quale livello privilegiato per sostenere sperimentazioni di riduzione dell’orario di lavoro.
 
È opportuno, inoltre, chiarire che il rinvio di tutte le proposte di legge in esame, pur richiamando diversi livelli negoziali (ovvero quello nazionale nella prima e nella seconda proposta, quello aziendale nella terza), identifica quali soggetti abilitati alla stipula di tali intese i soli soggetti comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (in particolare, le prime due proposte di legge fanno riferimento alle organizzazioni sindacali e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative, mentre la terza richiama le sole organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, scelta motivata dal fatto che la proposta di legge Scotto, Schlein e altri, incentiva prevalentemente la contrattazione collettiva di secondo livello).
 
Infine, è opportuno evidenziare che tutti i disegni di legge delineano varie misure per incentivare la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento dell’occupazione, principalmente tramite incentivi fiscali e contributivi. La prima proposta, ad esempio, all’art. 6 introduce sgravi fiscali legati alla stipula di accordi sindacali per la riduzione dell’orario di lavoro. Analogamente, la seconda proposta stabilisce un sistema di incentivi per tali accordi, offrendo ai datori di lavoro esoneri dai contributi previdenziali e assicurativi. E ancora la terza proposta, oltre a incrementare la dotazione del Fondo Nuove Competenze, concede ai datori di lavoro privati, con l’eccezione del settore agricolo e dei contratti di lavoro domestico, un’esenzione parziale del 30% sui contributi previdenziali complessivi, esclusi i premi e i contributi all’INAIL, in proporzione alla riduzione dell’orario di lavoro concordata.
 
Dunque, quale il ruolo riconosciuto alla contrattazione collettiva dalle proposte di legge in esame sulla riduzione dell’orario di lavoro? Se, difatti, promuovendo la contrattazione collettiva (similmente quella nazionale e quella aziendale), si porta avanti un sistema di regolazione del lavoro “di sussidiarietà” e, quindi, flessibile alle nuove esigenze di imprese e lavoratori, anche con riferimento alle proposte in esame è necessario comprendere e meglio chiarire quale sia davvero il ruolo del collettivo – e quali materie ad esso delegate, nel difficile intreccio tra disciplina legale e spazi di agibilità per l’autonomia collettiva – nell’accompagnare le trasformazioni contemporanee nel mondo del lavoro.
 
Uno spunto di riflessione conclusivo deriva, infine, dalla proposta di legge Conte, Carotenuto e altri che prevede il meccanismo per cui l’efficacia dell’accordo in merito alla riduzione dell’orario di lavoro possa essere condizionata all’approvazione tramite referendum. Si tratta indubbiamente di un punto delicato, in quanto, se da una parte apre a una maggiore democratizzazione della materia, dall’altra si presta a possibili usi strumentali, rischiando altresì di favorire la disintermediazione anche nel campo delle relazioni sindacali. In questo senso, dunque, si auspica che questi progetti di legge, oltre a disciplinare e riattivare il dialogo su un tema certamente importante quale l’orario di lavoro, stimolino la discussione anche sul ruolo e la funzione del collettivo stesso.
 
 Giuseppe Biundo

Apprendista di ricerca presso FIM CISL Nazionale

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Federica Chirico

Apprendista di ricerca ADAPT

@fedechirico
 
Sara Prosdocimi

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

@ProsdocimiSara

 

Verso un piano di azione nazionale a sostegno della contrattazione collettiva?

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Bollettino ADAPT 9 ottobre 2023, n. 34

 

Il dibattito pubblico sul tema del lavoro povero e del salario minimo si arricchisce di un nuovo capitolo. È stato infatti reso noto dal CNEL il documento Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia, quale esito della istruttoria tecnica svolta su incarico della presidenza del Consiglio dei Ministri dello scorso 11 luglio ai sensi dell’art. 99 della Costituzione. Il documento passa ora alla Assemblea del CNEL per il voto finale previsto per il prossimo 12 ottobre.

