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Il dumping contrattuale nel terziario e il rinnovo del CCNL pulizie e multiservizi*

Il dumping contrattuale nel terziario e il rinnovo del CCNL pulizie e multiservizi*

Bollettino ADAPT 25 giugno 2025, n. 25

 

Tra gli osservatori delle dinamiche contrattuali il contratto collettivo nazionale della categoria pulizia, servizi integrati / multiservizi occupa da tempo una posizione centrale. Non soltanto per i numeri, visto che è applicato a oltre 10mila imprese e 400mila lavoratori (rilevazioni INPS-Uniemens, archivio contratti CNEL), ma per la funzione che ha finito per svolgere in un sistema di regolazione del lavoro dove, accanto ai contratti di settore storici, si è andata diffondendo una miriade di contratti collettivi caratterizzati da minori tutele retributive e normative sottoscritti da sigle di dubbia rappresentatività. La ragione è presto detta: la firma di contratti collettivi, a prescindere dalla loro effettiva applicazione tra imprese e lavoratori, è diventata requisito di rappresentatività a seguito di una circolare del Ministero del lavoro, la numero 14 del 1995, a cui ha fatto seguito l’incremento esponenziale dei contratti nazionali depositati al CNEL.

 

In questo panorama, il contratto collettivo pulizia, servizi integrati / multiservizi si distingue per una peculiarità che è anche una anomalia: la sua sfera di applicazione (cioè la categoria contrattuale) è trasversale a diversi settori il che lo rende oggetto d’uso — e talvolta abuso — per regolare servizi e tipologie di attività già disciplinati da specifici contratti nazionali di settore. È anche per questo motivo che l’ultimo rinnovo del 13 giugno 2025, sottoscritto da Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltrasporti e dalle principali associazioni cooperative e datoriali del comparto (Legacoop, Confcooperative, Agci, Unionservizi Confapi) con l’esclusione della Confindustria, merita particolare attenzione. Il rinnovo introduce infatti un impegno preciso: ridefinire e restringere la sfera di applicazione del contratto per ridurre i margini di utilizzo distorto, individuando puntualmente le attività effettivamente riconducibili al perimetro dei servizi di pulizia e multiservizi.

 

Si tratta di un passo importante — e raro — di responsabilità degli attori del sistema contrattuale, perché è da qui che può passare una strategia credibile del sindacato confederale (Cgil, Cisl, Uil) contro la proliferazione di contratti “pirata”, cioè contratti a tutele inferiori. Contratti che spesso diventano veri e propri “corsari”, perchè legittimati da meccanismi politici di accreditamento, e che alimentano una concorrenza sleale che danneggia lavoratori, imprese e la stessa tenuta del sistema contrattuale.

 

È del resto in questo ambito di azione che il sindacato confederale può (ri)trovare parte delle ragioni dell’unità sindacale, oltre le divisioni, per contrastare l’indebolimento della funzione storica del sindacato e della bilateralità. Ciò anche in ragione del fatto che la Costituzione non tutela il sindacato in sé ma in quanto strumento di effettività della voce e dell’interesse collettivo dei lavoratori.

 

La questione è particolarmente più urgente se si guarda al terziario di mercato dove si concentrano i maggiori fenomeni di dumping contrattuale. Un settore apparentemente disorganico, ma in realtà centrale per l’economia nazionale: commercio, turismo, vigilanza, servizi tecnici, estetici, sportivi — insieme ad altri comparti, come i servizi finanziari, socio-educativi, pubblici — arrivano a rappresentare almeno 11 milioni di lavoratori, il 46,7% del valore aggiunto nazionale e oltre un terzo della produzione. Eppure è proprio qui che si registrano i livelli più alti di contrattazione collettiva pirata: oltre 250 contratti nazionali formalmente in vigore nel solo terziario (su 1000 complessivi), ma appena 37 di questi superano l’1% di copertura reale della forza lavoro del settore. Gli altri sono quasi del tutto privi di applicazione effettiva, ma mantengono una loro funzione: ottenere un codice di registrazione pubblico (il codice contratto, utilizzato come vero e proprio “bollino pubblico”) che consente a soggetti scarsamente rappresentativi di accedere al mercato parallelo dei servizi (sicurezza, formazione, welfare) mediante enti bilaterali e organismi contrattuali riconosciuti. Una rendita istituzionale più che una reale funzione negoziale.

