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Contrattazione decentrata: un mondo ancora da esplorare*

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Bollettino ADAPT 3 giugno 2024 n. 22  

 

Il XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, approvato dalla Assemblea del CNEL lo scorso 18 aprile, ha evidenziato come la conoscenza della contrattazione collettiva decentrata in Italia sia ancora molto limitata e parziale. Si deve in effetti tornare a inizio secolo per ritrovare un tentativo istituzionale, seppure episodico, di indagine campionaria nel senso tecnico del termine del fenomeno (segnatamente i contratti decentrati sottoscritti tra il 1995 e il 2000), in una epoca in cui l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro del CNEL si faceva opportunamente carico di raccogliere e monitorare non solo i contratti nazionali di categoria ma anche la contrattazione territoriale e quella aziendale (CNEL, La contrattazione aziendale nel settore privato dell’economia, 2002). Tentativo che non ha avuto seguito a causa del progetto di soppressione del CNEL che, seppure non riuscito, ha fortemente limitato, attraverso un drastico taglio di risorse, le attività di manutenzione e implementazione dell’archivio nazionale dei contratti che, negli ultimi dieci anni, è così diventato poco più di un archivio dei contratti nazionali (fatta eccezione per la contrattazione del settore pubblico rispetto alla quale vige un obbligo di deposito).

 

Il tema del monitoraggio della contrattazione collettiva decentrata è invero tutt’altro che secondario per chi abbia a cuore le sorti del nostro Paese, non solo per l’esigenza di una attendibile conoscenza delle dinamiche contrattuali di ciascun settore economico o produttivo, così da ricostruire i raccordi tra contrattazione di primo e secondo livello, ma anche per venire a capo di questioni che penalizzano da decenni crescita e coesione sociale. Pensiamo alla questione salariale, che non può essere compresa unicamente tramite la contrattazione nazionale di categoria; e pensiamo al nodo storico della produttività che non fa passi in avanti pur in presenza di ingenti risorse pubbliche destinata al sostegno e promozione della contrattazione decentrata di produttività. Poco aiutano, in proposito, i pur preziosi report mensili del Ministero del lavoro che si limitano infatti ad analisi quantitative con riferimento cioè al numero e alla distribuzione geografica dei contratti aziendali e territoriali depositati presso le direzioni territoriali del lavoro ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo n. 151 del 2015.

 

Accanto ad analisi condotte, tendenzialmente in modo episodico e frammentario, da singoli studiosi e ricercatori, assumono pertanto particolare importanza le rilevazioni condotte dalle stesse parti sociali. Confindustria raccoglie (dal 2013) informazioni sulla contrattazione decentrata e sui suoi contenuti nell’ambito della annuale indagine sul lavoro condotta presso un campione di circa 4.000 imprese associate. Analisi dirette sui testi contrattuali di secondo livello sono poi condotte da Cgil e Cisl e, più recentemente, seppure su un numero più limitato di contratti, anche dalla Uil. Chi volesse conoscere le dinamiche della contrattazione decentrata in Italia non può dunque non esaminare i rapporti periodicamente prodotti dalla Cisl (attraverso l’osservatorio OCSEL, a partire dal 2012 per un totale di 14.911 contratti esaminati), dalla Cgil (con la Fondazione Di Vittorio, a partire dal 2019, su un campione complessivo di 5.755 contratti stipulati tra il 2015 e il 2023) e dalla Uil tramite il progetto Digit@Uil avviato nel 2017 (progetto che ha sinora raccolto e analizzato 791 contratti aziendali sottoscritti tra il 2012 e il 2023).