 

Con riferimento alla parte di inquadramento e analisi del problema, è di particolare interesse che siano state evidenziate le criticità legate alle basi informative relative ai dati sulle retribuzioni (v. Parte I, punto 4), che risultano fondamentali per poter procedere a una corretta rappresentazione delle retribuzioni percepite dai lavoratori, a confronti e a valutazioni sul tema (sul punto sia consentito rimandare a S. Spattini, Retribuzione oraria e salario minimo legale: l’importanza di comprendere la fonte e la generazione dei dati, in Bollettino ADAPT 24 luglio 2023, n. 28).

 

Inoltre, si afferma la necessità di meglio sviluppare l’Archivio dei contratti collettivi nazionali di lavoro del CNEL, in particolare allineando la classificazione in macro aree e settori in parallelo con la revisione dei codici ATECO in corso da parte di ISTAT.

 

Nell’inquadramento della questione dei salari minimi, vengono, invece, sottolineate le ragioni del lavoro povero in Italia, che ISTAT ha in diversi documenti evidenziato come legate alla scarsa intensità e continuità del lavoro. Anche Banca d’Italia sottolinea la presenza di redditi più bassi collegati a forme di lavoro temporaneo e a lavoro part‑time.

 

Rispetto alla questione problematica della c.d. contrattazione pirata, fenomeno che si vorrebbe contrastare con il salario minimo legale, viene dal CNEL certificato come «fattore di grave perturbazione del sistema di relazioni industriali e anche di corretta concorrenza tra le imprese con particolare riferimento ad alcune aree geografiche del Paese e in alcuni settori produttivi». Tuttavia, anche il CNEL sottolinea come di fatto il fenomeno si possa considerare marginale poiché le categorie che aderiscono a CGIL, CISL, UIL firmano 211 contratti collettivi nazionali di lavoro, che coprono 13.364.336 lavoratori dipendenti del settore privato (sempre con eccezione di agricoltura e lavoro domestico) (96,5% dei dipendenti dei quali si conosce il contratto applicato, in quanto indicato negli Uniemens), mentre i sindacati non rappresentati al CNEL sono attualmente firmatari di 353 CCNLapplicati soltanto a 54.220 lavoratori dipendenti, pari allo 0,4% dei lavoratori di cui è noto il CCNL applicato.

 

Dal documento emerge chiaramente che la sola introduzione di un salario minimo legale non risolverebbe innanzitutto la rilevante questione del lavoro povero, che, come evidenziato, è dovuto non tanto al livello delle retribuzioni orarie, ma piuttosto a ridotta intensità e continuità della occupazione. Ugualmente un salario minimo legale non inciderebbe né sulla pratica del dumpingcontrattuale, tanto meno potrebbe rafforzare la contrattazione collettiva.

 

Nell’affermare la centralità della contrattazione collettiva nella fissazione dei trattamenti salariali adeguati, posizione che potrebbe considerarsi scontata provenendo dal CNEL, dove siedono in maggioranza rappresentanti delle parti sociali, si argomenta, in sostanza, riportando le ragioni per cui un salario minimo legale non può essere un perfetto sostituto dei minimi contrattualiInfatti, questi costituiscono soltanto una parte, ancorché rilevante, del trattamento retributivo del lavoratore. Peraltro, occorre ricordare che i contratti collettivi fissano minimi per ogni livello del sistema di classificazione professionale. Inoltre, viene evidenziato come la contrattazione collettiva non sia un semplice sostituto della contrattazione economica individuale, ma al contrario «una vera e propria istituzione “politica” che concorre alla compensazione tra la domanda e l’offerta di lavoro».

 

Altra conclusione a cui perviene la Commissione del CNEL è «l’opportunità e l’urgenza di un piano di azione nazionale affidato al CNEL per la valorizzazione e il sostegno della contrattazione collettiva anche in termini di contributo al ripensamento delle misure pubbliche di incentivazione economica a imprese e lavoro». Da un lato tale piano dovrebbe supportare la contrattazione collettiva a prendere in considerazione le trasformazioni della domanda e della offerta di lavoro e quindi adeguare la strutturazione dei contratti collettivi per dare risposta sia alla questione salariale sia al nodo della produttività. Dall’altro lato, il menzionato piano di azione nazionale potrebbe diventare in supporto per Governo e Parlamento nel prendere in considerazione una revisione delle risorse economiche a sostegno della contrattazione collettiva, dell’occupazione di qualità, del welfare aziendale, della bilateralità delle piccole e medie imprese, della attività d’impresa e della produttività, in particolare riorientandoli verso i soli sistemi di contrattazione collettiva e bilateralità più consolidati e la cui fruibilità andrebbe subordinata alla condizione della integrale applicazione dei trattamenti retributivi complessivi garantiti dai contratti collettivi più diffusi a livello nazionale di categoria.