 

Sul punto, una recente ricerca di ADAPT (“Fare contrattazione nel terziario di mercato”, 2025), dimostra non solo la sovrabbondanza di contratti, ma anche il divario salariale e contributivo che ne deriva. Dei 37 contratti realmente applicati nel settore, solo 18 sono sottoscritti da CGIL, CISL e UIL, ma coprono il 96% dei lavoratori. I rimanenti 19 generano differenziali retributivi che possono oscillare tra i 3.000 e gli 8.000 euro annui lordi a seconda della figura professionale, e una perdita di contribuzione previdenziale che in alcuni casi supera i 1.500 euro annui. Il macellaio specializzato passa da una retribuzione attesa di 27.800 euro a poco più di 22.000 euro annui lordi. Per un magazziniere, la perdita può arrivare a quasi 8.000 euro l’anno; per un salumiere, circa 5.000 euro. Il danno è duplice: tanto economico, quanto sociale. Perché oltre a retribuzioni più basse – che di conseguenza impoveriscono anche i trattamenti previdenziali – questi contratti offrono minori tutele in termini di malattia, maternità, ferie, maggiorazioni. Il risultato è un indebolimento delle tutele costituzionali del lavoro in una Repubblica che pure afferma di essere fondata su di esso.

 

In assenza di una legge sulla rappresentanza, è evidente che il rinnovato protagonismo delle parti sociali – come nel caso del CCNL pulizia, servizi integrati / multiservizi – può rappresentare un argine concreto contro prassi antisistema. Ma serve anche una politica del lavoro che riconosca e sostenga la contrattazione collettiva fondata sulla rappresentatività effettiva degli interessi dei lavoratori e non sulla mera registrazione formale di un testo contrattual magari scritto in qualche studio professionale e non esito di una vera trattativa tra attori contrapposti. In gioco non c’è solo la tutela del lavoro ma la stessa coesione del nostro sistema sociale a partire dalla qualità e produttività del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@MicheTiraboschi  

 

*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 25/2025

 

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? (Parte II) – Un quadro ragionato della reportistica ufficiale

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? (Parte II) – Un quadro ragionato della reportistica ufficiale

Bollettino ADAPT 30 giugno 2025, n. 25

 

Dal luglio 2016 il Ministero del Lavoro pubblica mensilmente un report di monitoraggio dei contratti collettivi di produttività. Questo strumento rappresenta, allo stato, l’unica fonte istituzionale di cui disponiamo per comprendere l’evoluzione degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione ai quali i contratti collettivi aziendali o territoriali legano la corresponsione dei premi di risultato nonché i criteri di individuazione delle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili di impresa. I report ministeriali si limitano tuttavia a una descrizione quantitativa del fenomeno, indubbiamente utile a tracciare alcune tendenze nel tempo del fenomeno ma non per entrare in profondità nei contenuti e tanto meno nella operatività degli accordi in questione.

 

Tali monitoraggi si basano sull’obbligo di deposito di detti contratti, da parte delle imprese, introdotto dall’articolo 14 del decreto legislativo n. 151 del 2015 come condizione per accedere agli incentivi previsti dalla legge n. 208/2015, articolo 1, commi 182-189 (sul tema si rinvia a G. Comi, M. Tiraboschi, Parte I – La normativa di incentivazione).
Nel tempo, il contenuto dei report si è ampliato. Oltre ai contratti legati alla misura di detassazione dei premi di risultato, dal 2018 vengono incluse anche intese che accedono ad altri tipi di agevolazioni, come la decontribuzione prevista dal Decreto Interministeriale 12 settembre 2017 per la conciliazione vita-lavoro e la contrattazione di prossimità disciplinata dal D.L. 138/2011. Nel presente contributo intendiamo concentrarci sulla prima sezione della reportistica ministeriale, relativa alla detassazione del premio di risultato, per offrire un quadro sintetico dell’andamento di questa forma di contrattazione di produttività in Italia tra il 2016 e il 2024.

