Bollettino ADAPT 20 maggio 2024, n. 20
Di sicuro interesse per gli studiosi delle dinamiche della contrattazione collettiva a livello anche comparato, è il recentissimo studio dal titolo La regulación de las retribuciones en la negociación colectiva elaborato in Spagna dall’Observatorio de Negociación Colectiva – gruppo di ricerca facente capo al sindacato Comisiones Obreras (CCOO) e coordinato dalla Secretaría de Acción Sindical y Empleo in collaborazione con la Fundación 1.º de Mayo – con il proposito di fornire un quadro chiaro e completo di tutte le voci presenti nei contratti collettivi che direttamente o indirettamente incidono sull’aspetto della retribuzione dei lavoratori.
Un progetto al quale hanno lavorato come ricercatori ben 42 docenti di diritto del lavoro provenienti da 16 diverse università spagnole, e nell’ambito del quale sono stati oggetto di analisi 275 contratti collettivi firmati nella stragrande maggioranza dei casi nel 2022 con una piccola percentuale nel gennaio 2023, e i cui contenuti interessano un totale di 2,1 milioni di lavoratori.
Considerando il livello di contrattazione, il campione risulta composto da 110 contratti collettivi di settore (che interessano 1,9 milioni di lavoratori, il 95% del totale) e 165 contratti collettivi di livello inferiore (109 mila lavoratori interessati, pari al restante 5%) di cui: 9 contratti di gruppo di impresa, 100 contratti aziendali, 52 relativi a unità produttive e 4 il cui ambito di applicazione è limitato ad una categoria o gruppo professionale specifico.
La scelta dell’ambito temporale di analisi riflette l’intento di indagare gli effetti conseguenti alla riforma del lavoro del 2021, che tanto ha inciso sulla contrattazione collettiva spagnola in punto di retribuzione con l’eliminazione, per questa materia, della priorità applicativa dei contratti aziendali o di gruppo di impresa in favore dei contratti collettivi di settore. I dati dimostrano, difatti, che la priorità applicativa assegnata ai contratti aziendali dalla riforma del 2012 aveva generato una nuova ondata di contratti di questo livello in cui il salario medio pattuito risultava di gran lunga inferiore rispetto a quello degli anni precedenti.
Lo studio offre dunque una panoramica della contrattazione collettiva spagnola in materia di retribuzione suddividendo l’analisi nei seguenti macrotemi.
La struttura della contrattazione collettiva e la disapplicazione del contratto in materia salariale
Come già anticipato, dai contratti collettivi analizzati è emersa la tendenza a rafforzare il ruolo dei contratti collettivi nazionali di settore come strumento atto a rendere quanto più possibile omogenee le condizioni di lavoro dei lavoratori, fermo restando l’applicabilità delle migliori condizioni che contratti di livello inferiore eventualmente prevedano, favorendo quella concorrenza non conflittuale che mira a dar risposte a situazioni concrete che possano presentarsi.
La maggioranza dei contratti collettivi oggetto di analisi, inoltre, prevede un riferimento alla disapplicazione del contratto collettivo (descuelgue), ammessa ex articolo 82.3 Estatuto de los Trabajadores (ET) rispetto a determinate materie, tra cui quella salariale, quando concorrano cause economiche, tecniche, organizzative o di produzione che giustifichino condizioni di lavoro diverse rispetto a quelle stabilite nel contratto collettivo applicabile. In alcuni casi il riferimento è un semplice rimando alla normativa, in altri si apprezza l’intento delle parti di dotare i lavoratori interessati di maggiori garanzie, anche con riferimento specifico all’aspetto salariale. O ancora, emerge in altri contratti lo sforzo di definire con maggior concretezza il contenuto della causa economica o un piano di azione che attutisca l’impatto della situazione congiunturale sul mantenimento dell’occupazione. In alcuni contratti, infine, si è optato per l’apposizione di un limite di durata massima della disapplicazione, se non anche il divieto di ricorrervi in maniera reiterata.
