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Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? Parte I – La normativa di incentivazione

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività?  Parte I – La normativa di incentivazione

Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17

 

Da un punto di vista fisiologico tutto il processo di contrattazione collettiva persegue, più o meno direttamente, obiettivi di produttività. Non è tuttavia sempre chiaro, neppure tra gli operatori e gli attori del nostro sistema di relazioni industriali, cosa si intenda con il termine «produttività» (vedi P. Tomassetti, Di cosa parliamo quando parliamo di produttività?, in Bollettino ADAPT dell’8 marzo 2017) e, soprattutto, come questo obiettivo venga di fatto perseguito tanto dalle parti sociali che dal legislatore. È pertanto opportuno, periodicamente, fare il punto della situazione su una tematica così centrale per la crescita e, conseguentemente, anche per i relativi processi redistributivi che in Italia, come mostra il trascinarsi da decenni della questione salariale, non trovano allo stato risposte soddisfacenti (vedi già le osservazioni critiche raccolte in Contrattazione e produttività: analisi e proposte del gruppo FareContrattazione, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016).

 

In questa direzione un primo contributo, oggetto di questo breve intervento, può essere rivolto alla normativa di sostegno e incentivazione economica alla contrattazione di produttività intesa in senso lato. Non fosse altro per tornare a ribadire, come gruppo di ricerca di ADAPT, l’assenza nel nostro Paese di un affidabile sistema di monitoraggio e verifica degli effetti delle ingenti risorse pubbliche destinate a questo obiettivo attraverso il sostegno della contrattazione di secondo livello.

 

All’obbligo di deposito del testo contrattuale, come condizione per il godimento del beneficio fiscale o contributivo, non fa infatti seguito alcun monitoraggio di tipo qualitativo, tanto a livello macro che micro, sugli effetti delle misure di incentivazione. Nessun attore istituzionale ha sviluppato analisi sistematiche sui testi contrattuali e anche i soggetti che seguono, attraverso una periodica reportistica, la materia della contrattazione aziendale non hanno sin qui realizzato vere e proprie indagini campionarie sul fenomeno, seppure tutti convengano che i nodi del nostro sistema di relazioni industriali restino quelli della bassa produttività e dei bassi salari. A mancare è anche la chiarezza sulle diverse misure e sui rispettivi obiettivi fissati dal legislatore.

 

Il fenomeno non ha origini recenti. Accanto a isolate esperienze aziendali e settoriali (vedi diffusamente il numero monografico di Diritto delle Relazioni Industriali del 1991 sulla retribuzione ad incentivi) il tema entra a pieno titolo nella riforma degli assetti contrattuali avviata con il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 che assegna al livello decentrato la funzione di stabilire «erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa».

 

È tuttavia il rapporto finale del 1997 della Commissione incaricata del monitoraggio del protocollo del 1993 a segnalare persistenti limiti allo sviluppo della contrattazione aziendale e la difficoltà nel nostro Paese di avviare una vera contrattazione di produttività. Nel rapporto si legge, in particolare: «viene unanimemente riconosciuto che questo assetto contrattuale ha conseguito, in larga misura, gli obiettivi che si era prefisso in termini macroeconomici. In particolare, il contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) ha garantito le retribuzioni in termini reali redistribuendo anche, a seconda dei settori o dei comparti, una quota della produttività prodotta dal sistema. Questo risultato si è combinato con un più stretto controllo a livello centrale della contrattazione decentrata finalizzato a raggiungere gli obiettivi di politica dei redditi e a difendere l’occupazione, particolarmente in una fase di ristrutturazione dell’apparato produttivo del nostro Paese. Insufficienti appaiono invece i risultati ottenuti a livello microeconomico. La contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) che doveva accrescere la variabilità della retribuzione, concorrendo così ad una maggiore flessibilità del sistema, è stata quantitativamente e qualitativamente insufficiente ed insoddisfacente, anche per la tardiva e limitata applicazione dell’incentivazione contributiva prevista. Il contratto decentrato è stato in larga misura caratterizzato da erogazioni di tipo tradizionale, non collegate a parametri oggettivi di produttività, redditività, qualità per diverse ragioni: vischiosità delle prassi precedenti, impreparazione “culturale” dei soggetti negoziali decentrati, resistenza ad allargare le materie oggetto di contrattazione (ad es., all’organizzazione del lavoro), mancanza di strutture – anche organizzative – adeguate (si pensi alla contrattazione territoriale)».

 

Da qui un ripensamento delle misure di incentivazione della contrattazione di produttività rispetto alla originaria previsione di cui al decreto legge n. 499 del 1996 che conteneva un primo esempio di incentivazione della contrattazione decentrata, stabilendo l’esclusione dalla retribuzione imponibile delle «erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, (…) delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati» (art. 5). Ulteriori sgravi contributivi erano poi stati definiti, ma anche in questo caso senza un reale impatto sulle dinamiche della contrattazione collettiva, con la legge n. 247 del 2007 che prevedeva, per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello, la decontribuzione di quelle stesse erogazioni già citate nel 1996 (si vedano in questo senso anche L. n. 92/2012, D.M. 27 dicembre 2012, circolare INPS n. 73 del 2012; per le modalità di concreta fruizione dello sgravio, invece, il messaggio INPS del 20 settembre 2013, n. 14855).