 

Da una lettura longitudinale della reportistica, i dati mostrano una diffusione significativa del fenomeno nel periodo di vigenza della norma incentivante, per un totale di 108.546 contratti depositati al 15 maggio 2025, in netta crescita rispetto ai 17.318 depositati nel primo anno di attuazione della normativa (dicembre 2016). In origine, i report operavano una mera distinzione tra accordi aziendali e territoriali e si limitavano peraltro a registrare solo tre dei cinque obiettivi previsti dalla normativa per l’erogazione dei premi di risultato (produttività, redditività, qualità), escludendo efficienza e innovazione.

 

Contratti collettivi depositati (2016-2024)

 

2016

2017

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

Unità

15.592

23.404

35.038

47.817

56.091

63.958

73.566

84.226

97.502

 

A partire dal giugno 2017, si assiste ad una svolta nei monitoraggi, perché si cominciano a evidenziare i contratti ancora “attivi” al momento della pubblicazione del report.

Questo dato ci restituisce l’immagine di un fenomeno dalla portata più contenuta, che all’inizio delle rilevazioni si attestava in media su 12.794 contratti attivi per l’anno 2018, mentre secondo l’ultimo monitoraggio si ferma a 13.042 unità (15 maggio 2025). Si consideri peraltro che negli anni di monitoraggio non si è mai superata la quota di 14 mila contratti attivi in media per ciascun anno (picco di 17.937 contratti attivi alla data del dicembre 2019). Pertanto, questo cambiamento nella reportistica ha sì migliorato la precisione dell’analisi, ma ha reso più difficile confrontare i dati con quelli precedenti. I report più datati, inoltre, risentono del “periodo transitorio” di avvio del sistema (contratti firmati nel 2015 depositati nel 2016), con un impatto negativo sulla loro affidabilità statistica.

 

Contratti collettivi attivi (2018-2024)

 

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

Unità

12.794

14.133

12.148

10.700

9.654

10.972

13.761

 

Se si pone l’attenzione sugli obiettivi cui viene legata l’erogazione dei premi di risultato, notiamo come, nell’evoluzione temporale dei monitoraggi, la produttività sia rimasta l’obiettivo più frequentemente indicato sul totale dei contratti attivi (79% nel dicembre 2018 e 81% nel dicembre 2024). Eppure, questo dato, preso singolarmente, non è sufficiente a restituire la complessità delle dinamiche aziendali, a maggior ragione se si considera che tutt’oggi si continua a monitorare soltanto l’andamento di tre obiettivi (produttività, redditività e qualità). Efficienza ed innovazione vengono invece ancora tralasciate senza giustificazione alcuna, mentre crediamo che in un’ottica di controllo della crescita e sostenibilità aziendale a lungo termine sia fondamentale verificare se e quante imprese investono in questi fattori.

 

Obiettivi predeterminati per l’erogazione del premio di risultato (2018-2024)

 

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

Produttività

10.088

11.031

9.485

8.482

7.622

8.630

11.020

Redditività

7.530

8.177

7.191

6.517

5.844

6.621

8.599

Qualità

6.222

6.693

5.589

5.051

4.901

5.583

6.905

 

Per quanto riguarda la distribuzione territoriale del fenomeno, dal marzo 2018 i dati dei report vengono disaggregati per macro-area geografica (Nord, Centro, Sud), consentendoci di evidenziare una netta concentrazione territoriale dei contratti nel Nord Italia (oltre il 70%). Tuttavia, si segnala una criticità metodologica, poiché la localizzazione fa riferimento alla sede legale (coincidente con la Direzione Territoriale del Lavoro presso cui si deposita il contratto) e non alla sede operativa, che sarebbe invece un parametro più utile per misurare l’impatto effettivo di produttività e premi (come osservato in J. Sala, M. Tiraboschi, Contrattazione aziendale: il problema della “localizzazione” degli accordi). Possiamo comunque accertare la tendenza costante a stipulare contratti di produttività nell’area settentrionale del Paese, indubbiamente condizionata anche dalla presenza di un maggior numero di imprese registrate in quelle regioni (il 28,7% nel Nord-ovest e il 22,7% nel Nord-est, dati ISTAT 2023).

