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Adesione implicita al CCNL: una nuova pronuncia sull’art. 2070 c.c.

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Bollettino ADAPT 20 maggio 2024, n. 20

 

In data 31 gennaio 2024 la Corte di Cassazione è tornata nuovamente a pronunciarsi su una delle tematiche più delicate in tema di relazioni industriali, vale a dire la discrezionalità e la libertà del datore di lavoro nella scelta e successiva applicazione del contratto collettivo. L’ordinanza n. 7203/2024 va ad arricchire l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che la Corte di legittimità e i giudici di merito portano avanti dalla celebre sentenza n. 2665 del 26 marzo 1997 della stessa Cassazione. Da ormai quasi trent’anni, infatti, attestata la perdurante inattuazione della seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione, la giurisprudenza ha identificato i contratti collettivi di lavoro quali negozi giuridici di diritto comune, che, in quanto tali, esplicano i loro effetti esclusivamente nei confronti degli iscritti alle associazioni sindacali e datoriali stipulanti, nonché nei confronti di coloro i quali tramite un atto di volontà esplicito o implicito, vi abbiano prestato adesione. Va da sé dunque che, nel sistema descritto, risulta inapplicabile il disposto del comma 1 dell’articolo 2070 c.c., il quale afferma che «1’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore» , poiché la disposizione finirebbe con il sottintendere  un’efficacia generalizzata e automatica del contratto collettivo nei confronti di tutti i datori di lavoro  e lavoratori afferenti ad una determinata categoria professionale.

 

L’affermarsi di questa interpretazione giurisprudenziale, insieme alla proliferazione dei CCNL i cui ambiti di applicazione sono spesso vaghi e sovrapponibili, ha ampliato la libertà di scelta del contratto collettivo in favore del datore di lavoro, che incontra, quale unico ostacolo, la sola ed eventuale opposizione da parte del lavoratore subordinato, potendo quest’ultimo manifestare, in sede di costituzione del rapporto individuale di lavoro, la volontà di applicare un diverso CCNL rispetto a quello proposto dal datore di lavoro. A ben vedere, però, una tale circostanza, per quanto possibile, si manifesta raramente.

 

Ripercorrendo brevemente i fatti oggetto dell’ordinanza emessa dalla Suprema Corte, è da rilevare che, nel caso di specie, due lavoratori hanno agito in primo grado presso il Tribunale di Roma, lamentando l’applicazione da parte della società datrice di lavoro nei loro confronti di un diverso contratto collettivo, il CCNL Multiservizi, rispetto a quello applicato a tutti gli altri dipendenti precedentemente assunti, ovvero il CCNL Terziario, Distribuzione e Servizi. Nello specifico, dunque, i ricorrenti chiedevano l’applicazione del contratto collettivo applicato agli altri dipendenti e la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive.

 

Il giudice di primo grado, qualificata l’attività professionale svolta dai due ricorrenti come attività accessoria rispetto a quella principale della società datrice di lavoro, aveva rigettato il ricorso sulla base del consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce la possibilità del datore di lavoro di applicare un diverso CCNL ai dipendenti impiegati in attività accessorie e/o complementari. Successivamente la Corte d’appello di Roma, pur ritenendo che la società non esercitasse distinte attività di impresa e dunque negando l’accessorietà dell’attività svolta dai ricorrenti e riconoscendola quale attività rientrante in quella principale aveva rigettato comunque il ricorso presentato sulla base del disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 2070 c.c. Secondo la Corte territoriale, infatti, l’attività svolta dalla società rientrava a pieno titolo nel perimetro del CCNL Multiservizi e, dunque, per ottenere l’applicazione dell’altro contratto collettivo, i ricorrenti avrebbero dovuto provare, ai sensi dell’articolo 2070, co. 1 c.c., che l’attività effettivamente svolta rientrasse invece nel CCNL Terziario Distribuzioni e Servizi.

 

In disaccordo con la decisione emessa dai giudici d’appello, i due ricorrenti hanno adito la Suprema Corte lamentando un’errata applicazione dell’art. 2070 c.c. La Corte di Cassazione nell’accogliere l’istanza presentata dai due lavoratori dipendenti, ha cassato la sentenza della Corte d’appello, la quale si fondava su una lettura della norma errata ed ormai superata da tempo.

 

Ciò che agli occhi della Suprema Corte ha reso inaccettabile la ricostruzione operata in secondo grado è l’aver fondato l’intera pronuncia sul ragionamento per cui il CCNL applicabile in una data realtà professionale va identificato sulla base del criterio merceologico e cioè se quella attività rientra o meno nell’ambito di applicazione del CCNL in questione, senza tenere in considerazione se vi sia o meno stata la volontà delle parti di aderire a quel dato contratto collettivo. In questo modo la Corte d’Appello ha nei fatti negato l’orientamento precedentemente richiamato per cui, essendo i CCNL dei contratti di diritto comune rispondenti alle tradizionali regole di diritto privato, elemento centrale è la volontà negoziale delle parti; a dover prevalere dunque, secondo l’orientamento al quale nel caso di specie la Cassazione si accoda, è la scelta esplicita o implicita compiuta dal datore di lavoro.