 

Che l’interesse per lo studio della contrattazione collettiva si ravvivi attorno al 2012 non è un dato casuale risalendo a questa fase storica la forte sollecitazione delle istituzioni europee verso l’Italia a rilanciare la contrattazione decentrata come stimolo alla produttività e alla crescita. Lo sforzo delle organizzazioni sindacali confederali, per nulla banale in termini organizzativi e financo politici, considerata le sensibilità delle associazioni datoriali e delle stesse federazioni sindacali di categoria circa l’opportunità di far circolare testi negoziali riservati o comunque strategici, è senz’altro meritevole e da seguire con attenzione per il prezioso contributo alla conoscenza di un fenomeno ampiamente sconosciuto nonostante il forte radicamento almeno nelle imprese di maggiori dimensioni. Come ricorda il citato rapporto CNEL, richiamando sul punto l’azione di monitoraggio statistico sulla contrattazione decentrata da parte di ISTAT, il 23,1% delle imprese con almeno 10 dipendenti del settore privato extra-agricolo applica un contratto collettivo di livello decentrato. I lavoratori occupati in imprese dove si applica un contratto decentrato sono conseguentemente stimati attorno al 55,1% dei dipendenti totali (parliamo, giova ripetere, delle sole imprese con almeno 10 dipendenti).

 

Ora, non è facile far dialogare tra loro le banche dati e i rapporti prodotti da Cgil, Cisl e Uil, così da cercare di mettere a fattor comune la significativa mole di dati che, nel tempo, sono stati prodotti. Un tentativo di comparazione è comunque possibile e consente di delineare qualche tendenza di massima invero in larga parte scontata. Pensiamo ai dati relativi alla diffusione geografica del fenomeno (i contratti collettivi di secondo livello sono sottoscritti il larga prevalenza nel Nord Italia) o settoriale (a farla da padrone è il settore manifatturiero, la metalmeccanica su tutti), ma anche, seppure per sommi capi, in funzione delle materie oggetto di negoziazione (prevalgono i salari e i premi di produttività, seguiti a ruota da tematiche di relazioni industriali come diritti di informazione e diritti di partecipazione, nonché materie come il welfare e orario di lavoro).

 

Tale preziosa base informativa sconta comunque tutti i limiti che derivano dalla disomogeneità dei metodi di archiviazione dei contratti collettivi e dai diversi criteri di costruzione delle diverse banche dati a partire dai metodi di raccolta e catalogazione. È infatti inevitabile che la pluralità di organizzazioni sindacali e centri studi che le sostengono e le diverse professionalità coinvolte impegnate nella attività analisi (ricercatori accademici, ricercatori non accademici, operatori e funzionari sindacali) si traduca anche in una ampia eterogeneità dei criteri di valutazione e sistematizzazione del materiale contrattuale. Una eterogeneità che, da un lato, è una ricchezza, perché sintomo di un crescente interesse alla materia ma che, dall’altro lato, inficia la qualità delle informazioni di cui si dispone anche a causa della non sovrapponibilità della base contrattuale e dei periodi di osservazione. Ciascuna organizzazione ha insomma la propria tecnica di raccolta dei testi contrattuali e non emerge, allo stato, un impegno comune per contribuire a una maggiore e minore conoscenza del fenomeno. Diverse sono le categorie tematiche nelle quali sono ricondotti le clausole contrattuali così come diversi sono financo i settori economici di riferimento che ciascuna banca dati utilizza per organizzare gli accordi. Così come ambigui sono i criteri di collocazione geografica per i quali si imputa un accordo a un territorio piuttosto che a un altro (il luogo della sottoscrizione piuttosto che la sede legale dell’azienda ovvero la sede di collocazione geografica del singolo impianto produttivo o stabilimento ecc.).

 

In assenza di un obbligo di deposito legale della contrattazione aziendale, che aiuterebbe non poco a un ordinato sviluppo del nostro sistema di contrattazione collettiva e in assenza, conseguentemente, di una azione di monitoraggio istituzionale da parte del CNEL o di altra istituzione pubblica, sarebbe oltremodo prezioso un coordinamento delle diverse fonti di archiviazione e monitoraggio ad opera delle parti sociali quantomeno in termini di uniformità dei metodi di archiviazione e di analisi del materiale contrattuale. È questa l’unica strada per rendere possibile un benchmark efficace tra i diversi rapporti realizzati da ogni singolo attore sindacale dal quale potrebbero ricavarsi, a beneficio reciproco, informazioni maggiormente attendibili così da avvicinarci alla esperienza di altri Paesi europei dove periodicamente sono rilasciati rapporti istituzionali di analisi e sistematizzazione di migliaia di accordi collettivi che contribuiscono a esplorare le cause dei problemi del mercato del lavoro e le loro possibili soluzioni nei territori e nelle aziende ad integrazione di quanto di buoni fa la contrattazione nazionale.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 22/2024