 

Un punto di particolare interesse riguarda la posizione che suggerisce la valorizzazione degli accordi interconfederali come strumento per individuare a livello di settore una giusta retribuzioneAuspicabilmente, essi potrebbero inserirsi in un quadro creato da un protocollo triangolare sulla politica dei redditi e della occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo sull’esempio del Protocollo Ciampi-Giugni del 1993. In questo ambito, la Commissione ritiene che potrebbero anche essere gestita la nota criticità dei ritardi nei rinnovi contrattuali, «prevedendo adeguati meccanismi di salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori».

 

Si ritiene, poi, che in quella cornice potrebbe essere trattata un’altra questione importante, quanto delicata, consistente nei criteri per stabilire per ogni i settori la rappresentatività delle parti contraenti. 

 

Infine, si riferisce anche della volontà di promuovere una riflessione istituzionale sulla promozione della contrattazione collettiva, sulla rappresentanza, sui perimetri contrattuali e sui sistemi qualificati di bilateralità.

 

Sulla base dell’analisi e delle osservazioni conclusive, il documento del CNEL perviene a una serie di proposte operative pensate principalmente in relazione alla prossima legge di bilancio e al collegato lavoro.

 

Con riferimento all’ambito di produttività e salari, innanzitutto, ritiene che il CNEL possa essere promosso come sede del National Productivity Board per l’Italia. Si tratta di un organismo previsto dalla Raccomandazione del Consiglio del 20 settembre 2016 sull’istituzione di comitati nazionali per la produttività e di cui l’Italia (insieme a pochi altri Paesi) è sprovvista. In questo contesto, le parti sociali potrebbero intervenire nel tentativo di legare le dinamiche retributive a quelle della produttività.

 

Si suggerisce poi una revisione degli incentivi previsti per i contratti di prossimità, per il welfare aziendale e per le misure di detassazione del premio di risultato, affinché siano più efficaci rispetto agli obiettivi dati, con attenzione verso le piccole e medie imprese, che si lega poi alla proposta delle parti sociali di intervenire in modo strutturale sul cuneo fiscale.

 

Sulla rilevante questione del lavoro povero, evidenziato che esso riguarda in modo più accentuato lavoratori temporanei, parasubordinati, lavoratori non genuinamente autonomi, lavoratori occasionali, stagisti, lavoratori con mansioni discontinue o di semplice attesa o custodia e lavoratori a tempo parziale involontario, si suggerisce di introdurre per questi lavoratori una tariffa tramite contrattazione, parametrata sugli indicatori della direttiva europea (60% del salario mediano o il 50% del salario medio).

 

Con particolare riferimento alla problematica del limitato numero di ore di lavoro, che caratterizza i contratti in alcuni settori, di interesse è la proposta di interventi legislativi specifici volti appunto a garantire un minimo di ore di lavoro, come per esempio l’istituto del “monte ore garantito” del CCNL delle agenzie di somministrazione o analogo meccanismo esistente nel settore del turismo.

 

Rispetto, poi, ad alcuni settori più critici dal punto di vista dei livelli retributivi, viene suggerita la strada di interventi volti al supporto al reddito dei lavoratori e delle famiglie, al contrasto al sommerso, al controllo delle gare pubbliche al massimo ribasso. In particolare, pensando all’ambito del lavoro domestico e di cura, dove i datori di lavoro sono le famiglie e dove un aumento delle tariffe retributive significherebbe uno scivolamento verso il lavoro nero, la Commissione dell’informazione suggerisce interventi e incentivi pubblici volti al sostegno alla famiglia, all’invecchiamento attivo e alla non autosufficienza.

 

Di particolare rilevanza, poi, è il suggerimento di re-introdurre la regola di parità di trattamento retributivo nell’ambito degli appalti.