La determinazione e la struttura della retribuzione
Il punto di partenza per la determinazione della retribuzione è il salario base, vale a dire, il corrispettivo direttamente connesso alla prestazione lavorativa, fissato per unità di tempo o di lavoro dalla contrattazione collettiva. Si tratta di una voce che nessun contratto collettivo potrebbe mai escludere e per la quale vige il principio della irrilevanza del nomen iuris, nel senso che, nonostante l’ampio margine di cui godono gli attori della contrattazione nella quantificazione delle differenti componenti salariali, la natura degli emolumenti non dipenderà dalla denominazione assegnata dalle parti, bensì dalla loro reale essenza e finalità.
Sebbene tale voce, abbia un peso rilevante nel calcolo della retribuzione, altrettanto protagonismo rivestono, tuttavia, altre prestazioni di natura salariale, tese a garantire flessibilità e adattabilità alle esigenze delle imprese. Di queste si tiene conto nella comparazione tra il salario base e il salario minimo interprofessionale, il quale nel corso degli ultimi anni ha registrato in Spagna una crescita costante ed esponenziale, sino a raggiungere, per l’anno 2024, l’importo di 1.134 euro mensili, soglia che nessun contratto collettivo può oltrepassare al ribasso (in tema rinvio a L. Serrani, Incremento del Salario Minimo Interprofessionale e impatto sul lavoro: il caso spagnolo, in Bollettino ADAPT, 13 giugno 2022, n. 23).
È questa la ragione per cui i contratti collettivi in cui il salario base risulta sensibilmente inferiore al salario minimo interprofessionale – principalmente le attività di pulizia, manodopera o ausiliarie – sono poi accompagnati da premi quali anzianità, presenza, ferie o altro tipo di bonus necessari a raggiungere la retribuzione totale.
Un ulteriore effetto del progressivo incremento del salario minimo interprofessionale, di cui si ha avuto conferma dalla lettura dei numerosi contratti collettivi oggetto di analisi, è risultato essere quello dell’inclusione, ormai generalizzata, delle clausole di assorbimento e compensazione, che consentono di misurare il reale impatto delle revisioni periodiche annuali della retribuzione stabilita dal contratto collettivo per i casi in cui il lavoratore percepisse in precedenza un salario più alto. A ciò si aggiunga che i contratti collettivi possono autorizzare la compensazione anche tra voci della retribuzione eterogenee e non salariali, ragion per cui sono sempre più frequenti clausole dei contratti collettivi che, infrangendo il requisito dell’omogeneità, ammettono compensazioni e assorbimenti con maggiore ampiezza e indeterminatezza, indipendentemente dalla natura e dall’origine delle condizioni salariali. Non mancano, tuttavia, alcune eccezioni di contratti in cui continua a prevedersi una garanzia di revisione automatica verso l’alto.
Le clausole di revisione salariale nella contrattazione collettiva
Dall’analisi dei contratti collettivi è emerso come non tutti i contratti prevedano un incremento retributivo iniziale per gli anni successivi al primo, e ancor meno frequenti risultano le clausole di salvaguardia. La formulazione di tali previsioni, inoltre, risulta talmente eterogenea da dare adito, molto spesso, a problemi interpretativi in sede di giudizio, all’atto di determinare se il lavoratore abbia o meno diritto all’incremento o se al contrario sia tenuto a restituire parte di quanto indebitamente ricevuto.
I pochi contratti collettivi che prevedono clausole di salvaguardia, per di più, lo fanno spesso senza garantire ai lavoratori una reale conservazione del potere d’acquisto, come accade quando la clausola venga subordinata non solamente ai dati inflazionistici, bensì anche al raggiungimento di determinati risultati aziendali. Inoltre, tali clausole, oltre a poter avere effetto retroattivo, nel senso che si riferiscono all’incremento retributivo dell’anno già trascorso, possono essere inserite anche con effetto non retroattivo, destinate cioè soltanto a fissare l’incremento e il livello salariale per l’esercizio successivo, scelta che non risulta però la più adeguata in un contesto, come quello attuale, di forte inflazione.