 

Dal CNEL una lettura condivisa delle dinamiche del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva*

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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16

 

Nel dibattito sui controversi temi del lavoro non mancano, da tempo, segnali di un progressivo degrado delle strutture organizzative dei corpi intermedi di rappresentanza e di mediazione sociopolitica per usare le parole di un acuto interprete della società italiana quale è Giuseppe De Rita. A preoccupare sono oggi le profonde divergenze nelle strategie – e prima ancora nelle visioni – di Cgil, Cisl, Uil che ci prospettano una Festa dei Lavoratori a metà, e cioè un Primo Maggio da “separati in casa”.

 

In questo scenario non mancano tuttavia segnali incoraggianti e anche concrete dimostrazioni della capacità delle tre confederazioni sindacali di tenere vivi i canali del dialogo. Degna di nota, da questo punto di vista, è la pubblicazione del XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, approvato all’unanimità dalla Assemblea del CNEL del 18 aprile.

 

Non che difettino, al nostro Paese, studi e rapporti istituzionali sulle dinamiche del lavoro. Si può anzi sostenere che l’eccesso incontrollato di informazioni – nel consentire di sostenere tutto e il contrario di tutto – abbia tolto ogni minima certezza rispetto alla urgenza di conoscere con precisione i reali andamenti del mercato del lavoro, della produttività e delle retribuzioni. È qui che si alimentano quelle divisioni che danno spazio a chi più alza la voce allontanando la politica dal merito dei problemi e dalle persone.

 

Le opinioni sul CNEL, sul disegno costituzionale ad esso sotteso e sui suoi 65 anni di vita, sono variegate e cambiano a corrente alternata. E tuttavia non esiste altro presidio istituzionale sui temi economici e sociali partecipato dalle rappresentanze delle forze sociali del mondo dell’impresa, del lavoro autonomo e del lavoro dipendente e di alcune organizzazioni dell’associazionismo sociale e del volontariato. Il rapporto CNEL sul mercato del lavoro non è pertanto un freddo documento statistico e tanto meno un esercizio accademico. Si tratta piuttosto dello sforzo della “gente della mediazione” di convergere nella conoscenza e, auspicabilmente, nella accettazione dei dati di realtà prima che si avviino fasi di decisione politica.

 

Parliamo dunque di finalità di enorme rilievo istituzionale, efficacemente scolpite nella relazione alla legge CNEL del 1986 firmata da Sergio Mattarella, ancora attuali e anzi imprescindibili per chi voglia contribuire a dotare il nostro Paese di informazioni complete e condivise su temi così centrali per la definizione delle politiche occupazionali e del lavoro e delle leggi in materia economica e sociale.

 

È pertanto un segnale decisamente positivo che il rapporto CNEL contenga quest’anno un esame pienamente condiviso delle luci e ombre del nostro mercato del lavoro prestando particolare attenzione al tema della inclusione e a quello della vulnerabilità. Nella elaborazione del documento sono state aggregate e discusse tutte le diverse fonti informative pubbliche ed è stato analizzato quell’imponente patrimonio documentale e informativo presente nell’Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro del CNEL.