 

Distribuzione territoriale (2018-2024)

 

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

Nord

75%

77%

79%

76%

72%

72%

74%

Centro

17%

15%

15%

16%

19%

18%

16%

Sud

8%

7%

7%

8%

10%

10%

10%

 

Un altro aspetto interessante che è rimasto abbastanza stabile nel tempo riguarda la diffusione del fenomeno per dimensione delle imprese: la maggior parte dei contratti è sottoscritta da aziende con meno di 50 dipendenti (51% nel 2018 e 47% nel 2024, per una media del 49% negli anni). È questo un dato che sfata la diffusa percezione secondo cui solo le grandi imprese praticherebbero la contrattazione di secondo livello: le imprese sopra i 100 dipendenti coprono in realtà il 36% in media dei contratti. Ad ogni modo, se paragoniamo questo dato con quello della composizione del tessuto imprenditoriale italiano ci appare chiaro come le piccole-medie imprese siano sotto-rappresentate, costituendo la quasi totalità delle aziende registrate in Italia (99,6% secondo dati ISTAT, 2021).

 

Distribuzione per dimensione aziendale (2018-2024)

 

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

< 50

51%

51%

54%

53%

46%

43%

47%

>=100

34%

34%

32%

33%

38%

41%

38%

50-99

15%

15%

14%

14%

16%

16%

15%

 

Quanto al settore economico, i report rivelano che sussiste una prevalenza continua dei contratti stipulati nei Servizi (59% nel 2018 e 60% nel 2024), un dato in linea con il peso di questo comparto nell’economia italiana (69,6% secondo dati ISTAT, 2021) nonché con la rilevanza data al dialogo sociale nel settore. Seguono l’Industria (39%) e l’Agricoltura (1%).

 

Distribuzione settoriale (2018-2024)

 

2018

2019

2020

2021

2022

2023

2024

Servizi

59%

56%

54%

56%

59%

60%

60%

Industria

40%

43%

45%

43%

40%

40%

39%

Agricoltura

1%

1%

1%

1%

1%

1%

1%

 

In aggiunta, i report pubblicati dal 2019 in poi riportano anche il numero stimato dei lavoratori coinvolti. Se nel 2020 la quota si attestava sotto i 3 milioni, nel 2024 raggiunge i 4 milioni nel 2024, su un totale di 15 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato. Ciò significa che oggigiorno il 26,4% dei dipendenti potenzialmente coinvolti può beneficiare di un premio di risultato legato alla produttività aziendale.

 

Lavoratori beneficiari (2020-2024)

 

2020

2021

2022

2023

2024

Unità

2.735.146

2.681.477

2.923.605

3.402.450

4.052.172

 

Inoltre, adottando il punto di vista dell’impatto del fenomeno sul lavoratore, appare importante la rilevazione del valore medio annuo del premio di risultato, il quale passa da un valore iniziale di 1.296,58 euro alla quota di 1.494,12 euro nel 2024. Il riferimento a questo dato è inedito e ci consente di cogliere come il fenomeno possa migliorare la condizione retributiva dei lavoratori. Tuttavia, va ricordato che questi dati si basano su autodichiarazioni aziendali (contenute nei modelli di deposito), senza controlli qualitativi sui testi dei contratti, e vanno quindi letti con cautela.

 

Stima del valore annuo del premio (2020-2024)

 

2020

2021

2022

2023

2024

Valore in euro

1.296,58

1.328,98

1.505,94

1.529,63

1.494,12

 

Infine, si segnala che il 2021 segna un forte calo nel numero dei contratti attivi e dei beneficiari, che influisce su ciascuno dei parametri di lettura individuati finora. Verosimilmente la decrescita si lega agli effetti della pandemia – come già rilevato in un Rapporto INAPP del 2022(AP. Paliotta, M. Resce, Il premio di risultato nella contrattazione collettiva) – ed invero si è dovuto attendere il periodo tra il 2022 e 2024 per assistere a una graduale ripresa, anche se su certi fronti non ancora sufficiente ad un ritorno pieno dei livelli del 2019.     