Come avviene tradizionalmente in Spagna, inoltre, i contratti collettivi non riservano gli incrementi salariali a determinate categorie di lavoratori (ad esempio i dirigenti), ma li estendono a tutte le categorie professionali.
Gli esperti che hanno realizzato lo studio in oggetto suggeriscono, per il futuro, che le clausole di revisione salariale, tanto quella relativa all’incremento iniziale quanto quella di salvaguardia utilizzino criteri chiari, evitando redazioni ambigue ed imprecise che richiamino il ricorso simultaneo a variabili diverse, come ad esempio la previsione dell’inflazione e l’indice dei prezzi al consumo, o criteri di moderazione salariale e incremento retributivo concordato nel contratto collettivo. La scelta migliore sarebbe quella di individuare due variabili il più possibile precise, come ad esempio la differenza tra gli incrementi retributivi pattuiti e l’indice dei prezzi al consumo.
Non a caso, la maggior parte dei Paesi segue un modello di revisione automatica, indicizzando i salari in base all’inflazione piuttosto che ad altri indicatori come la produttività, i profitti o il PIL. Difatti, i dati dimostrano che in Spagna – ma la fotografia è simile più o meno in tutto il mondo occidentale – la crescita delle retribuzioni non è andata di pari passo con quella della produttività, se si considera che dall’anno 2000 mentre la produttività è aumentata del 14,9%, i salari si sono ridotti dell’1,1%. Ragion per cui la scelta più adeguata, secondo il parere degli esperti, continua ad essere quella di mantenere i modelli di revisione salariale ancorati al dato inflazionistico, e in prospettiva far sì che tali incrementi superino quel dato, consentendo così di recuperare, almeno in parte, quel potere d’acquisto che negli anni è andato progressivamente perduto.
Retribuzione accessoria in funzione del lavoro svolto e degli utili dell’impresa
Nella delineazione della struttura salariale spagnola, la contrattazione collettiva gioca un ruolo fondamentale, giacché è all’autonomia collettiva – o, in difetto, individuale – che la legge demanda il concreto sviluppo e la definizione specifica di quei contenuti minimi che si limita a fissare.
Dall’analisi dei contratti collettivi è, tuttavia, emersa una marcata disomogeneità nella modalità in cui viene affrontato il tema della regolazione delle condizioni economiche, giacché, anche quando ad essa venga dedicato un capitolo separato e specifico, manca, nella maggior parte dei casi, una differenziazione chiara e obiettiva tra retribuzione accessoria e altre prestazioni di natura non retributiva (extra-salariales), al punto che una stessa voce si vede rientrare talvolta nell’una e talvolta nell’altra categoria.
Inoltre, l’espansione del telelavoro o del lavoro a distanza ha portato con sé l’emersione di nuovi bonus e prestazioni, la cui natura e finalità richiede la massima trasparenza al fine di garantire la parità di diritti tra lavoratori in presenza e da remoto. Allo stesso modo, ove si escluda per i lavoratori a distanza il diritto a percepire determinati bonus o prestazioni, è necessario che le ragioni che giustificano tale scelta siano indicate e specificate in modo chiaro e preciso.
È questo solo un esempio dei cambiamenti in questa materia che derivano dalla trasformazione del mercato del lavoro. Così, prestazioni che fino a poco tempo fa erano centrali nell’ambito dei rapporti di lavoro, come ad esempio quelle per il lavoro straordinario, assumono adesso carattere eccezionale, tanto che ad esse si suole ricorrere, ormai, soltanto nei casi di forza maggiore o a fronte dell’impossibilità di assumere altro personale a copertura di quelle ore.