 

Una svolta si ha, almeno sul piano della tecnica normativa, soltanto a partire dal 2009 quando si stabilisce una riduzione dell’imposta Irpef e delle addizionali per le somme erogate a livello aziendale «in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa» (decreto-legge n. 93/2008, convertito poi nella L. n. 126 del 24 luglio 2008, Legge di Stabilità 2009, art. 2 co. 1 lett. c).

 

Con questa proposta, presentata in via sperimentale, viene disciplinata per la prima volta una forma di agevolazione fiscale delle somme di ammontare variabile previste per i lavoratori al livello aziendale dei contratti collettivi. In questa fase, il totale annuo detassabile si attesta su 3.000 euro ed il vantaggio viene garantito esclusivamente ai lavoratori in possesso, nell’anno precedente a quello nel quale si usufruisce della tassazione agevolata, di un reddito da lavoro dipendente inferiore a 30.000 euro. È però dal 2010 che queste misure vengono strutturate in maniera più stabile e precisa, indicando la contrattazione decentrata come sede elettiva per concordare l’erogazione di premi di risultato assoggettabili ad una tassazione di favore (aliquota del 10%). Infatti, il d.l. n. 78/2010 (art. 53, co. 1, poi convertito nella L. n. 220/2010) prescrive una vera e propria detassazione dei premi di risultato.

 

Anche nel 2011 la normativa è stata oggetto di proroghe, che non ne hanno alterato la struttura normativa ma solo le quantità economiche, ad esempio il reddito da lavoro dipendente necessario per accedere alla misura, che viene innalzato a 40.000 euro. Nel 2012 con la legge n. 183 del 2011 (legge di Stabilità 2012) questo istituto viene nuovamente prorogato abbassando però a 2.500 euro annui l’importo detassabile e stabilendo in 30.000 euro il reddito da lavoro dipendente di riferimento. Nel 2013 l’impianto normativo subisce, invece, significative modifiche migliorative: il comma 481, dell’articolo 1, della L. n. 228 del 2012 (legge di Stabilità 2013) prevede uno stanziamento pari a 950 milioni di euro nel 2013 e 600 nel 2014. Salvo poi l’anno 2015, nel quale l’agevolazione non è stata finanziata e quindi è rimasta inattiva, a partire dal 2016 il legislatore ha continuato a prorogare annualmente questi vantaggi fiscali.

 

Già in questa fase erano tuttavia persistenti le denunce circa la scarsa effettività ed efficacia della misura a partire dalla assenza di un reale meccanismo di monitoraggio. Bastava in effetti scorrere i principali accordi di detassazione sottoscritti in questa fase per rendersi conto di come il provvedimento, pur contribuendo positivamente a ridurre il peso del cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori, non avesse sostenuto veri e propri incrementi di produttività concordati a livello territoriale o aziendale. La gran parte degli accordi oggetto di analisi sono anzi risultati fotocopie l’uno dell’altro (vedi F. Fazio, M. Tiraboschi, Una occasione mancata per la crescita Brevi considerazioni a proposito della misura di detassazione del salario di produttività, in Bollettino ADAPT del 19 dicembre 2011)

 

Il quadro  non cambia con l’ultima innovazione normativa, che corrisponde alla attuale configurazione della misura, contenuta nell’articolo 1, ai commi da 182 a 191, della Legge n. 208 del 2015 (Legge di stabilità 2016) per cui – secondo le ultime modifiche apportate (si veda la Tabella 1) – «sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta, sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento (triennio 2025-2027), entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili (…), nonché le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa» (comma 182). Che questi incentivi economici non abbiano inciso in modo rilevante rispetto all’obiettivo di strutturare a livello collettivo una forma di retribuzione variabile legata ad obiettivi specifici (produttività, redditività, qualità, efficienza, innovazione) lo dimostrano le successive verifiche empiriche fatte dal gruppo di ricerca di ADAPT (vedi in particolare P. Tomassetti, Detassazione 2016: il ritorno degli accordi “fotocopia”di livello territoriale, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016) e documentate puntualmente con i Rapporti ADAPT sulla contrattazione in Italia.

 

Da qui l’urgenza di riprendere in mano il tema della contrattazione incentivata di produttività non solo per meglio capire, con ulteriori verifiche empiriche, utilità e impatto delle ingenti misure premiali previste dal Legislatore, ma anche per valutare l’esistenza di possibili soluzioni alternative ovvero l’adozione di accorgimenti tecnici utili ad ancorarle in modo più perentorio ai condivisibili obiettivi contenuti nella astratta previsione normativa.

 

Giulia Comi

PhD Candidate – ADAPT Università di Siena

@giulphil

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

 

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

Se c’è un elemento che, più di altri, concorre a valutare nel merito la qualità e lo stato di salute di un sistema di relazioni industriali questo è legato alla genuinità e trasparenza delle relative dinamiche contrattuali. Non è un caso che si richiamino regolarmente, non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nel dibattito pubblico, gli oltre mille contratti collettivi nazionali di categoria depositati al CNEL per segnalare l’estrema frammentazione e una complessiva inefficienza del nostro sistema di relazioni industriali apparentemente condizionato da centinaia di sigle di sindacali e datoriali.