 

Il rapporto viene ora messo a disposizione delle Camere, del Governo e degli enti ed istituzioni interessati, quale base comune di riferimento non solo a fini di studio, ma soprattutto decisionali ed operativi. Un segnale di vitalità anche del CNEL, grazie prima all’impegno di Tiziano Treu nella passata consiliatura e ora al nuovo corso impresso con generosità da Renato Brunetta, che rilancia nei fatti la centralità di questo organo di rilevanza costituzionale quale sede del confronto e della collaborazione tra le forze sociali e tutti i soggetti istituzionali che raccolgono dati utili per il monitoraggio delle condizioni di lavoro e degli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Avvenire col titolo Il ruolo del Cnel rilanciato con il XXV Rapporto, 20 aprile 2024

 

La contrattazione nazionale nel 2023*

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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16

 

Nei primi mesi del 2024 sono stati rinnovati alcuni tra i contratti collettivi nazionali di categoria più importanti. Terziario di mercato, studi professionali, industria alimentare sono solo alcuni dei settori dove le parti sociali sono intervenute per ridefinire le regole contrattuali e i trattamenti retributivi. Come certificano i dati elaborati grazie alle informazioni contenute nell’archivio nazionale dei contratti collettivi del CNEL il numero complessivo di lavoratori ancora in attesa di rinnovo è oggi di circa 5 milioni (nel 2023 erano circa 7,7 milioni). Entro la fine dell’anno potremo poi registrare ulteriori rinnovi di sistemi contrattuali storici quali quelli dell’industria metalmeccanica, della logistica e del turismo.

 

In molti hanno salutato la sottoscrizione di queste di intese come segno di un rinnovato protagonismo delle parti sociali. In verità la vivacità di questi mesi si pone perfettamente in continuità con le dinamiche della contrattazione collettiva nazionale di categoria degli ultimi anni, dalla ripresa della pandemia in avanti. L’ISTAT, nel suo studio sulle dinamiche retributive contrattuali, registra indubbiamente che il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre 2023. Tuttavia, gli sviluppi della contrattazione collettiva vanno meglio seguiti in termini analitici, tenendo cioè conto delle dinamiche di settore: come attesta il CNEL i servizi di mercato registrano 41,9 mesi di attesa; il settore pubblico 24 mesi; il settore industriale, che non a caso segnala una crescita dell’indice delle retribuzioni contrattuali più alti della media complessiva, si situa sotto la media con un dato pari a 1,8 mesi.

 

Una conferma di queste tendenze si trova anche nel recente Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia, elaborato nell’ambito dell’Osservatorio “fareContrattazione” di ADAPT, che tratteggia le principali tendenze qualitative e quantitative della contrattazione collettiva in Italia nel corso del 2023.

Su un totale di 202 accordi sottoscritti nel 2023 – accordi che risultano depositati al CNEL e che rinnovano oppure aggiornano specifiche clausole di 171 tra CCNL (del settore privato e del settore pubblico) e accordi economici collettivi – sono stati ben 44 i rinnovi contrattuali sottoscritti dalle sole federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, per un totale di circa un milione e mezzo di lavoratori coperti, occupati prevalentemente nei settori dell’agricoltura (allevatori, consorzi agrari, consorzi di bonifica dirigenti e dipendenti), della chimica (gomma plastica, vetro, coibentazioni, piccola e media industria chimica), dell’edilizia legno e arredamento (industria legno-arredo e piccole e medie imprese del legno) e del credito. Ben 10 nuove intese sono state poi sottoscritte per regolare il rapporto di lavoro dei dirigenti, nei diversi settori.

 

Entrando nel merito dei contenuti, è sui trattamenti economici che, in una fase di gestione delle pesanti dinamiche inflazionistiche derivanti dalla crisi energetica, si è concentrata prevalentemente l’attività negoziale. Oltre la metà dei rinnovi ha previsto delle quote una tantum per coprire sul piano economico i prolungati – talvolta in modo cronico, come nel caso particolarmente mediatico del contratto collettivo dei servizi fiduciari – periodi di ultra-vigenza dei testi contrattuali previgenti, al fine di garantire almeno in parte il potere di acquisto dei lavoratori. Allo stesso fine sono stati costruiti meccanismi funzionali ad adattare nel tempo le retribuzioni agli andamenti inflattivi, come nel caso della “doppia pista salariale” del CCNL Legno-Arredo, con la quale le parti si impegnando a definire nuovi incrementi contrattuali ogni anno sulla base dell’andamento del dato Ipca generale comunicato dall’ISTAT.