 

Il quadro finale che emerge da questa lettura trasversale dei report ministeriali restituisce un’immagine poco nitida del fenomeno, viziata dall’assenza di dati importanti, quali la rilevazione di tutti e cinque gli obiettivi a cui la legge collega l’erogazione del premio di risultato e il difetto di precisione nella localizzazione delle aziende sottoscriventi gli accordi. D’altro canto, i report non ci consentono di conoscere a quanto ammonta l’effettivo importo del premio guadagnato dai lavoratori a consuntivo delle verifiche sui risultati aziendali.

Nell’operazione di monitoraggio in generale pesa anche l’assenza di una valutazione approfondita della efficacia o meno delle misure pubbliche a sostegno della contrattazione di produttività.

 

In conclusione, la reportistica ministeriale offre uno strumento prezioso per osservare le dinamiche della contrattazione di produttività, ma dalla sua analisi emerge la necessità di un monitoraggio più accurato e di un’attenzione maggiore ai contenuti effettivi degli accordi aziendali, oltre che una maggior capacità di cogliere l’effettiva incidenza delle misure. I dati analizzati mostrano infatti una carenza di sistematicità nell’elaborazione dei monitoraggi – come già segnalato dal CNEL nei suoi Rapporti sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva. Per orientare meglio le politiche di incentivazione, occorre investire in una rilevazione più sistematica e qualitativa, capace di restituire un quadro più fedele delle trasformazioni in atto nei luoghi di lavoro, soprattutto in un contesto economico in cui la produttività del lavoro, la partecipazione finanziaria e la qualità della contrattazione aziendale sono tornate al centro del dibattito politico e istituzionale (si veda la recentissima Legge n. 76/2025 sulla partecipazione dei lavoratori).

 

Giulia Comi

PhD Candidate – ADAPT Università di Siena

@giulphil

 

* Le tabelle presenti nel testo sono realizzate attraverso la rielaborazione personale dei dati contenuti nei Report deposito contratti ex art. 14 del d.lgs. 151/2015, sezione prima, pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, pubblicati nel periodo intercorrente fra 2016 e 2024.

 

Dalla norma alla sua attuazione: la partecipazione dei lavoratori passa ora dalla conoscenza della legge e dalla formazione di operatori sindacali e responsabili del personale

Dalla norma alla sua attuazione: la partecipazione dei lavoratori passa ora dalla conoscenza della legge e dalla formazione di operatori sindacali e responsabili del personale

 

Bollettino ADAPT 16 giugno 2025, n. 23

 

Lo scorso 10 giugno è entrata in vigore la legge n. 76/2025, recante “Disposizioni per la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese”. Una legge attesa da quasi ottanta anni con cui vengono specificati forme, modi e limiti del diritto costituzionale dei lavoratori di collaborare alla gestione delle imprese (si vedano i contributi raccolti in M. Tiraboschi,Primo commento alla legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratoriADAPT University Press, 2025).

 

Il dibattito che ha accompagnato l’iter parlamentare di approvazione della legge è stato particolarmente aspro, ampiamente polarizzato tra chi la definisce nei termini di un cambio di paradigma nel nostro sistema di relazioni industriali, da sempre molto conflittuale, e chi, al contrario, ne ha denunciato la portata puramente simbolica, una legge bandiera priva di vincoli per imprese e datori di lavoro.

 

A livello politico e nazionale il confronto sul tema resta decisamente acceso e marcatamente ideologico.

 

Tuttavia, chi ha avuto modo di registrare le opinioni di imprese, consulenti e sindacalisti di prossimità, nota come la questione che sta emergendo in modo silenzioso è quella di una migliore conoscenza della legge, dei suoi tecnicismi e delle modalità per attuarla anche alla luce di quanto sperimentato in non poche iniziative pilota. Non che la partecipazione dei lavoratori sia ancora largamente diffusa e tuttavia i periodici report del Ministero del lavoro sugli accordi depositati ex art. 14, d.lgs. n. 151/2015 segnalano una discreta diffusione dei piani di partecipazione dei lavoratori nella organizzazione del lavoro (ex articolo 4 del decreto interministeriale 25 marzo 2016) che oscillano negli anni tra il 10 e il 15 per cento del totale rispetto al totale della c.d. contrattazione di produttività intesa in senso lato.