 

Fondamentale, in questa prospettiva, è allora la capacità di analizzare in profondità gli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva. In Italia, tuttavia, questa conoscenza resta parziale, discontinua e spesso affidata a iniziative isolate. Non esistono studi sistematici e continuativi della contrattazione di livello nazionale e tanto meno delle forme di raccordo e coordinamento tra contrattazione nazionale e contrattazione di secondo livello. Le stesse organizzazioni sindacali sono oggi prevalentemente impegnate, coi loro rapporti periodici, nello studio della contrattazione decentrata, di cui ancora meno si conosce la valenza non essendo in questo caso neppure di facile reperimento gli stessi testi contrattuali. Questo a differenza di quanto avviene per la contrattazione nazionale che si trova agevolmente nell’archivio nazionale dei contratti del CNEL e che viene registrata, testo per testo, in due bollettini semestrali dello stesso CNEL di descrizione dei relativi contenuti essenziali.

 

Rispetto al fenomeno della contrattazione c.d. pirata l’unica fonte disponibile è, allo stato, quella offerta dalla collaborazione tra CNEL e INPS, che consente di consultare i flussi Uniemens relativi ai contratti dichiarati dai datori di lavoro per ciascun lavoratore, ai fini del calcolo dei contributi previdenziali. Si tratta di dati indubbiamente preziosi, che permettono – una volta incrociati con il repertorio contrattuale CNEL – di stimare con buona precisione il numero di imprese e lavoratori cui si applica ciascun contratto collettivo nazionale, anche con disaggregazione territoriale per province. I rapporti annuali del CNEL sul mercato e la contrattazione collettiva, pur denunciando i rischi della contrattazione in dumping, evidenziano la buona tenuta della contrattazione condotta dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Sono proprio i flussi Uniemens a documentare, anche per il biennio 2023-2024, che i (relativamente) pochi contratti sottoscritti da CGIL, CISL, UIL (circa 250 sugli oltre 1.000 depositati nell’archivio del CNEL), coprono la quasi totalità dei lavoratori. Parliamo di una copertura che supera il 96 per cento dei lavoratori italiani del settore privato, con la sola eccezione per lavoro domestico e lavoro agricolo dove questi dati ancora mancano. I restanti contratti, soprattutto quelli sottoscritti da sigle minori e spesso del tutto sconosciute, si applicano a numeri davvero residuali di lavoratori. Basti pensare che quasi 500 contratti nazionali depositati al CNEL trovano applicazione a meno di 100 addetti, davvero poca cosa per parlare di frammentazione del sistema di contrattazione collettiva e di un dilagare della contrattazione in dumping. Le finalità del deposito, in questi casi, sono evidentemente altre e riguardano benefici che gli “attori” firmatari contano di maturare rispetto alle istituzioni pubbliche più che in ragione di un reale radicamento nel sistema di relazioni industriali.

 

In realtà non pochi studiosi ed osservatori del mercato del lavoro e delle relazioni industriali continuano a esprimere, non si sa sulla base di quali motivazioni, ampie riserve sull’affidabilità dei dati offerti dai flussi Uniemens. L’obiezione più diffusa riguarda la natura dell’obbligo dichiarativo (previsto dall’art. 1, comma 1, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 1989, n. 389) secondo cui l’INPS deve utilizzare, ai fini contributivi, i minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale indicato dal datore di lavoro. Ma da ciò non deriverebbe necessariamente che tale contratto sia quello effettivamente applicato al rapporto di lavoro. Si ipotizza anzi che, in alcuni casi, le imprese possano adottare un contratto riconosciuto e firmato da organizzazioni sindacali rappresentative unicamente per determinare l’imponibile contributivo, mentre nel concreto il trattamento economico e normativo dei lavoratori sarebbe regolato da un diverso contratto – magari sottoscritto da soggetti non comparativamente rappresentativi – con condizioni meno favorevoli.

 

È in questo contesto che assume un rilievo particolare il recente studio realizzato dall’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro di Veneto Lavoro. A differenza delle analisi fondate solo sui flussi previdenziali, lo studio utilizza anche le comunicazioni obbligatorie inviate dai datori di lavoro ai servizi per l’impiego (ai sensi dell’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni dalla l. 28 novembre 1996, n. 608) in occasione di assunzioni, cessazioni, proroghe, trasformazioni, trasferimenti e distacchi. In particolare, l’analisi si concentra sulle oltre 600mila assunzioni effettuate nel 2024 da imprese private operanti sul territorio di Regione Veneto, rilevando i contratti collettivi effettivamente applicati ai nuovi rapporti di lavoro.