 

Il problema dei c.d. contratti “pirata” potrebbe, secondo la Commissione, essere affrontato in sede legislativa con un intervento che favorisca i contratti collettivi maggiormente diffusi per ogni settore di riferimento, che generalmente sono quelli che garantiscono migliori condizioni normative ed economiche, rispetto alla contrattazione al ribasso. Da segnalare la proposta di condizionare la registrazione di un nuovo CCNL nell’Archivio nazionale dei contratti collettivi nazionali di lavoro e l’assegnazione del codice alfanumerico unico al rispetto del trattamento economico e normativo dei contratti collettivi maggiormente applicati, proprio per evitare la concorrenza al ribasso.

 

Si suggerisce poi un intervento normativo volto a chiarire che, nella determinazione del trattamento retributivo di cui all’articolo 36 della Costituzione, il giudice debba fare riferimento non solo al minimo tabellare ma al trattamento economico complessivo ordinario spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi di maggiore diffusione.

 

Di rilievo infine è la proposta di un intervento normativo che potrebbe individuare come standard di riferimento per la retribuzione minima adeguata la retribuzione stabilita come minimale contributivo, consistente in quella prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative.

 

Silvia Spattini 
Direttrice ADAPT
@SilviaSpattini

Contrattazione collettiva, indicizzazione e salario minimo: le diverse risposte all’inflazione dei paesi dell’Unione Europea

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Bollettino ADAPT 25 settembre 2023 n. 32

 

Come si è adatta la contrattazione collettiva al nuovo scenario inflazionistico nei paesi dell’Unione Europea? A questa domanda prova a rispondere un recente working paper di Eurofound dal titolo “Collective bargaining in a climate of high inflation: The role of indexation mechanisms”.

 

Una delle risposte possibili alla crisi inflazionistica è rappresentata dalla sottoscrizione di accordi sulle politiche dei redditi, in base ai quali le parti sociali e il governo definiscono alcune politiche e obiettivi di controllo dell’inflazione. Tra i paesi dell’Unione solo il Portogallo ha firmato un tal genere di accordo allo scopo principale di aumentare la quota salari sul PIL. In Spagna, invece, le parti sociali hanno firmato nel maggio 2023 il quinto accordo per l’occupazione e la contrattazione collettiva che stabilisce un percorso di aumenti salariali nei prossimi tre anni.

 

Ciò che però è tornato al centro della discussione in conseguenza della crisi inflazionistica è l’uso di clausole di indicizzazione nella contrattazione collettiva, compresi i meccanismi di aggiustamento del costo della vita.

L’indicizzazione automatica si verifica quando nei contratti collettivi sono presenti clausole che stabiliscono un collegamento automatico all’andamento dei prezzi.

Questi meccanismi erano molto diffusi fino alla metà degli anni Novanta, ma sono ormai molto rari poiché molti paesi hanno eliminato o ridotto il ruolo dell’indicizzazione, anche al fine di aderire all’Unione economica e monetaria (ne è un esempio l’Italia che ha eliminato per tale motivo il meccanismo della scala mobile nel 1992).

 

Fino alla crisi del 2008 i meccanismi di indicizzazione erano ancora presenti nella contrattazione collettiva in sei paesi (Belgio, Spagna, Cipro, Lussemburgo, Malta e Slovenia) ma successivamente solo Belgio, Cipro e Lussemburgo hanno mantenuto tali meccanismi di indicizzazione automatica.

Il paper di Eurofound mostra poi un secondo gruppo di paesi in cui, pur non sussistendo alcun recupero automatico del potere d’acquisto, l’inflazione svolge comunque, in diversi modi, un ruolo formale nella fissazione dei salari.

 

Vi sono casi in cui la contrattazione collettiva prevede nei rinnovi una compensazione per l’inflazione o comunque considera una parte di aumenti salariali in relazione all’andamento dell’inflazione (Austria, Germania e Slovenia). In altri paesi i contratti collettivi prevedono meccanismi per recuperare il potere d’acquisto ex post (Spagna, Francia).

