Davvero esiste una proliferazione incontrollata e non monitorata di CCNL in Italia?

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Bollettino ADAPT 27 novembre 2023, n. 41

 

Con cadenza periodica si ripropone l’allarme sulla proliferazione dei contratti collettivi di categoria e degli attori sindacali e datoriali che li sottoscrivono. In questi giorni si è parlato, per esempio, del settore della metalmeccanica nell’ambito di una operazione “verità” sui trattamenti salariali compromessi appunto, tra gli altri fattori (pandemia, guerra, inflazione), dal feroce dumping contrattuale delle sigle minori.

 

Per questo settore i contratti depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi del CNEL sono in effetti ben 48. Eppure, nonostante questa apparente proliferazione, non si può dire che il dumping selvaggio sia la regola, anzi. Analizzando i dati CNEL-INPS (provenienti dal c.d. flusso Uniemens), infatti, si scopre che, su oltre due milioni e mezzo di lavoratori impiegati nel settore metalmeccanico, ben 40 CCNL non sono applicati neanche a mille lavoratori. Ma non solo: a proposito dell’identità dei firmatari, i cinque contratti collettivi più applicati, che coprono, da soli, il 99,51% dei lavoratori del settore (parliamo dei CCNL Federmeccanica, che copre il 62,35% dei lavoratori del settore; CCNL Meccanica artigiana; CCNL Unionmeccanica; CCNL Confimi meccanica; CCNL Meccanica cooperativa) sono quelli sottoscritti congiuntamente da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil (con la sola eccezione del CCNL Confimi meccanica, stipulato dalle sole Fim-Cisl e Uilm-Uil).

 

Lo stesso si può registrare anche in altri settori come, per esempio, quello della edilizia, dove, su 50 contratti collettivi depositati presso il CNEL, solo cinque si applicano a più di mille lavoratori e, su più di seicentomila lavoratori impiegati nel settore, nel 98,34% dei casi a trovare applicazione è uno dei tre contratti sottoscritti congiuntamente da Fillea-Cgil, Filca-Cisl e Feneal-Uil.

 

In egual modo, anche nel settore terziario, distribuzione e servizi, sul (consistente) totale di 96 CCNL depositati presso il CNEL, soltanto 16 contratti trovano applicazione per più di mille lavoratori. Inoltre, dei quasi tre milioni di lavoratori (2.828.475) l’83,20% è coperto dal CCNL stipulato da Confcommercio e Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, di gran lunga il contratto collettivo più applicato, con un ulteriore 11,80% dei lavoratori comunque garantito da uno degli altri tre contratti nazionali di categoria stipulato da federazioni sindacali afferenti a Cgil, Cisl e Uil.

 

In sintesi, stando ai dati dell’archivio del Cnel, a fronte di un apparente proliferare di contratti collettivi nazionali, da un punto di vista sostanziale, che è poi quello che davvero conta nella politica sindacale e nelle dinamiche delle relazioni industriali e retributive, sono molto pochi – e di regola sottoscritti dal sindacato confederale – i contratti collettivi che hanno una maggiore applicazione.

 

Indubbiamente, quella della “maggiore applicazione” pare una nozione destinata a far discutere nel prossimo futuro. A questa, infatti, da più parti, si vorrebbe ancorare il riferimento per la definizione dei trattamenti economi minimi da garantire ai lavoratori che, secondo tali proposte, non dovrebbero mai essere inferiori a quelli pattuiti nei contratti collettivi «più applicati» nei diversi settori e categorie.

 

È tutto da comprendere, però, cosa con ciò si voglia intendere. Se il rinvio è al (singolare) contratto di categoria più applicato in ciascun settore economico e categoria ovvero ai (plurale) contratti collettivi maggiormente applicati; e, in tal caso, se il rinvio è ai tre contratti collettivi più applicati, ovvero ai cinque, e così via. Restando alla metalmeccanica, ad esempio, a tutti i lavoratori del settore, siano questi dipendenti di piccole e medie imprese, di aziende artigiane o di grandi imprese multinazionali, dovrebbe applicarsi solo il contratto collettivo più applicato, cioè quello di Federmeccanica, oppure il riferimento è ad una pluralità di contratti?

 

Così come è del tutto oscuro, nelle diverse proposte che si stanno susseguendo, il riferimento alle “categorie” e a chi possa legittimamente definire il loro perimetro, entro cui andrebbe cercato il contratto più applicato. In una recente pubblicazione di ADAPT University Press (AA. VV., Atlante della contrattazione collettiva. La geografia dei mercati del lavoro nel prisma della rappresentanza e dei sistemi di relazioni industriali, ADAPT University Press, 2023, spec. pp. 5-12), c’è stato un primo tentativo sistematico di mappatura dei contratti collettivi più applicati e degli attori della rappresentanza dell’impresa e del lavoro più rappresentativi. In questo caso, sono stati selezionati i contratti collettivi applicati a più di ventimila lavoratori per ciascuno dei settori economici, così come individuati dal sistema di classificazione ATECO 2007.

 

Questa grossolana selezione a fini conoscitivi, senz’altro utile per gli operatori delle relazioni industriali e per i professionisti della disciplina, non deve fare i conti con i limiti giuridici-istituzionali che, invece, devono essere necessariamente rispettati da una eventuale legge che voglia determinare i salari dei lavoratori sulla base dei contratti collettivi più applicati, dove peraltro il dato della maggiore applicazione non è sovrapposto necessariamente a quello della rappresentatività degli attori che firmano il CCNL.

 

Il problema (anche dell’emendamento della maggioranza al disegno di legge dell’opposizione sul salario minimo legale) è tutto qui: chi decide i perimetri contrattuali? Il legislatore? Il Ministero del lavoro? I rapporti di forza tra le parti contrattuali? L’articolo 39 della Costituzione, sul punto, è chiarissimo, e questo spiega perché, in regime di libertà di organizzazione sindacale (compresa la libertà di definizione della “categoria sindacale” prima e della “categoria contrattuale” poi, con quest’ultima che non può preesistere al contratto collettivo), la parte seconda dell’articolo 39 non è mai stata attuata. E ciò non significa sdoganare i contratti collettivi poco o nulla rappresentativi, ma implica che, per contrastare il fenomeno del dumping contrattuale, è necessario trovare strade e strumenti rispettosi del dettato costituzionale.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena
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Giorgio Impellizzieri

Assegnista di ricerca di Diritto del lavoro

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

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Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Coordinatore scientifico ADAPT

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