 

I risultati sono degni di nota. Sei CCNL, tutti riconducibili ai sistemi di relazioni industriali più consolidati, coprono da soli oltre il 50% delle assunzioni effettuate in Veneto nel 2024. Si tratta del CCNL Turismo (Federturismo), del CCNL Terziario, distribuzione e servizi (Confcommercio), del CCNL Agricoltura (Confagricoltura, Coldiretti, Cia), del CCNL Metalmeccanici (Federmeccanica), del CCNL Pubblici Esercizi/Ristorazione (Fipe) e del CCNL Multiservizi (Confindustria, Legacoop, Confcooperative). Ancora più rilevanti i dati relativi alla titolarità sindacale dei contratti: il 92,9% delle assunzioni risulta associato a contratti firmati da almeno una tra CGIL, CISL o UIL. Il 2% fa riferimento a contratti sottoscritti da sigle non confederali ma presenti al CNEL (in linea con gli stessi dati offerti dal CNEL sulla base dei flussi Uniemes), mentre meno dello 0,3% di questi contratti è riconducibile a soggetti del tutto esterni al sistema di rappresentanza istituzionale. I contratti non firmati da sindacati confederali assumono un certo rilievo in alcuni settori specifici. Nel comparto della vigilanza privata, ad esempio, oltre il 70% delle assunzioni è legato a un contratto sottoscritto dal sindacato autonomo Confsal. Un peso non trascurabile dei contratti non confederali si registra anche nell’ICT e nei servizi informatici, dove si segnala la diffusione del contratto firmato da UGL per i Centri di elaborazione dati. È da segnalare anche, per completezza, che nel settore privato la percentuale di assunzioni annue rilevata dal sistema delle comunicazioni obbligatorie che non riporta un contratto univoco ma si rifà ad una indicazione generica si aggira attorno al 5%.

 

I dati del Veneto non devono essere generalizzati in modo acritico. Si riferiscono a una sola regione – per quanto economicamente rilevante e dotata di una buona capacità amministrativa in materia di osservazione del mercato del lavoro – e non è escluso che in altri territori la diffusione della contrattazione pirata assuma proporzioni diverse. Tuttavia, proprio perché costruiti su fonti diverse da quelle previdenziali, questi dati rappresentano un importante banco di prova per valutare e confermare l’attendibilità e affidabilità delle rilevazioni Uniemens. Offrono inoltre uno spaccato concreto sulla effettiva applicazione dei contratti nei nuovi rapporti di lavoro, contribuendo a colmare un vuoto conoscitivo finora difficilmente colmabile.

 

È da analisi come queste che può prendere forma un giudizio equilibrato e documentato sulle dinamiche delle relazioni industriali in Italia. Il fenomeno della contrattazione collettiva pirata esiste, e in alcuni settori / territori è certamente rilevante. Ma non può essere indicato come l’unica, né la principale, causa della questione salariale che attraversa il nostro Paese. Le retribuzioni stagnanti, le disuguaglianze crescenti e le difficoltà di valorizzazione del lavoro non dipendono solo dall’azione o dal dumping di soggetti marginali o opachi. Richiedono, piuttosto, una riflessione più ampia sulla qualità della contrattazione collettiva, sul ruolo dei livelli territoriali e aziendali, sulla capacità di rappresentanza e sulla forza effettiva delle istituzioni del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 16/2025

 

Il lavoro del futuro: riflessioni su giovani e lavoro dal pensiero di Marco Biagi ad oggi*

Il lavoro del futuro: riflessioni su giovani e lavoro dal pensiero di Marco Biagi ad oggi*

Bollettino ADAPT 24 marzo 2025, n. 12

 

Il lavoro del futuro non è più un posto di lavoro ma un percorso caratterizzato da continue transizioni, lavorative, occupazionali e professionali. Quest’intuizione di Marco Biagi a distanza di vent’anni è quanto più attuale, in un contesto in cui le stesse trasformazioni digitali, ecologiche e demografiche impongono un ripensamento del lavoro che non è più una condizione statica, ma un processo che richiede un continuo adattamento. Questa prospettiva rappresenta un punto di partenza essenziale per l’apertura di questo convegno, dedicato quest’anno al tema giovani e lavoro, per i quali l’idea di un percorso personale e professionale in costruzione e continua evoluzione appare ancora più concreta.

 

Si tratta quindi di trovare e valorizzare strumenti e percorsi in grado di rendere possibili e facilitare queste transizioni, in grado, cioè, di affrontarne i rischi e coglierne le opportunità. Non si tratta di temi nuovi, né di strumenti inediti: molte delle soluzioni a cui farò di seguito riferimento avrebbero potuto essere adottate già in passato. Il loro valore risiede, quindi, nella consapevolezza che, oggi più che mai, debbano rappresentare il punto di partenza per orientare le politiche del lavoro e della formazione in una visione sistemica, in cui i diversi momenti formativi e professionali non siano considerati elementi separati, ma parte di un percorso interconnesso e continuo.

 

Parlando quindi di giovani e lavoro, è indubbio come la nostra riflessione debba partire dal tema del rapporto tra formazione e lavoro. Per anni si è infatti parlato della necessità di costruire un ponte tra formazione e mercato del lavoro. Oggi non si tratta più solo di creare connessioni, ma di promuovere una vera e propria integrazione, affinché i sistemi educativo e lavorativo non siano più concepiti come realtà separate, bensì come componenti dinamiche e interconnesse, capaci di accompagnare i soggetti lungo l’intero percorso professionale.

