I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

 

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

Se c’è un elemento che, più di altri, concorre a valutare nel merito la qualità e lo stato di salute di un sistema di relazioni industriali questo è legato alla genuinità e trasparenza delle relative dinamiche contrattuali. Non è un caso che si richiamino regolarmente, non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nel dibattito pubblico, gli oltre mille contratti collettivi nazionali di categoria depositati al CNEL per segnalare l’estrema frammentazione e una complessiva inefficienza del nostro sistema di relazioni industriali apparentemente condizionato da centinaia di sigle di sindacali e datoriali.

 

Fondamentale, in questa prospettiva, è allora la capacità di analizzare in profondità gli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva. In Italia, tuttavia, questa conoscenza resta parziale, discontinua e spesso affidata a iniziative isolate. Non esistono studi sistematici e continuativi della contrattazione di livello nazionale e tanto meno delle forme di raccordo e coordinamento tra contrattazione nazionale e contrattazione di secondo livello. Le stesse organizzazioni sindacali sono oggi prevalentemente impegnate, coi loro rapporti periodici, nello studio della contrattazione decentrata, di cui ancora meno si conosce la valenza non essendo in questo caso neppure di facile reperimento gli stessi testi contrattuali. Questo a differenza di quanto avviene per la contrattazione nazionale che si trova agevolmente nell’archivio nazionale dei contratti del CNEL e che viene registrata, testo per testo, in due bollettini semestrali dello stesso CNEL di descrizione dei relativi contenuti essenziali.

 

Rispetto al fenomeno della contrattazione c.d. pirata l’unica fonte disponibile è, allo stato, quella offerta dalla collaborazione tra CNEL e INPS, che consente di consultare i flussi Uniemens relativi ai contratti dichiarati dai datori di lavoro per ciascun lavoratore, ai fini del calcolo dei contributi previdenziali. Si tratta di dati indubbiamente preziosi, che permettono – una volta incrociati con il repertorio contrattuale CNEL – di stimare con buona precisione il numero di imprese e lavoratori cui si applica ciascun contratto collettivo nazionale, anche con disaggregazione territoriale per province. I rapporti annuali del CNEL sul mercato e la contrattazione collettiva, pur denunciando i rischi della contrattazione in dumping, evidenziano la buona tenuta della contrattazione condotta dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Sono proprio i flussi Uniemens a documentare, anche per il biennio 2023-2024, che i (relativamente) pochi contratti sottoscritti da CGIL, CISL, UIL (circa 250 sugli oltre 1.000 depositati nell’archivio del CNEL), coprono la quasi totalità dei lavoratori. Parliamo di una copertura che supera il 96 per cento dei lavoratori italiani del settore privato, con la sola eccezione per lavoro domestico e lavoro agricolo dove questi dati ancora mancano. I restanti contratti, soprattutto quelli sottoscritti da sigle minori e spesso del tutto sconosciute, si applicano a numeri davvero residuali di lavoratori. Basti pensare che quasi 500 contratti nazionali depositati al CNEL trovano applicazione a meno di 100 addetti, davvero poca cosa per parlare di frammentazione del sistema di contrattazione collettiva e di un dilagare della contrattazione in dumping. Le finalità del deposito, in questi casi, sono evidentemente altre e riguardano benefici che gli “attori” firmatari contano di maturare rispetto alle istituzioni pubbliche più che in ragione di un reale radicamento nel sistema di relazioni industriali.

 

In realtà non pochi studiosi ed osservatori del mercato del lavoro e delle relazioni industriali continuano a esprimere, non si sa sulla base di quali motivazioni, ampie riserve sull’affidabilità dei dati offerti dai flussi Uniemens. L’obiezione più diffusa riguarda la natura dell’obbligo dichiarativo (previsto dall’art. 1, comma 1, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 1989, n. 389) secondo cui l’INPS deve utilizzare, ai fini contributivi, i minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale indicato dal datore di lavoro. Ma da ciò non deriverebbe necessariamente che tale contratto sia quello effettivamente applicato al rapporto di lavoro. Si ipotizza anzi che, in alcuni casi, le imprese possano adottare un contratto riconosciuto e firmato da organizzazioni sindacali rappresentative unicamente per determinare l’imponibile contributivo, mentre nel concreto il trattamento economico e normativo dei lavoratori sarebbe regolato da un diverso contratto – magari sottoscritto da soggetti non comparativamente rappresentativi – con condizioni meno favorevoli.