Distinta tra i vari contratti collettivi è anche la modalità di pagamento delle ore straordinarie, che avviene in alcuni casi mediante un contributo economico, mentre in altri mediante compensazione del tempo lavorato con altrettante ore di riposo aggiuntivo, compresa la previsione, talvolta, di una “banca delle ore” che consente ai lavoratori di accantonare momentaneamente le ore di lavoro straordinario in un “conto” individuale per poterne poi usufruire al bisogno. O ancora, in alcuni casi l’ammontare della retribuzione degli straordinari varia in funzione del gruppo professionale cui il lavoratore è assegnato.
La riduzione nell’uso degli straordinari, d’altra parte, risulta controbilanciata dall’aumento del ricorso a meccanismi atti a rendere più flessibile la prestazione, il che, dal punto di vista delle componenti della retribuzione accessoria, ha portato all’introduzione di prestazioni specifiche, come ad esempio per i cambi di turno, per orari di lavoro più lunghi, per disponibilità, ecc.
È stato riscontrato, altresì, un uso eccessivamente ampio del termine complemento, vale a dire, “accessorio” che in molti contratti è stato utilizzato anche per riferirsi ad alcune forme di assistenza sociale, come ad esempio le prestazioni aggiuntive erogate dal datore di lavoro rispetto alla sicurezza sociale per i casi incapacità temporanea.
Ben pochi sono, poi, i contratti che prevedono sistemi efficaci di partecipazione dei lavoratori ai risultati economico-finanziari delle imprese (nello specifico, il 3,63% del totale dei contratti), e di questi la maggioranza sono contratti aziendali, oltre a pochi altri casi di contratti collettivi di settore a livello provinciale. La modalità in cui viene calcolata tale remunerazione legata agli utili è l’EBITDA, o un importo fisso ove vengano raggiunti determinati profitti aziendali. Solo in un caso si tiene conto del credito d’imposta per le società per il calcolo degli utili. L’analisi ha inoltre rilevato che dei lavoratori compresi nei contratti collettivi che contemplano retribuzioni vincolate ai risultati aziendali, solo il 24,7% sono donne.
Retribuzione accessoria in funzione delle circostanze personali del lavoratore
Ancora una volta, la tendenza che emerge dalla lettura dei contratti collettivi analizzati è quella di una progressiva scomparsa della retribuzione accessoria in funzione delle circostanze personali dei lavoratori. Assai rari risultano i contratti che ancora contemplino tipologie di bonus legati, ad esempio, alle competenze linguistiche, ad uno speciale know-how, all’acquisizione di determinati titoli, ecc.
Se infatti, ad esempio, la conoscenza della lingua inglese, in passato, ha rappresentato molto spesso un requisito per l’inquadramento in determinati gruppi professionali, al giorno d’oggi è considerata, invece, per lo più, una competenza trasversale e generalizzata, esigibile per qualunque attività o posto di lavoro. Non a caso, i pochi contratti collettivi che continuano a prevedere una prestazione accessoria in funzione delle competenze linguistiche, lo fanno con riferimento a lingue diverse dall’inglese.
E la stessa sorte sembrerebbe spettare alla retribuzione accessoria a carattere “personale” per eccellenza, quella del premio di anzianità, giacché i contratti analizzati mostrano come anch’esso, in occasione dei rinnovi, sia stato talvolta tacitamente soppresso, altre volte sostituito con diverse prestazioni integrative che compiono la medesima funzione di riconoscere al lavoratore un contributo – che può essere di natura economica o meno – per la sua maggiore esperienza professionale e per il lungo arco di tempo dedicato al servizio dell’impresa.
Ad ogni modo, ove previsto, il premio di anzianità viene calcolato nella maggior parte dei casi mediante l’applicazione di una determinata percentuale rispetto al salario base dei lavoratori, scelta che pare la più adeguata in quanto viene così risolto il problema, poco affrontato dalla contrattazione collettiva nonostante la sua importanza, dell’indicizzazione degli importi riferirti a detti premi, visto che questo procedimento avverrà direttamente come conseguenza del periodico aggiornamento del salario base.