 

La Suprema Corte ribadisce, dunque, il principio di diritto per cui l’individuazione del contratto collettivo da applicare al rapporto di lavoro «va fatta unicamente sulla base delle regole dei contratti in generale ed attraverso l’indagine della volontà delle parti, risultante, oltre che da espressa pattuizione, anche implicitamente dalla protratta e non contestata applicazione di fatto di un determinato contratto collettivo».

 

Sempre secondo quanto affermato dai giudici, basandosi questi ultimi su quella che è oramai una prassi ben nota con riferimento alle modalità di adesione da parte del datore di lavoro, il quale non sia parte di nessuna associazione datoriale, ad un dato CCNL, «tale recepimento viene solitamente effettuato […] quando il datore ne fa applicazione in via di fatto, seppur in assenza di adesioni espresse o il lavoratore ne chieda l’applicazione in via giudiziale (adesione implicita)».

 

I giudici di legittimità, dunque, con riferimento alla situazione in esame, individuano proprio un caso di adesione implicita del datore di lavoro al CCNL Terziario a causa dell’applicazione reiterata del suddetto contratto nei confronti di tutti i dipendenti assunti precedentemente rispetto ai due soggetti ricorrenti. A conferma di ciò si aggiunge la decisione della società di iniziare ad applicare in corso di rapporto, a far data dal novembre 2023, il CCNL Terziario ai medesimi ricorrenti.

 

La Corte, quindi, riconosce come la «reiterata e costante applicazione di fatto del CCNL all’interno di una medesima impresa […] configura un comportamento concludente con valore negoziale, con insorgenza a carico del datore di lavoro dell’obbligo di rispettare il medesimo CCNL anche nei confronti dei nuovi assunti i quali ne abbiano richiesto l’applicazione». Attraverso questa argomentazione, la Corte tenta di dare contenuto concreto a ciò che la prassi chiama adesione implicita, cercando di porre un ragionevole limite alla discrezionalità del datore di lavoro e al contempo garantire una sorta di “certezza del diritto” nei confronti dei lavoratori dipendenti di una medesima realtà aziendale, i quali hanno diritto a vedersi applicata una uniformità di trattamento.

 

L’ordinanza appena esaminata, coerentemente alla giurisprudenza citata e dalla quale trae ispirazione, riconferma quel principio di diritto enunciato dalla “sentenza madre” del 1997, andando a dare contenuto e specificità all’espressione «coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano prestato adesione».

 

Tuttavia, pur allineandosi alla tesi giurisprudenziale maggioritaria, che come appena segnalato sostiene la libertà contrattuale del datore di lavoro, quest’ordinanza tenta al contempo di porvi un argine sostenendo che sì, la scelta del CCNL è libera, ma deve comunque essere coerente con i comportamenti intrapresi dal datore di lavoro nei confronti della generalità dei lavoratori dipendenti che svolgano una medesima attività.

 

 Marta Migliorino

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

@martamigliorino

Dal CNEL una lettura condivisa delle dinamiche del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva*

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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16

 

Nel dibattito sui controversi temi del lavoro non mancano, da tempo, segnali di un progressivo degrado delle strutture organizzative dei corpi intermedi di rappresentanza e di mediazione sociopolitica per usare le parole di un acuto interprete della società italiana quale è Giuseppe De Rita. A preoccupare sono oggi le profonde divergenze nelle strategie – e prima ancora nelle visioni – di Cgil, Cisl, Uil che ci prospettano una Festa dei Lavoratori a metà, e cioè un Primo Maggio da “separati in casa”.

 

In questo scenario non mancano tuttavia segnali incoraggianti e anche concrete dimostrazioni della capacità delle tre confederazioni sindacali di tenere vivi i canali del dialogo. Degna di nota, da questo punto di vista, è la pubblicazione del XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, approvato all’unanimità dalla Assemblea del CNEL del 18 aprile.

 

Non che difettino, al nostro Paese, studi e rapporti istituzionali sulle dinamiche del lavoro. Si può anzi sostenere che l’eccesso incontrollato di informazioni – nel consentire di sostenere tutto e il contrario di tutto – abbia tolto ogni minima certezza rispetto alla urgenza di conoscere con precisione i reali andamenti del mercato del lavoro, della produttività e delle retribuzioni. È qui che si alimentano quelle divisioni che danno spazio a chi più alza la voce allontanando la politica dal merito dei problemi e dalle persone.