 

Strumenti come i percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento permettono agli studenti di affiancare lo studio a esperienze dirette nel mondo del lavoro, favorendo lo sviluppo di competenze trasversali e supportandoli nel loro percorso formativo, professionale e personale. Allo stesso modo, gli stage offrono un’opportunità concreta di acquisire esperienza in azienda, facilitando la comprensione delle dinamiche lavorative. Similmente l’apprendistato duale che rappresenta un modello formativo che integra studio e lavoro, garantendo una preparazione più pratica e aderente alle esigenze del mercato. E ancora, i percorsi universitari stessi, che non devono limitarsi alla formazione iniziale dei giovani, ma hanno il compito di contribuire alla formazione continua, creando veri e propri ecosistemi in cui istruzione, lavoro e ricerca si intrecciano. Infine, gli Istituti Tecnologici Superiori (ITS Academy) che offrono percorsi di alta specializzazione tecnica in settori strategici, rispondendo alle esigenze delle imprese e dei territori, dunque rappresentando non un semplice modello formativo, ma un efficace strumento di integrazione tra istruzione e lavoro.

 

È anche evidente, alla luce di quanto detto, come la formazione non debba essere vista solo come uno strumento per l’inserimento professionale, ma come una leva strategica per lo sviluppo personale e l’aggiornamento continuo, garantendo che le competenze e le professionalità stesse non diventino obsolete. In questo quadro, i fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua assumono un ruolo centrale, con le parti sociali che ne guidano la definizione e l’implementazione, così come risulta centrale garantire la trasparenza delle competenze mediante meccanismi di certificazione.

Gli attori delle relazioni industriali e del mercato del lavoro sono quindi chiamati a contribuire alla programmazione strategica delle politiche formative, oltre che di quelle del lavoro, assumendo un ruolo attivo nel comprendere e abilitare queste transizioni attraverso strumenti e percorsi dedicati.

 

Le parti sociali in parte hanno già colto questo invito come dimostrano alcuni rinnovi contrattuali dello scorso anno. Con riferimento all’apprendistato, nel CCNL Terziario Confcommercio, ad esempio, sono stati aggiornati i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante, garantendo una maggiore aderenza tra formazione e competenze richieste dal mercato del lavoro; ancora il CCNL Distribuzione Moderna Organizzata che ha introdotto una disciplina strutturata in materia, con un focus invece sull’apprendistato duale, confermando dunque la necessità di un’integrazione tra formazione e lavoro; e similmente il CCNL Studi Professionali che lo ha esteso anche al praticantato, rafforzando così le tutele per i giovani professionisti. Con riferimento alla certificazione delle competenze, è opportuno richiamare invece il CCNL Elettrico che ha previsto l’istituzione di un libretto formativo digitale per documentare e attestare le conoscenze acquisite dai lavoratori. Un ruolo cruciale è inoltre affidato agli osservatori e comitati bilaterali, incaricati di analizzare i fabbisogni del settore, come previsto dal CCNL Industria Alimentare. Interessante, infine, come tutti i CCNL del settore alimentare venga promossa una possibile soluzione alla tensione tra formazione e lavoro con l’introduzione del patto formativo, che vincola il lavoratore a rimanere in azienda per un periodo di tempo determinato dopo aver usufruito di specifici percorsi di formazione.

 

In conclusione, nel dibattito attuale sul rapporto tra giovani e lavoro, le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali hanno quindi la responsabilità di guidare la costruzione dei mercati del lavoro che è diventata costruzione sociale dei mestieri e delle competenze. In questo senso, la governance deve essere ripensata in chiave solidale, promuovendo un patto sociale sul tema tra governo e parti sociali, ma anche incentivando la collaborazione a livello europeo e a livello territoriale e aziendale. Da un lato, infatti, come già evidenziava il professor Biagi all’inizio degli anni 2000, limitarsi alla prospettiva nazionale non è più sufficiente di fronte alle sfide globali e dunque “l’impegno delle associazioni imprenditoriali e delle organizzazioni sindacali su scala comunitaria potrebbe proprio essere quello di negoziare un’intesa che costituisca il presupposto per un intervento comunitario sui temi richiamati”, con riferimento alla costruzione di percorsi formativi di qualità, invito che fra l’altro sembra essere stato, almeno in parte, accolto dalla recente intesa europea tra Commissione e parti sociali cross-settoriali sul dialogo sociale. Dall’altro, è anche necessario rafforzare il principio di sussidiarietà, privilegiando accordi locali tra istituzioni, imprese, parti sociali, scuole e università, tali da integrare e favorire una transizione più fluida tra i sistemi di istruzione, formazione e lavoro.

 

Il quadro giuridico-istituzionale e le relazioni industriali sono chiamati a rispondere a questa sfida, integrando effettivamente il concetto di transizione nella definizione delle politiche normative e nella regolazione delle dinamiche delle relazioni industriali, per sviluppare una nuova visione strategica a lungo termine che metta al centro non più i posti di lavoro o semplicemente “il lavoratore”, ma la persona, a partire dai giovani.