 

Per il resto, è confermata la tendenza, risalente nel tempo ma consolidatasi nel corso dell’ultimo decennio, di una sempre più ampia frammentazione degli istituti retributivi per la quale, anche a fronte di una crescente esigenza di adattare i salari alle caratteristiche delle prestazioni lavorative, ai minimi tabellari si aggiungono indennità di posizione ed elementi aggiuntivi di diverso tipo, multiformi misure di welfare aziendale e diffusi elementi perequativi o di garanzia retributiva che trovano applicazione in tutte le aziende che non hanno una contrattazione collettiva decentrata.

 

Non tutti i rinnovi contrattuali, invece, sono intervenuti sulla parte normativa degli accordi collettivi. Sul punto, le parti sociali si sono limitate per lo più a interagire con le riforme legislative, per esempio sulla materia delle causali dei contratti a termine riformata dal decreto-legge n. 48/2023 (c.d. Decreto Lavoro), convertito in legge n. 85/2023, o a definire nuovi ambiti di flessibilità controllata, per esempio in materia di lavoro stagionale.

 

Episodici sono gli interventi in materia di orario e di organizzazione del lavoro; tematiche rispetto alle quali è riconosciuto un ampio margine di manovra alla contrattazione decentrata che comincia a sperimentare intese sulla c.d. settimana corta o altre forme innovative. Marginale è in questo campo il ruolo della contrattazione nazionale salvo alcune eccezioni, come quella del contratto del credito (sottoscritto il 27 dicembre 2022 ma ratificato nel 2023), in cui viene riconosciuta una riduzione dell’orario di lavoro settimanale di 30 minuti o quella del contratto collettivo dei dipendenti della Siae che introduce in via sperimentale la smart week, cioè la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in quattro giornate lavorative da 9 ore per ogni settimana.

 

Decisamente sullo sfondo, infine, rimangono istituti come quello dell’apprendistato, la cui disciplina collettiva è rimasta invariata in quasi tutti i rinnovi, salvo marginali modifiche a disposizioni di dettaglio (quote di conferma, malattia dell’apprendista, ecc.), e la formazione dei lavoratori, sulla quale non si registrano nuovi modelli di intervento dopo le fughe in avanti di alcuni contratti collettivi (meccanica ed elettrici) che hanno introdotto un diritto soggettivo alla formazione. Così come è stata rimandata nuovamente la revisione dei sistemi di inquadramento e classificazione del personale, rispetto ai quali i rinnovi contrattuali sono intervenuti soltanto per introdurre nuovi profili professionali ed eliminarne di vecchi o per convenire impegni programmatici a riformare la disciplina in futuro.

 

È su questi temi, su cui dovranno misurarsi i rinnovi contrattuali del 2024: i margini di azione sono ancora molto ampi per gli attori della rappresentanza che, per un verso, inseriscono da tempo nelle loro agende negoziali i problemi derivanti dalla transizione digitale e verde e dal diffuso skill mismatch ma che, al contempo, stentano ancora a investire, anche in termini di politica contrattuale, in quei capitoli dei contratti collettivi che più di altri consentirebbero lo sviluppo e la valorizzazione delle competenze professionali necessarie.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 18/2024

 

L’archivio del Cnel dei contratti collettivi*

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Bollettino ADAPT 25 marzo 2024 n. 12

 

Il Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro (CNEL) – per quanto visto ancora oggi, da molti, con sospetto o una malcelata sufficienza – è l’unica sede in grado di offrire un contributo istituzionale alla conoscenza della contrattazione collettiva. Presso il CNEL è infatti istituito l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro (art. 17 legge n. 936/1986). Come spiegava Sergio Mattarella, relatore in Parlamento della legge n. 936, l’istituzione dell’archivio è una «operazione finalizzata al compito di far esprimere alle organizzazioni sociali, tramite il CNEL, una periodica valutazione sull’andamento retributivo e sulla condizione complessiva del mercato del lavoro, specie sotto il profilo normativo della contrattazione. (…) Una sorta di check point in grado di far convergere le forze sociali nella conoscenza e, auspicabilmente, nell’accettazione di tali dati prima che si avviino fasi di consultazione sociale o di contrattazione collettiva».