 

Le opinioni sul CNEL, sul disegno costituzionale ad esso sotteso e sui suoi 65 anni di vita, sono variegate e cambiano a corrente alternata. E tuttavia non esiste altro presidio istituzionale sui temi economici e sociali partecipato dalle rappresentanze delle forze sociali del mondo dell’impresa, del lavoro autonomo e del lavoro dipendente e di alcune organizzazioni dell’associazionismo sociale e del volontariato. Il rapporto CNEL sul mercato del lavoro non è pertanto un freddo documento statistico e tanto meno un esercizio accademico. Si tratta piuttosto dello sforzo della “gente della mediazione” di convergere nella conoscenza e, auspicabilmente, nella accettazione dei dati di realtà prima che si avviino fasi di decisione politica.

 

Parliamo dunque di finalità di enorme rilievo istituzionale, efficacemente scolpite nella relazione alla legge CNEL del 1986 firmata da Sergio Mattarella, ancora attuali e anzi imprescindibili per chi voglia contribuire a dotare il nostro Paese di informazioni complete e condivise su temi così centrali per la definizione delle politiche occupazionali e del lavoro e delle leggi in materia economica e sociale.

 

È pertanto un segnale decisamente positivo che il rapporto CNEL contenga quest’anno un esame pienamente condiviso delle luci e ombre del nostro mercato del lavoro prestando particolare attenzione al tema della inclusione e a quello della vulnerabilità. Nella elaborazione del documento sono state aggregate e discusse tutte le diverse fonti informative pubbliche ed è stato analizzato quell’imponente patrimonio documentale e informativo presente nell’Archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro del CNEL.

 

Il rapporto viene ora messo a disposizione delle Camere, del Governo e degli enti ed istituzioni interessati, quale base comune di riferimento non solo a fini di studio, ma soprattutto decisionali ed operativi. Un segnale di vitalità anche del CNEL, grazie prima all’impegno di Tiziano Treu nella passata consiliatura e ora al nuovo corso impresso con generosità da Renato Brunetta, che rilancia nei fatti la centralità di questo organo di rilevanza costituzionale quale sede del confronto e della collaborazione tra le forze sociali e tutti i soggetti istituzionali che raccolgono dati utili per il monitoraggio delle condizioni di lavoro e degli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Avvenire col titolo Il ruolo del Cnel rilanciato con il XXV Rapporto, 20 aprile 2024

 

La contrattazione nazionale nel 2023*

La contrattazione nazionale nel 2023*

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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16

 

Nei primi mesi del 2024 sono stati rinnovati alcuni tra i contratti collettivi nazionali di categoria più importanti. Terziario di mercato, studi professionali, industria alimentare sono solo alcuni dei settori dove le parti sociali sono intervenute per ridefinire le regole contrattuali e i trattamenti retributivi. Come certificano i dati elaborati grazie alle informazioni contenute nell’archivio nazionale dei contratti collettivi del CNEL il numero complessivo di lavoratori ancora in attesa di rinnovo è oggi di circa 5 milioni (nel 2023 erano circa 7,7 milioni). Entro la fine dell’anno potremo poi registrare ulteriori rinnovi di sistemi contrattuali storici quali quelli dell’industria metalmeccanica, della logistica e del turismo.

 

In molti hanno salutato la sottoscrizione di queste di intese come segno di un rinnovato protagonismo delle parti sociali. In verità la vivacità di questi mesi si pone perfettamente in continuità con le dinamiche della contrattazione collettiva nazionale di categoria degli ultimi anni, dalla ripresa della pandemia in avanti. L’ISTAT, nel suo studio sulle dinamiche retributive contrattuali, registra indubbiamente che il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre 2023. Tuttavia, gli sviluppi della contrattazione collettiva vanno meglio seguiti in termini analitici, tenendo cioè conto delle dinamiche di settore: come attesta il CNEL i servizi di mercato registrano 41,9 mesi di attesa; il settore pubblico 24 mesi; il settore industriale, che non a caso segnala una crescita dell’indice delle retribuzioni contrattuali più alti della media complessiva, si situa sotto la media con un dato pari a 1,8 mesi.

 

Una conferma di queste tendenze si trova anche nel recente Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia, elaborato nell’ambito dell’Osservatorio “fareContrattazione” di ADAPT, che tratteggia le principali tendenze qualitative e quantitative della contrattazione collettiva in Italia nel corso del 2023.