 

Sara Prosdocimi

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

@ProsdocimiSara

 

*Intervento dell’autrice al Convegno in memoria di Marco Biagi “Giovani e Lavoro: l’attualità del pensiero di Marco Biagi”, CNEL, Roma, 18 marzo 2025

Le principali novità della nuova classificazione ATECO 2025

Le principali novità della nuova classificazione ATECO 2025

Bollettino ADAPT 24 marzo 2025, n. 12

 

A dicembre 2024 (G. U. n. 302 del 27 dicembre 2024) è stata annunciata l’entrata in vigore, a partire dal 1° gennaio 2025, della nuova classificazione ATECO 2025, la quale sarà operativa a partire dal 1° aprile 2025.

 

In generale, la classificazione ATECO consente di identificare le diverse attività economiche per fini statistici e per necessità di natura amministrativo-fiscale.

 

Nel corso degli anni, la classificazione ATECO è stata più volte oggetto di revisione; da ultimo, con ATECO 2025, essa è stata aggiornata per un duplice scopo: da un lato, adattare la classificazione nazionale a quella europeaNACE, versione Rev. 2.1.”, dall’altro per dare conto dei cambiamenti che hanno riguardato il nostro tessuto produttivo, grazie alla raccolta di istanze di modifica (oltre 700) nonché il confronto tra diversi enti nell’ambito del Comitato interistituzionale ATECO[1].

 

Ai fini amministrativi, la ri-classificazione della visura camerale delle imprese sarà eseguita d’ufficio da aprile 2025 dalle Camere di commercio. Ai fini fiscali, invece, gli operatori IVA dovranno utilizzare la nuova classificazione negli atti e nelle dichiarazioni da presentare all’Agenzia delle entrate, salvo diversa indicazione riportata nelle istruzioni dei modelli fiscali.

 

Tuttavia, non saranno solo i soggetti indicati ad essere interessati dalla revisione dei codici ATECO. Da tempo, infatti, il CNEL mette in connessione i CCNL depositati nell’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro alla codificazione ATECO, in ragione del relativo campo di applicazione e quindi delle attività economiche interessate. Pertanto, l’innovazione della classificazione ATECO 2025 impatterà anche sulla (ri)classificazione economica dei CCNL, a partire da quei contratti collettivi nazionali i cui recenti rinnovi hanno determinato una modifica del perimetro applicativo.

 

A conferma della rilevanza sistematica della codificazione ATECO, è utile ricordare che la classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali attraverso il codice statistico contributivo (“CSC”) è sviluppata ancorando quest’ultimo proprio ai codici ATECO.

 

Alla luce dell’importanza della classificazione ATECO a supporto degli operatori, ISTAT ha diffuso recentemente la tabella di corrispondenza che consente di raccordare le ultime due versioni del sistema di codificazione e classificazione delle attività economiche, per risalire alle modifiche intervenute.

 

Ma com’è strutturata la classificazione ATECO? E quali sono i cambiamenti introdotti di recente?

 

Il sistema di codificazione ATECO 2025 – in linea con la classificazione ATECO 2007 aggiornata al 2022 – presenta un impianto strutturale di tipo gerarchico che consente di ordinare le attività economiche in sei diversi livelli, secondo una logica che va dal generale al particolare.

 

Nella sostanza, la classificazione è strutturata in sezioni – denominate con un codice alfabetico (“ATECO 1”) – e in divisioni, gruppi, classi, categorie e sottocategorie – le quali invece sono contraddistinte da codici numerici (rispettivamente “ATECO 2”, “ATECO 3”, “ATECO 4”, “ATECO 5”, “ATECO 6”). Ne deriva che ad ogni attività economica specifica è associato un codice ATECO di 6 cifre (che corrisponde al più elevato grado di dettaglio), a cui è affiancata una descrizione puntuale.

 

Venendo alle novità, la classificazione ATECO 2025 introduce modifiche sia nella struttura dei codici che nei rispettivi titoli e contenuti.

 

L’aggiornamento ha determinato in primo luogo un aumento delle sezioni, che passano da 21 (ordinate dalla lettera “A” alla lettera “U”) a 22 (ordinate dalla lettera “A” alla lettera “V”). Ciò è avvenuto a seguito dello scorporo delle attività contenute nella sezione “J” dedicata alle “Attività editoriali, trasmissioni radiofoniche e produzione e distribuzione di contenutiin una nuova sezione “K”, dove sono invece confluiti i codici dedicati alle attività di “telecomunicazioni, programmazione e consulenza informativa, infrastrutture informative e altre attività dei servizi d’informazione”. L’inserimento della nuova sezione “K” ha così determinato lo slittamento dell’ordine alfabetico delle successive: ad esempio, nella classificazione ATECO 2007, la sezione “K” conteneva la classificazione delle “Attività finanziarie e assicurative” che, in ATECO 2025, sono invece contenute nella sezione “L” ecc.

 

Sempre dal punto di vista strutturale, inoltre, sono aumentati i codici che descrivono i gruppi (+15, ATECO 3), le classi (+36, ATECO 4) e le sottocategorie (+49, ATECO 6) mentre sono diminuite le divisioni (-1, ATECO 2).