 

In questa prospettiva – ancora oggi di particolare rilevanza e attualità – può allora essere utile sottolineare la recente pubblicazione sul sito istituzionale del CNEL (alla voce Documenti – Studi, Indagini, Ricerche) di uno studio che spiega non solo la genesi dell’archivio e la sua storia oramai trentennale, ma anche gli sviluppi più recenti che ne segnano un deciso potenziamento e rilancio (CNEL, L’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro – Art. 17, comma 1, legge n. 936/19862024)Un documento che, seppure redatto con rigore scientifico, si rivolge agli operatori del mercato del lavoro e, soprattutto, alle stesse parti sociali con l’obiettivo di rinnovare la funzione dell’archivio, come sopra brevemente tratteggiata, e di facilitarne l’accesso non solo a fini di studio ma anche a sostegno della qualità e della razionalizzazione del nostro sistema di relazioni industriali. Di questo parlava, del resto, già un corposo studio dello stesso CNEL, redatto a pochi anni dalla entrata in vigore della legge n. 936, dove si rintracciano le Linee progettuali per la struttura e l’organizzazione dell’archivio dei contratti (CNEL, Archivio dei contratti, archivio delle nomine, banca dati, documento Cnel n. 15, 1992, V Consiliatura, relatore Renato Brunetta).

 

Va peraltro evidenziato che, in conformità alle originarie direttive della Commissione dell’informazione del CNEL, nell’archivio sono stati inizialmente depositati «i contratti e gli accordi di ogni livello e ambito relativi sia al settore privato che a quello pubblico» e i relativi «accordi di rinnovo» (art. 1 delle Direttive della Commissione dell’informazione sulla organizzazione dell’Archivio della contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 17 della legge n. 936/86, dicembre 1990, contenute all’interno del già menzionato documento Cnel n. 15/1992). Con il tempo l’archivio nazionale dei contratti si è trasformato in un archivio dei soli contratti collettivi nazionali di lavoro anche se si registra lo sforzo, nelle ultime due consiliature, di riattivare la raccolta e sistematizzazione della contrattazione collettiva decentrata. In fase di lancio è, in particolare, una indagine campionaria del CNEL, finalizzata a studiare, con il concorso dei centri studi della rappresentanza datoriale e sindacale, le dinamiche dalla contrattazione aziendale di produttività dal 2016 a oggi.

 

Le originarie direttive della Commissione dell’informazione erano ovviamente condizionate dalle tecnologie del tempo e dalla circostanza che non si era ancora sviluppata e radicata nell’uso comune la rete internet (il primo collegamento italiano, come noto, è del 1986). L’elenco dei contratti e degli accordi depositati, con indicazione delle parti stipulanti, veniva pertanto periodicamente affisso in un apposito albo presso il CNEL e di esso veniva data notizia mediante la pubblicazione sul Notiziario della Commissione dell’informazione. Oggi non è più così. L’archivio, in bella evidenza sulla home page del sito istituzionale del CNEL (www.cnel.it), è interamente open access e, nel tempo, potrà essere ulteriormente potenziato, previo accordo tra le parti sociali, attraverso l’utilizzo mirato della intelligenza artificiale considerando che, nell’archivio, sono presenti oltre 150mila testi contrattuali di varia epoca, natura, livello.

 

Attraverso i Report periodici diffusi dal CNEL si è potuto cominciare a prendere consapevolezza del fatto che, nel nostro Paese, da almeno un decennio, è in corso un costante incremento del numero di contratti collettivi di lavoro di livello nazionale. Vero anche che, se è cresciuto quantitativamente il numero dei contratti collettivi, resta ancora dominante la contrattazione promossa da Cgil, Cisl e Uil che, seppure firmi solo 210 contratti collettivi nazionali di lavoro rappresenta il 97% del totale dei lavoratori coperti dai CCNL depositati.