 

Non mancano dunque prassi, buone pratiche e iniziative pilotaQuello che manca, se mai, è la loro conoscenza e diffusione anche per offrire a imprese, consulenti e operatori sindacali preziosi benchmark e indicatori utili a rompere i pregiudizi e verificare in termini pragmatici le opportunità offerte dalla nuova legge. 

 

Vero anche che, in non pochi casi, proprio i responsabili del personale e gli stessi operatori sindacali denunciano una conoscenza della legge ancora generica e superficiale. Eppure è proprio qui che si gioca, oggi, la vera partita: capire cioè come funzionano le nuove commissioni paritetiche, come si accede agli incentivi economici che accompagnano il provvedimento, come si costruisce un piano di azionariato dei dipendenti, come si attivano le diverse forme di partecipazione previste: gestionale, economica, organizzativa e consultiva.

 

L’esperienza di questi mesi (e anche iniziative informative e formative che come ADAPT abbiamo messo in campo) mostra che chi opera nelle relazioni industriali non cerca più solo “la filosofia della partecipazione”, ma competenze reali per governarla e implementarla.

 

Di tutto questo è consapevole lo stesso legislatore, che all’art. 12 della legge n. 76/2025 ha introdotto un obbligo formativo di almeno dieci ore annue per tutti i lavoratori coinvolti nelle pratiche partecipative. Una formazione che deve essere duplice: per la partecipazione, ossia tecnica e professionalizzante (giuridica, economica, organizzativa); e sulla partecipazione, per coltivare una cultura istituzionale e contrattuale condivisa, condizione indispensabile per trasformare la norma in prassi.

 

Chi scrive segue il tema da svariati anni e, grazie all’osservatorio fareContrattazione ha potuto raccogliere (in una banca dati di oltre 5.000 contratti decentrati) testi contrattuali e monitorare buone pratiche. In chiave di fundraising, per finanziare le borse di studio della nostra Scuola di alta formazione, abbiamo pertanto pensato opportuno condividere questa prima mappatura e offrire un percorso formativo finalizzato a tradurre in indicazioni pratiche e operative i precetti di legge. Il corso si terrà giovedì 19 giugno 2025, alle ore 10.00 ed è possibile iscriversi attraverso questo link.

 

Ilaria Armaroli

Ricercatrice ADAPT Senior Fellow
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Giorgio Impellizzieri

Assegnista di ricerca Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – ADAPT Senior Fellow

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/270 – L’accordo di rinnovo del CCNL Energia e Petrolio: tra aumenti economici e novità normative

Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/270 – L’accordo di rinnovo del CCNL Energia e Petrolio: tra aumenti economici e novità normative

 La presente analisi si inserisce nei lavori della Scuola di alta formazione di ADAPT per la elaborazione del

Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia.

Per informazioni sul rapporto – e anche per l’invio di casistiche e accordi da commentare –

potete contattare il coordinatore scientifico del rapporto al seguente indirizzo: tiraboschi@unimore.it

 

Bollettino ADAPT 19 maggio 2025, n. 19

 

Contesto del rinnovo

 

Il 16 aprile 2025 è stato sottoscritto il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i lavoratori dell’Industria dell’Energia e del Petrolio, scaduto il 31 dicembre 2024. L’intesa è stata raggiunta tra Confindustria Energia, in rappresentanza della parte datoriale, e le organizzazioni sindacali FILCTEM-CGIL, FEMCA-CISL e UILTEC-UIL, e sarà in vigore dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2027.

 

Il contratto coinvolge circa 40.000 lavoratori e 34 imprese operanti in un ampio spettro di attività strategiche per il sistema energetico nazionale: dall’esplorazione e produzione di idrocarburi alla raffinazione, dalla distribuzione e vendita di prodotti petroliferi al trasporto e rigassificazione del gas, fino alla cogenerazione, produzione di energia elettrica e attività di ricerca su fonti fossili e rinnovabili, nonché alla logistica integrata.