 

La classificazione ATECO 2025 introduce dei cambiamenti dal punto di vista contenutistico, operati attraverso l’inserimento di nuovi codici (+1.070 ex novo), l’eliminazione di alcuni codici previgenti (-970 di quelli presenti nella classificazione aggiornata al 2022) e la modifica dei titoli di codici vigenti (che ha interessato 1.428 codici). Questo significa che un codice ATECO presente nella vecchia classificazione:

– può non essere presente nella nuova classificazione ATECO 2025;

– può essere ora “scorporato” in più codici ATECO 2025;

– può essere stato raggruppato in un nuovo codice ATECO 2025 insieme ad altri;

– può essere anche esattamente replicato nella nuova classificazione anche se con una etichetta diversa.

 

Per risalire alle differenze, è necessario rintracciare nella tabella di corrispondenza diffusa da ISTAT le diverse relazioni di corrispondenza, in cui sono presenti anche degli indicatori di copertura che segnalano se i contenuti delle due classificazioni sono inclusi totalmente o parzialmente nelle due versioni della classificazione secondo una logica bidirezionale.

 

Già sulla base di tali elementi, e come sottolineato da ISTAT, risultano evidenti le novità legate a questa riclassificazione sotto il profilo sostanziale e operativo.

 

Il processo per risalire alle diverse relazioni di corrispondenza è complesso e sicuramente non immediato, soprattutto se si considera che, ad uno stesso codice ATECO presente nella classificazione ATECO 2007, potrebbe corrispondere un contenuto (una attività economica in senso lato) completamente differente in ATECO 2025.

 

La nuova classificazione contiene in totale 3.257 codici, i quali descrivono le attività economiche tenendo conto dei cambiamenti intervenuti in diversi segmenti di mercato nel corso degli ultimi anni.

 

Tra le novità si segnala anche una più dettagliata descrizione delle attività che hanno un impatto in termini di sostenibilità, anche ambientale: nella sezione D dedicata alle attività di “Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata”, è presente una specifica rispetto all’attività di produzione di energia elettrica, distinguendo sul punto se l’attività è condotta con l’utilizzo di fonti non rinnovabili (D35.11.00) oppure mediante fonti rinnovabili (D 35.12.00).

 

Sono inoltre numerose le modifiche riguardanti il settore merceologico del Commercio all’ingrosso e al dettaglio” (sezione G),  in particolare per la divisione 47 dedicata al “Commercio al dettaglio” – dove la logica classificatoria adottata è ora basata sulla tipologia di prodotti venduti anziché sul canale di vendita – e per il settore delle “Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione” (sezione I), vista riorganizzazione quasi completa della classificazione riguardante i servizi di alloggio, alla luce della più netta una distinzione le diverse tipologie di servizio in virtù dell’evoluzione di queste ultime negli ultimi anni.

 

Infine, degno di nota, è altresì l’introduzione del codice ATECO dedicato alle “Attività di influencer marketing” (N 73.11.03) nella sezione dedicata alle “Attività professionali, scientifiche e tecniche” (sezione N) quale specificazione della divisione “Attività di pubblicità, ricerche di mercato e pubbliche relazioni” e rispetto alla quale anche l’INPS ha dato un contributo con la circolare 19 febbraio 2025, n. 44 per meglio precisare i profili (non solo) previdenziali derivanti dall’esercizio di questa determinata attività (M. De Francesco, Content creator e influencer: l’inquadramento giuslavoristico e previdenziale secondo l’INPS, in Bollettino ADAPT 24 febbraio 2025, n. 8).

 

Chiara Altilio

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

@chialtilio

 

[1] Il Comitato ATECO è composto da rappresentanze: a) delle istituzioni e del governo – Cnel, Ministero Turismo; MeF; Ministero imprese, Comitato nazionale per la biosicurezza e scienze della vita; b) del sistema camerale fiscale e previdenziale – AdE, Camere di Commercio, Inps, Infocamere, Sogei, Unioncamere; c) del settore finanziario e assicurativo (IVASS, Banca d’Italia); d) settoriali – Confartigianato, Confetra, Confcommercio, Casartigiani, Cna, Confesercenti, Confindustria, FINCO. Il Comitato, inoltre, è stato supportato da una rete di stakeholder.

 

Cassa integrazione, ferie e permessi tra giurisprudenza e contrattazione collettiva

Cassa integrazione, ferie e permessi tra giurisprudenza e contrattazione collettiva

Bollettino ADAPT 20 gennaio 2025, n. 3

 

Il Tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza n. 351/2024, pubblicata il 22 novembre 2024, ha avuto occasione di occuparsi di una questione che spesso viene sollevata nel caso di ricorso ad ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro: la maturazione dei ratei di ferie e permessi (di CCNL) in caso di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro.

 

Nel caso di specie, i ricorrenti, dipendenti o ex-dipendenti di una azienda che applica il CCNL per l’industria metalmeccanica e l’installazione di impianti (cod. CNEL C011), chiedevano al giudice la maturazione piena (ripristino o indennità sostitutiva) – per un periodo interessato da cassa integrazione guadagni ordinaria (CIGO) – dei giorni di ferie e permessi, nonché il risarcimento del danno. Gli stessi erano infatti stati calcolati dal datore di lavoro in termini di proporzione diretta rispetto alle ore effettivamente prestate.