Su un totale di 202 accordi sottoscritti nel 2023 – accordi che risultano depositati al CNEL e che rinnovano oppure aggiornano specifiche clausole di 171 tra CCNL (del settore privato e del settore pubblico) e accordi economici collettivi – sono stati ben 44 i rinnovi contrattuali sottoscritti dalle sole federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, per un totale di circa un milione e mezzo di lavoratori coperti, occupati prevalentemente nei settori dell’agricoltura (allevatori, consorzi agrari, consorzi di bonifica dirigenti e dipendenti), della chimica (gomma plastica, vetro, coibentazioni, piccola e media industria chimica), dell’edilizia legno e arredamento (industria legno-arredo e piccole e medie imprese del legno) e del credito. Ben 10 nuove intese sono state poi sottoscritte per regolare il rapporto di lavoro dei dirigenti, nei diversi settori.

 

Entrando nel merito dei contenuti, è sui trattamenti economici che, in una fase di gestione delle pesanti dinamiche inflazionistiche derivanti dalla crisi energetica, si è concentrata prevalentemente l’attività negoziale. Oltre la metà dei rinnovi ha previsto delle quote una tantum per coprire sul piano economico i prolungati – talvolta in modo cronico, come nel caso particolarmente mediatico del contratto collettivo dei servizi fiduciari – periodi di ultra-vigenza dei testi contrattuali previgenti, al fine di garantire almeno in parte il potere di acquisto dei lavoratori. Allo stesso fine sono stati costruiti meccanismi funzionali ad adattare nel tempo le retribuzioni agli andamenti inflattivi, come nel caso della “doppia pista salariale” del CCNL Legno-Arredo, con la quale le parti si impegnando a definire nuovi incrementi contrattuali ogni anno sulla base dell’andamento del dato Ipca generale comunicato dall’ISTAT.

 

Per il resto, è confermata la tendenza, risalente nel tempo ma consolidatasi nel corso dell’ultimo decennio, di una sempre più ampia frammentazione degli istituti retributivi per la quale, anche a fronte di una crescente esigenza di adattare i salari alle caratteristiche delle prestazioni lavorative, ai minimi tabellari si aggiungono indennità di posizione ed elementi aggiuntivi di diverso tipo, multiformi misure di welfare aziendale e diffusi elementi perequativi o di garanzia retributiva che trovano applicazione in tutte le aziende che non hanno una contrattazione collettiva decentrata.

 

Non tutti i rinnovi contrattuali, invece, sono intervenuti sulla parte normativa degli accordi collettivi. Sul punto, le parti sociali si sono limitate per lo più a interagire con le riforme legislative, per esempio sulla materia delle causali dei contratti a termine riformata dal decreto-legge n. 48/2023 (c.d. Decreto Lavoro), convertito in legge n. 85/2023, o a definire nuovi ambiti di flessibilità controllata, per esempio in materia di lavoro stagionale.

 

Episodici sono gli interventi in materia di orario e di organizzazione del lavoro; tematiche rispetto alle quali è riconosciuto un ampio margine di manovra alla contrattazione decentrata che comincia a sperimentare intese sulla c.d. settimana corta o altre forme innovative. Marginale è in questo campo il ruolo della contrattazione nazionale salvo alcune eccezioni, come quella del contratto del credito (sottoscritto il 27 dicembre 2022 ma ratificato nel 2023), in cui viene riconosciuta una riduzione dell’orario di lavoro settimanale di 30 minuti o quella del contratto collettivo dei dipendenti della Siae che introduce in via sperimentale la smart week, cioè la possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in quattro giornate lavorative da 9 ore per ogni settimana.

 

Decisamente sullo sfondo, infine, rimangono istituti come quello dell’apprendistato, la cui disciplina collettiva è rimasta invariata in quasi tutti i rinnovi, salvo marginali modifiche a disposizioni di dettaglio (quote di conferma, malattia dell’apprendista, ecc.), e la formazione dei lavoratori, sulla quale non si registrano nuovi modelli di intervento dopo le fughe in avanti di alcuni contratti collettivi (meccanica ed elettrici) che hanno introdotto un diritto soggettivo alla formazione. Così come è stata rimandata nuovamente la revisione dei sistemi di inquadramento e classificazione del personale, rispetto ai quali i rinnovi contrattuali sono intervenuti soltanto per introdurre nuovi profili professionali ed eliminarne di vecchi o per convenire impegni programmatici a riformare la disciplina in futuro.

 

È su questi temi, su cui dovranno misurarsi i rinnovi contrattuali del 2024: i margini di azione sono ancora molto ampi per gli attori della rappresentanza che, per un verso, inseriscono da tempo nelle loro agende negoziali i problemi derivanti dalla transizione digitale e verde e dal diffuso skill mismatch ma che, al contempo, stentano ancora a investire, anche in termini di politica contrattuale, in quei capitoli dei contratti collettivi che più di altri consentirebbero lo sviluppo e la valorizzazione delle competenze professionali necessarie.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 18/2024