 

È in questo contesto che assume un rilievo particolare il recente studio realizzato dall’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro di Veneto Lavoro. A differenza delle analisi fondate solo sui flussi previdenziali, lo studio utilizza anche le comunicazioni obbligatorie inviate dai datori di lavoro ai servizi per l’impiego (ai sensi dell’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni dalla l. 28 novembre 1996, n. 608) in occasione di assunzioni, cessazioni, proroghe, trasformazioni, trasferimenti e distacchi. In particolare, l’analisi si concentra sulle oltre 600mila assunzioni effettuate nel 2024 da imprese private operanti sul territorio di Regione Veneto, rilevando i contratti collettivi effettivamente applicati ai nuovi rapporti di lavoro.

 

I risultati sono degni di nota. Sei CCNL, tutti riconducibili ai sistemi di relazioni industriali più consolidati, coprono da soli oltre il 50% delle assunzioni effettuate in Veneto nel 2024. Si tratta del CCNL Turismo (Federturismo), del CCNL Terziario, distribuzione e servizi (Confcommercio), del CCNL Agricoltura (Confagricoltura, Coldiretti, Cia), del CCNL Metalmeccanici (Federmeccanica), del CCNL Pubblici Esercizi/Ristorazione (Fipe) e del CCNL Multiservizi (Confindustria, Legacoop, Confcooperative). Ancora più rilevanti i dati relativi alla titolarità sindacale dei contratti: il 92,9% delle assunzioni risulta associato a contratti firmati da almeno una tra CGIL, CISL o UIL. Il 2% fa riferimento a contratti sottoscritti da sigle non confederali ma presenti al CNEL (in linea con gli stessi dati offerti dal CNEL sulla base dei flussi Uniemes), mentre meno dello 0,3% di questi contratti è riconducibile a soggetti del tutto esterni al sistema di rappresentanza istituzionale. I contratti non firmati da sindacati confederali assumono un certo rilievo in alcuni settori specifici. Nel comparto della vigilanza privata, ad esempio, oltre il 70% delle assunzioni è legato a un contratto sottoscritto dal sindacato autonomo Confsal. Un peso non trascurabile dei contratti non confederali si registra anche nell’ICT e nei servizi informatici, dove si segnala la diffusione del contratto firmato da UGL per i Centri di elaborazione dati. È da segnalare anche, per completezza, che nel settore privato la percentuale di assunzioni annue rilevata dal sistema delle comunicazioni obbligatorie che non riporta un contratto univoco ma si rifà ad una indicazione generica si aggira attorno al 5%.

 

I dati del Veneto non devono essere generalizzati in modo acritico. Si riferiscono a una sola regione – per quanto economicamente rilevante e dotata di una buona capacità amministrativa in materia di osservazione del mercato del lavoro – e non è escluso che in altri territori la diffusione della contrattazione pirata assuma proporzioni diverse. Tuttavia, proprio perché costruiti su fonti diverse da quelle previdenziali, questi dati rappresentano un importante banco di prova per valutare e confermare l’attendibilità e affidabilità delle rilevazioni Uniemens. Offrono inoltre uno spaccato concreto sulla effettiva applicazione dei contratti nei nuovi rapporti di lavoro, contribuendo a colmare un vuoto conoscitivo finora difficilmente colmabile.

 

È da analisi come queste che può prendere forma un giudizio equilibrato e documentato sulle dinamiche delle relazioni industriali in Italia. Il fenomeno della contrattazione collettiva pirata esiste, e in alcuni settori / territori è certamente rilevante. Ma non può essere indicato come l’unica, né la principale, causa della questione salariale che attraversa il nostro Paese. Le retribuzioni stagnanti, le disuguaglianze crescenti e le difficoltà di valorizzazione del lavoro non dipendono solo dall’azione o dal dumping di soggetti marginali o opachi. Richiedono, piuttosto, una riflessione più ampia sulla qualità della contrattazione collettiva, sul ruolo dei livelli territoriali e aziendali, sulla capacità di rappresentanza e sulla forza effettiva delle istituzioni del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 16/2025

 

I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*
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