 

Il rinnovo si inserisce in un quadro contrattuale dinamico, distinguendosi per la rapidità con cui è stato raggiunto: a meno di due mesi dall’avvio ufficiale delle trattative, avvenuto il 26 febbraio 2025. Le Parti hanno affrontato il negoziato con senso di responsabilità e attenzione congiunta alla dimensione sociale e industriale, con la consapevolezza che il CCNL debba essere uno strumento stabile e aggiornato capace di rispondere alle esigenze dei lavoratori e delle imprese in un contesto economico caratterizzato da forti elementi di incertezza e trasformazione.

 

Parte economica

 

L’ipotesi di rinnovo per il triennio 2025–2027 introduce un incremento del TEM pari a 311 euro, articolato in più tranche.

 

In particolare, 134 euro sono destinati al recupero dello scostamento inflattivo registrato nel biennio 2022–2023 (in aggiunta a quanto già previsto dall’accordo del 31 luglio 2024), e verranno corrisposti entro il primo trimestre del 2025 con le seguenti modalità: 100 euro di aumento sui minimi, erogati a partire da gennaio 2025, e 34 euro a titolo di EDR IPCA (Elemento Distinto della Retribuzione) da marzo 2025.

 

Gli adeguamenti retributivi relativi al nuovo periodo di vigenza contrattuale, subordinatamente all’approvazione dell’ipotesi di accordo da parte delle assemblee dei lavoratori, seguiranno le seguenti decorrenze: 30 euro sui minimi da dicembre 2025; 20 euro sui minimi e 7 euro sull’EDR da gennaio 2026; 55 euro sui minimi da luglio 2026; 65 euro sui minimi da luglio 2027.

 

Infine, il rinnovo contrattuale prevede altresì un rafforzamento del sistema di assistenza sanitaria integrativa attraverso un incremento di 5 euro mensili del contributo al Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa FASIE, con l’obiettivo di potenziare le tutele sanitarie a favore dei lavoratori del settore.

 

Parte normativa

 

Il rinnovo contrattuale per il triennio 2025–2027 introduce un pacchetto articolato di novità normative che rispondono alle trasformazioni del contesto produttivo, sociale e tecnologico, con l’obiettivo di rafforzare la tutela del lavoro, promuovere l’equità, valorizzare le competenze e migliorare le condizioni complessive del personale del settore.

 

Innanzitutto, viene modificata la disciplina relativa al contratto di lavoro a tempo determinato, stabilendo che la sua durata sia di 12 mesi, in conformità alla normativa vigente. Le parti, tuttavia, concordano sull’istituzione di una commissione bilaterale incaricata di definire, entro dicembre 2025, le condizioni previste dall’art. 19, comma 1, lettera a) del d.lgs. 81/2015. Fino a suddetta data, le parti condividono la possibilità di apporre un termine sino a 24 mesi ai contratti a tempo determinato per “aumentate esigenze temporanee connesse allo svolgimento di attività specifiche e determinate, anche connesse alla realizzazione di commesse/progetti/impianti”.

 

Un’altra delle innovazioni di maggiore rilievo è l’esclusione dal computo del periodo di comporto per i lavoratori affetti da patologie oncologiche e degenerative. La misura, coerente con un approccio di maggiore attenzione al benessere e alla dignità delle persone, mira a garantire la continuità occupazionale per i lavoratori che affrontano situazioni sanitarie particolarmente complesse, garantendo così al lavoratore la conversazione del posto di lavoro oltre i limiti temporali previsti dal CCNL.

 

Il contratto interviene inoltre sulla disciplina delle ferie, anticipando il periodo di maturazione per l’accesso al successivo scaglione di ulteriori cinque giorni di ferie per gli addetti del settore. Il requisito di anzianità, precedentemente fissato a sette anni, viene ridotto a cinque anni a partire dalla vigenza del nuovo accordo, e sarà ulteriormente anticipato a tre anni a decorrere dal 1° gennaio 2028.                                                                                         In parallelo, viene regolamentato in modo più strutturato l’istituto della cessione a titolo gratuito delle ferie eccedenti le quattro settimane, promuovendo la solidarietà interna nei luoghi di lavoro e rafforzando le misure di sostegno ai lavoratori in condizioni di fragilità sociale o familiare. Infatti, il nuovo contratto stabilisce che i lavoratori possano cedere volontariamente le proprie ferie residue ad altri colleghi che si trovino in particolari situazioni di bisogno, quali: genitori di figli minori che necessitano di cure costanti, genitori di figli maggiorenni affetti da gravi patologie, donne vittime di violenza. Il CCNL specifica la procedura da seguire per l’attivazione di tale istituto, con la possibilità di definire ulteriori modalità regolative in sede aziendale.