 

Tra gli elementi qualificanti del sistema di classificazione utilizzato dall’archivio contratti del CNEL, in esito al costante raccordo operativo con il flusso informativo INPS, va infine annoverato l’indice che rileva il numero di lavoratori a cui si applica ogni singolo contratto collettivo, che oggi – diversamente dal passato – può essere reso disponibile alla pubblica consultazione. Le risultanze di questo incrocio di informazioni consentono di conoscere il “peso specifico” di ogni CCNL in un determinato settore, di individuare gli accordi più “rappresentativi” quantomeno in termini di diffusione e effettiva applicazione. Alla data del 15 marzo 2024 (vedi la nota tecnica di accompagnamento del 18° Report CNEL sui CCNL depositati) risultano depositati in archivio ben 1033 CCNL di cui 971 relativi al settore privato, 18 al settore pubblico e 44 accordi economici collettivi che riguardano alcune categorie di autonomi e parasubordinati. Grazie ai flussi Uniemens (media delle dodici dichiarazioni mensili rese dell’anno 2022 dai datori di lavoro all’INPS) e al codice alfanumerico CNEL dei CCNL è tuttavia possibile verificare con certezza che sono solo 99 i CCNL con applicazione sopra i 10.000 dipendenti e che questi pochi CCNL coprono la quasi totalità dei dipendenti del settore privato: 13.398.243 lavoratori, pari al 96,9% della forza lavoro del settore privato tracciata da Uniemens (esclusi agricoltura e lavoro domestico), là dove ben 645 CCNL (pari al 72,7% dei contratti depositati al CNEL) si applicano a meno di 500 dipendenti e, in totale, coprono solo lo 0,3% dei dipendenti.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 13/2024

 

Davvero esiste una proliferazione incontrollata e non monitorata di CCNL in Italia?

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Bollettino ADAPT 27 novembre 2023, n. 41

 

Con cadenza periodica si ripropone l’allarme sulla proliferazione dei contratti collettivi di categoria e degli attori sindacali e datoriali che li sottoscrivono. In questi giorni si è parlato, per esempio, del settore della metalmeccanica nell’ambito di una operazione “verità” sui trattamenti salariali compromessi appunto, tra gli altri fattori (pandemia, guerra, inflazione), dal feroce dumping contrattuale delle sigle minori.

 

Per questo settore i contratti depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi del CNEL sono in effetti ben 48. Eppure, nonostante questa apparente proliferazione, non si può dire che il dumping selvaggio sia la regola, anzi. Analizzando i dati CNEL-INPS (provenienti dal c.d. flusso Uniemens), infatti, si scopre che, su oltre due milioni e mezzo di lavoratori impiegati nel settore metalmeccanico, ben 40 CCNL non sono applicati neanche a mille lavoratori. Ma non solo: a proposito dell’identità dei firmatari, i cinque contratti collettivi più applicati, che coprono, da soli, il 99,51% dei lavoratori del settore (parliamo dei CCNL Federmeccanica, che copre il 62,35% dei lavoratori del settore; CCNL Meccanica artigiana; CCNL Unionmeccanica; CCNL Confimi meccanica; CCNL Meccanica cooperativa) sono quelli sottoscritti congiuntamente da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil (con la sola eccezione del CCNL Confimi meccanica, stipulato dalle sole Fim-Cisl e Uilm-Uil).

 

Lo stesso si può registrare anche in altri settori come, per esempio, quello della edilizia, dove, su 50 contratti collettivi depositati presso il CNEL, solo cinque si applicano a più di mille lavoratori e, su più di seicentomila lavoratori impiegati nel settore, nel 98,34% dei casi a trovare applicazione è uno dei tre contratti sottoscritti congiuntamente da Fillea-Cgil, Filca-Cisl e Feneal-Uil.

 

In egual modo, anche nel settore terziario, distribuzione e servizi, sul (consistente) totale di 96 CCNL depositati presso il CNEL, soltanto 16 contratti trovano applicazione per più di mille lavoratori. Inoltre, dei quasi tre milioni di lavoratori (2.828.475) l’83,20% è coperto dal CCNL stipulato da Confcommercio e Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, di gran lunga il contratto collettivo più applicato, con un ulteriore 11,80% dei lavoratori comunque garantito da uno degli altri tre contratti nazionali di categoria stipulato da federazioni sindacali afferenti a Cgil, Cisl e Uil.