 

Occorre preliminarmente rilevare come risulti incontestato il fatto per cui il ricorso alla CIGO venne circoscritto ad alcuni giornate e addirittura limitato ad alcune ore delle stesse (CIGO a riduzione), e non per l’intero periodo ed orario richiesti (non siamo quindi in presenza di una CIGO a zero ore).

 

Il Giudice muove l’iter argomentativo da principi enunciati da risalente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3603/1986).

 

La Cassazione di metà anni ’80, seguita da altre pronunce (ad esempio, Cass. n. 10205/1991), aveva statuito come «il diritto al godimento delle ferie non è suscettibile di riduzione proporzionale alle ore non lavorate in relazione (…)» a casi di ricorso alla cassa integrazione, ripartendo peraltro l’onere tra il datore di lavoro (per la quota maturata nelle ore effettivamente prestate) e l’INPS (per le ore di CIGO). Diverso il caso della sospensione dell’orario di lavoro (c.d. CIGO a zero ore), ricorrendo la quale, nei relativi periodi, non maturerebbe il rateo di ferie (pur risalente, cfr. Pret. Lucca, 12 dicembre 1998).

 

La sentenza in commento richiama poi un particolare orientamento giurisprudenziale, di valorizzazione della contrattazione collettiva, secondo cui il principio sopra espresso «(…) non esclude che la disciplina collettiva (…) possa stabilire, con esplicita disposizione, che il diritto alle ferie maturi anche con riguardo a periodi del rapporto di lavoro durante i quali non vi sia stata effettiva prestazione di attività lavorativa» (Cass. n. 6872/1988).

 

Muovendo da tale assunto, il Tribunale ha accolto apoditticamente la tesi di parte ricorrente, che richiamava l’art. 10 (“Ferie”), sez. Quarta, Titolo III del CCNL applicato, sostenendo come esso preveda la maturazione integrale dei ratei di ferie, in caso di parziale prestazione lavorativa nel mese, ma comunque superiore ai 15 giorni.

Invero, si può anzitutto notare come l’articolo richiamato non si occupi di regolare, in maniera espressa, la maturazione delle ferie nelle ipotesi di riduzione o sospensione dell’orario di lavoro per cassa integrazione, come invece accade in altri CCNL. Si pensi, per rimanere nel Sistema Confindustria, alle clausole previste nel CCNL Tessile, abbigliamento, moda (cod. CNEL D014).

 

Esso si limita infatti a prevedere, per quanto qui d’interesse, che «Al lavoratore che all’epoca delle ferie non ha maturato il diritto all’intero periodo di ferie spetterà, per ogni mese di servizio prestato, un dodicesimo del periodo feriale di cui al primo comma. La frazione di mese superiore ai 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero. In caso di risoluzione del rapporto di lavoro al lavoratore spetterà il pagamento delle ferie in proporzione dei dodicesimi maturati. La frazione di mese superiore ai 15 giorni sarà considerata, a questi effetti, come mese intero».

 

Ciò pare certamente applicarsi ai tradizionali casi di assunzione e cessazione del rapporto di lavoro durante l’anno (il contratto dice: «Al lavoratore che all’epoca delle ferie non ha maturato il diritto all’intero periodo di ferie (…)»; «In caso di risoluzione (…)»), ipotesi per le quali (si badi all’inciso «a questi effetti») la frazione di mese superiore ai 15 giorni si considera 1/12 di rateo pieno.

 

Criterio però, almeno a parere di chi scrive, non automaticamente applicabile alle ipotesi di cassa integrazione.

 

Certamente poi l’articolo richiamato non riguarda i permessi annui retribuiti (PAR), regolati da diverso articolo (art. 5, sez. Quarta, Titolo III), che ugualmente non tratta in via espressa delle ipotesi di CIG e, più precisamente, non richiama neppure il criterio dei 15 giorni («(…) sono riconosciuti ai lavoratori, in ragione di anno di servizio ed in misura proporzionalmente ridotta per le frazioni di esso (…)»).

Nonostante ciò, il Tribunale, senza addurre idonee motivazioni (si legge: «Analogamente deve affermarsi per quanto riguarda i permessi, i quali devono ugualmente essere riconosciuti in favore dei ricorrenti»), ne parifica la regolamentazione a quella delle ferie.

 

Quello che qui preme evidenziare è l’assenza, nel percorso argomentativo adottato, di qualsivoglia valutazione (rectius interpretazione) in merito alle pattuizioni collettive poste a fondamento della domanda giudiziale.

È la stessa Cassazione del 1988 a ricordare, nel passaggio peraltro ripreso dal Giudice di Ascoli, come l’interpretazione della disciplina collettiva «(…) è riservata al giudice del merito, è censurabile in sede di legittimità per violazione delle regole legali  di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione (…)». Sotto questo profilo, sarà interessante valutare, se vi sarà occasione, eventuali posizionamenti in successivi gradi di giudizio.

 

Al di là della questione di merito, che conserva in ogni caso la sua valenza, emerge l’esigenza di una attenta valutazione e interpretazione delle clausole contrattuali, il che assume una sempre più preponderante centralità nel dibattito giuslavoristico e di cui forse non ci si preoccupa ancora a sufficienza in termini formativi e di approfondimento tecnico, in ogni sede.

 

Marco Menegotto

ADAPT Professional Fellow

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