La tendenza alla scomparsa anche del premio di anzianità lascia salvo, tuttavia, come emerge da molti dei contratti collettivi analizzati, il diritto a tale prestazione accessoria nel caso in cui questa fosse già acquisita, mantenendola, dunque, come garanzia ad personam per quei lavoratori a cui fosse stata ormai anteriormente riconosciuta. Concetto, questo dell’“anzianità consolidata”, che finisce però per creare non pochi problemi in termini di disparità di trattamento rispetto ai nuovi assunti che, da contratto collettivo, già sanno che non potranno godere di tale diritto.
Non v’è dubbio, a parere degli esperti che hanno condotto la ricerca, che la tendenza alla scomparsa dei premi di anzianità e, in generale, della retribuzione accessoria in funzione delle circostanze personali del lavoratore, sia l’effetto delle nuove politiche salariali, che pongono ormai più l’accento sulla produttività e sulle componenti variabili e funzionali che la quantificano. E se è vero che in questo modo le imprese sono alleviate da costi fissi e periodici, non dovrebbe però venir meno il ricorso ad altre modalità premiali che sappiano valorizzare ed incentivare il senso di appartenenza del lavoratore all’azienda e la sua maggiore esperienza professionale, con un ritorno positivo in termini di motivazione e impegno nello svolgimento del lavoro.
E, difatti, la progressiva perdita di protagonismo del premio di anzianità ha dato origine alla creazione, da parte della contrattazione collettiva, di svariate formule alternative di prestazione economica, generando in tal modo un sistema retributivo complesso, eterogeneo e finanche caotico, in cui convivono e talvolta si sovrappongono prestazioni, bonus, premi, indennità dalle più varie denominazioni, indole e natura, tra le cui maglie risulta difficile districarsi. Ciononostante, volendo tracciare la principale tendenza emersa dall’analisi dei contratti collettivi e pur nella difficoltà il più delle volte di comprendere se si fosse di fronte ad una prestazione accessoria o di carattere non retributivo, quel che è risultato è che la maggior parte dei casi come “sostituto” del premio di anzianità sia stata introdotta una prestazione economica una tantum, consistente in una somma da versarsi in un’unica soluzione al raggiungimento di determinati scatti di anzianità o in occasione della risoluzione del contratto di lavoro.
Prestazioni di natura non retributiva
Con riguardo alle prestazioni di natura non retributiva, la contrattazione collettiva non mostra particolari novità, riscontrandosi una preminenza dei classici rimborsi delle spese sostenute per lo svolgimento del lavoro e relazionate con la mobilità geografica (ad esempio rimborsi per trasferta o trasporto), mentre scarsi sono gli esempi connessi alla transizione digitale o ecologica (il riferimento, nei rari casi in cui presenti, è a clausole relative alla promozione del trasporto collettivo).
Un’attenzione particolare è poi riservata alle prestazioni di natura non retributiva ove riferite all’ambito del telelavoro o lavoro a distanza, tese, nello specifico, ad evitare che i lavoratori siano chiamati a sostenere i costi della prestazione lavorativa secondo tale modalità. Non raggiungono compiutamente tale obiettivo, di conseguenza, quei contratti collettivi che si limitino a prevedere la consegna al lavoratore dei dispositivi con cui svolgere il lavoro a distanza, senza tener conto della compensazione effettiva che si impone con riferimento ai costi, ad esempio, dell’elettricità, della connessione alla rete internet o della luce.
O ancora, gli esperti invitano gli attori della contrattazione collettiva a valutare, nei casi in cui possa essere di interesse in funzione del settore di attività o dell’occupazione di cui si tratti, l’introduzione di premi che incentivino il ritardo nell’accesso alla pensione o forme di transizione graduale (come, ad esempio, un pensionamento parziale) al posto dell’uscita anticipata e definitiva dal mercato del lavoro.