 

In sintesi, stando ai dati dell’archivio del Cnel, a fronte di un apparente proliferare di contratti collettivi nazionali, da un punto di vista sostanziale, che è poi quello che davvero conta nella politica sindacale e nelle dinamiche delle relazioni industriali e retributive, sono molto pochi – e di regola sottoscritti dal sindacato confederale – i contratti collettivi che hanno una maggiore applicazione.

 

Indubbiamente, quella della “maggiore applicazione” pare una nozione destinata a far discutere nel prossimo futuro. A questa, infatti, da più parti, si vorrebbe ancorare il riferimento per la definizione dei trattamenti economi minimi da garantire ai lavoratori che, secondo tali proposte, non dovrebbero mai essere inferiori a quelli pattuiti nei contratti collettivi «più applicati» nei diversi settori e categorie.

 

È tutto da comprendere, però, cosa con ciò si voglia intendere. Se il rinvio è al (singolare) contratto di categoria più applicato in ciascun settore economico e categoria ovvero ai (plurale) contratti collettivi maggiormente applicati; e, in tal caso, se il rinvio è ai tre contratti collettivi più applicati, ovvero ai cinque, e così via. Restando alla metalmeccanica, ad esempio, a tutti i lavoratori del settore, siano questi dipendenti di piccole e medie imprese, di aziende artigiane o di grandi imprese multinazionali, dovrebbe applicarsi solo il contratto collettivo più applicato, cioè quello di Federmeccanica, oppure il riferimento è ad una pluralità di contratti?

 

Così come è del tutto oscuro, nelle diverse proposte che si stanno susseguendo, il riferimento alle “categorie” e a chi possa legittimamente definire il loro perimetro, entro cui andrebbe cercato il contratto più applicato. In una recente pubblicazione di ADAPT University Press (AA. VV., Atlante della contrattazione collettiva. La geografia dei mercati del lavoro nel prisma della rappresentanza e dei sistemi di relazioni industriali, ADAPT University Press, 2023, spec. pp. 5-12), c’è stato un primo tentativo sistematico di mappatura dei contratti collettivi più applicati e degli attori della rappresentanza dell’impresa e del lavoro più rappresentativi. In questo caso, sono stati selezionati i contratti collettivi applicati a più di ventimila lavoratori per ciascuno dei settori economici, così come individuati dal sistema di classificazione ATECO 2007.

 

Questa grossolana selezione a fini conoscitivi, senz’altro utile per gli operatori delle relazioni industriali e per i professionisti della disciplina, non deve fare i conti con i limiti giuridici-istituzionali che, invece, devono essere necessariamente rispettati da una eventuale legge che voglia determinare i salari dei lavoratori sulla base dei contratti collettivi più applicati, dove peraltro il dato della maggiore applicazione non è sovrapposto necessariamente a quello della rappresentatività degli attori che firmano il CCNL.

 

Il problema (anche dell’emendamento della maggioranza al disegno di legge dell’opposizione sul salario minimo legale) è tutto qui: chi decide i perimetri contrattuali? Il legislatore? Il Ministero del lavoro? I rapporti di forza tra le parti contrattuali? L’articolo 39 della Costituzione, sul punto, è chiarissimo, e questo spiega perché, in regime di libertà di organizzazione sindacale (compresa la libertà di definizione della “categoria sindacale” prima e della “categoria contrattuale” poi, con quest’ultima che non può preesistere al contratto collettivo), la parte seconda dell’articolo 39 non è mai stata attuata. E ciò non significa sdoganare i contratti collettivi poco o nulla rappresentativi, ma implica che, per contrastare il fenomeno del dumping contrattuale, è necessario trovare strade e strumenti rispettosi del dettato costituzionale.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena
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Giorgio Impellizzieri

Assegnista di ricerca di Diritto del lavoro

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

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Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Coordinatore scientifico ADAPT

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