Sul punto, si segnala che anche in Italia non mancano casistiche in cui le parti sociali hanno individuato strumenti ad hoc per gestire il problema dell’indicizzazione dei salari, sia per quel riguarda l’ipotesi del ruolo formale dell’inflazione sui rinnovi (CCNL addetti su natanti esercenti la pesca marittima, CCNL operai agricoli e florovivaisti) sia per quanto riguarda il recupero ex post (CCNL servizi ambientali) del potere di acquisto (si veda La contrattazione collettiva in Italia (2022). IX Rapporto ADAPT, ADAPT University Press, 2023, pp. 6-10).

 

L’indagine mostra poi che vi sono paesi in cui non esiste un’indicizzazione automatica né un ruolo formale dell’inflazione nella determinazione dei salari. Tuttavia, l’inflazione gioca indirettamente un ruolo nella fissazione delle retribuzioni negoziate attraverso l’impatto del salario minimo legale che molto spesso incorpora indicatori del costo della vita (Francia, Lussemburgo, Slovenia, Estonia).

 

L’interazione tra salario minimo e salario negoziato dipende da diversi fattori, tra cui il meccanismo con cui il salario minimo viene aggiornato o la reattività dei contratti collettivi nel reagire alle variazioni del salario minimo.  Si evidenzia, però, che in paesi come la Spagna i datori di lavoro non hanno sostenuto l’aumento del salario minimo legale approvato nel 2023 dal governo in accordo con i sindacati e hanno lamentato che questi aumenti hanno ridotto la portata della contrattazione collettiva e l’autonomia delle parti sociali.

 

I meccanismi utilizzati nei vari paesi dalle parti sociali per aumentare i salari reali hanno inoltre mostrato notevoli differenze in relazione al modo in cui gli aumenti salariali sono stati definiti nei contratti collettivi e ai gruppi di lavoratori interessati dagli aumenti.

 

Nella maggior parte dei paesi analizzati da Eurofound (Germania, Svezia, Austria, Italia, Danimarca, Finlandia, Croazia, Polonia, Lituania) si può apprezzare una preferenza per pagamenti di cifre forfettarie per compensare i lavoratori per le perdite di potere d’acquisto (Per un focus sul contesto tedesco, italiano e francese A. Sannipoli, Come è stato affrontato l’aumento dell’inflazione dalla contrattazione collettiva: Il report Eurofound, Bollettino ADAPT 18 settembre 2023, n. 31).

 

La scelta di importi una tantum presenta alcuni vantaggi rispetto agli aumenti salariali tradizionali: non hanno effetti duraturi sui salari, sono proporzionalmente più favorevoli ai lavoratori con salari più bassi e non richiedono l’adattamento dei meccanismi di fissazione dei salari già esistenti. Tuttavia, questa soluzione presenta anche alcuni inconvenienti: mancanza di consolidamento degli aumenti salariali, misure di pagamento più onerose per le piccole imprese e necessità di nuove negoziazioni se i prezzi continuano a essere alti o ad aumentare.

 

Nella maggior parte dei paesi dell’Unione gli aumenti salariali negoziati nel corso del 2021 e del 2022 sono rimasti al di sotto dei livelli di inflazione, penalizzando in particolare i lavoratori con salari più bassi. Pertanto, in alcuni paesi si è stabilito di attuare politiche salariali volte a favorire questi lavoratori, aumentando i salari minimi legali oppure fissando nei contratti collettivi aumenti più elevati per le fasce salariali più basse.

 

L’indagine di Eurofound evidenzia, inoltre, aumenti salariali maggiori nei settori con retribuzioni generalmente più basse (si riporta anche l’esempio del settore domestico in Italia che ha stabilito aumenti al di sopra dell’inflazione e più alti rispetto a molti altri settori).

 

Il paper si chiude evidenziando le nuove sfide che le parti sociali dovranno affrontare nei prossimi mesi per provare a garantire aumenti salariali idonei ad attutire l’impatto dell’inflazione. Alla luce anche del recente dibattito sull’introduzione di un salario minimo legale, cercare nei diversi sistemi di relazioni industriali soluzioni che permettano di garantire ai lavoratori retribuzioni adeguate nonostante l’elevata inflazione può rappresentare per la contrattazione collettiva l’opportunità di riaffermare la sua tradizionale centralità nella fissazione dei salari?

 

Francesco Lombardo
Assegnista di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

ADAPT, Università degli Studi di Siena
@franc_lombardo