Il principio di parità retributiva nella contrattazione collettiva
Per quanto importanti passi avanti siano stati compiuti in direzione del raggiungimento della parità retributiva tra lavoratrici e lavoratori, troppi ancora sono i contratti collettivi che non hanno eliminato ogni forma di discriminazione nella fissazione dei salari. Quanto residua di tale disparità di trattamento nella contrattazione collettiva spagnola, si rende evidente, in particolare, con riferimento alla configurazione dei sistemi di classificazione professionale. Il concetto di parità non risulta, difatti, citato espressamente in numerosi contratti collettivi, e quando lo si fa, nella maggior parte dei casi si tratta di una mera enunciazione di principi.
La persistenza di sistemi di classificazione professionale basati su categorie professionali o posti di lavoro rende più facile che le attività che registrano una maggiore presenza di donne siano anche quelle meno remunerate. Nella stessa logica, i sistemi di classificazione professionale che stabiliscono vari livelli salariali all’interno dello stesso gruppo professionale, contribuiscono a perpetrare ingiustificate disparità retributive di genere.
La contrattazione collettiva rappresenterebbe il luogo privilegiato per favorire l’eliminazione dell’uso di stereotipi di genere nei processi di selezione del personale, eppure, la maggior parte contratti collettivi analizzati non prevede misure puntuali di azione positiva, salvo alcuni rari casi in cui ci si ripropone quantomeno di studiare misure atte ad agevolare l’accesso delle donne a tutte le professioni, o ad assumere persone del sesso meno rappresentato, o ancora a tener conto, al contrario, del sesso più rappresentato nei casi di licenziamenti collettivi.
Sul fronte delle assunzioni a tempo parziale, si segnalano positivamente alcuni contratti collettivi che alludono ad una politica di utilizzo razionale ed equilibrato di questa tipologia di contratti – largamente utilizzata dalla popolazione lavorativa femminile –, imponendo, ad esempio, l’applicazione del principio pro rata temporis, o una durata settimanale non inferiore al 50%. Alcuni contratti, inoltre, prevedono che siano computate le ore supplementari lavorate durante l’anno ai fini dell’incremento dell’orario ordinario del part-time, qualora il lavoratore ne abbia interesse.
Rarissimi sono poi i contratti collettivi che includono nel loro seno veri e propri piani di uguaglianza di genere, dotandone il contenuto di efficacia giuridica. La chiave di volta potrebbe risiedere, in futuro, nel recepimento da parte della contrattazione collettiva, della disciplina di cui alla recente normativa in materia di parità retributiva di genere (Real Decreto 902/2020, de 13 de octubre, de igualdad retributiva entre mujeres y hombres), che ha introdotto disposizioni in punto di registro salariale e di auditoría retributiva (controllo delle retribuzioni effettuato per verificare se un’azienda paga allo stesso modo gli uomini e le donne che svolgono lo stesso lavoro o la stessa funzione). Al momento, poco o nulla è stato recepito, ma è probabile, o auspicabile, che la ragione risieda nel fatto che la recente adozione normativa, abbia impedito una più ampia e migliore accoglienza da parte della contrattazione collettiva.
In buona sostanza, lo studio mostra e dimostra, ancora una volta, l’importanza della ricerca scientifica che parta dalla lettura e analisi dei contratti collettivi, che sono i testi di riferimento per comprendere la reale evoluzione delle dinamiche in ambito lavoristico. Non a caso, sono stati 42 docenti di diritto del lavoro a voler sottolineare, con questa poderosa ricerca, quanto non basti in questa materia lo studio “accademico”, ma sia necessario andare in profondità nella lettura riga per riga di quanto elaborato dagli attori che ogni giorno vivono la dimensione del lavoro, così come ogni giorno la vedono evolvere e mutare.
Lavinia Serrani
Ricercatrice ADAPT Senior fellow
@LaviniaSerrani