 

Il rinnovo dedica una parte centrale alla formazione, riconosciuta come leva strategica per la competitività del settore e per l’occupabilità dei lavoratori. A tal fine, viene istituito il libretto formativo del lavoratore, uno strumento che certifica le competenze acquisite sia tramite percorsi formativi sia attraverso esperienze professionali maturate nel tempo. Questo strumento dovrà diventare uno strumento di certificazione della formazione eseguita dal singolo lavoratore e quindi esigibile ed utilizzabile anche per la valorizzazione dei processi di accrescimento professionale ed operativo utili alla determinazione delle schede di valutazione ai fini del CREA. Viene inoltre promossa la diffusione della formazione su temi di diversity, equity e inclusion, nonché la formazione congiunta di HSE manager, RSPP, ASPP, RLSA sui temi di salute e sicurezza, dunque favorendo il confronto e la condivisione di esperienze fra tutti i soggetti coinvolti sul tema.

 

Il nuovo contratto, inoltre, aumenta il monte ore annuo di permessi a disposizione dell’RLSA per svolgere le funzioni del ruolo, alzandolo da 72 a 80 ore e introduce l’RLSA di sito, definito anche RLSP, con l’obiettivo di rafforzare il presidio della salute e sicurezza nei contesti produttivi complessi. A tale figura viene riconosciuto un ampliamento delle ore annue a disposizione, che passano da 16 a 24, e un ruolo rafforzato nella partecipazione ai processi aziendali legati alla prevenzione, alla formazione e alla gestione del rischio. Come specificato dal rinnovo stesso, infatti il RLSP potrà intervenire nelle riunioni di coordinamento, confrontarsi con la funzione HSE del sito per l’approfondimento di tematiche specifiche, accedere ai luoghi di lavoro e ai documenti relativi alla valutazione dei rischi del sito, nonché collaborare con le altre figure della rappresentanza alla sicurezza e ricevere informazioni su eventuali ispezioni o verifiche da parte degli organi di vigilanza.

 

Parallelamente, viene introdotta la figura del Rappresentante per la Diversity, Equity & Inclusion, con il compito di promuovere politiche aziendali improntate all’inclusione, al rispetto delle pari opportunità e al superamento di eventuali discriminazioni, con un’attenzione specifica al monitoraggio e al contrasto del divario salariale di genere. Questa nuova figura si inserisce nel più ampio impegno contrattuale verso la costruzione di ambienti di lavoro equi, diversificati e inclusivi.

 

Nella direzione di garantire la giusta attenzione per i lavoratori, sono state migliorate le previsioni contrattuali in materia di orario di lavoro. Le parti, infatti, hanno concordato una riduzione dell’orario di lavoro per i turnisti, prevedendo una riduzione del numero annuo di giornate lavorative, che passa da 231,5 a 231 giornate annue. Inoltre, è stato prevista la trasformazione di due mezze giornate in due giornate intere di permesso per il 24 e 31 dicembre.

 

Ancora, il diritto allo studio viene ulteriormente potenziato ed esteso, riconoscendo a un numero maggiore di lavoratori la possibilità di richiedere permessi retribuiti. Viene inoltre promossa la genitorialità, incentivando la stipula di accordi aziendali che prevedano condizioni più favorevoli rispetto a quanto stabilito dalla normativa vigente. In materia di disabilità, si favorisce l’adozione di accomodamenti ragionevoli per garantire alle persone con disabilità una piena parità di trattamento rispetto agli altri lavoratori.

 

Infine, viene istituita una commissione paritetica con il compito di valutare la coerenza e l’adeguatezza dell’attuale sistema classificatorio. L’obiettivo è definire un nuovo modello capace di riconoscere e valorizzare le competenze emergenti, le nuove professionalità e le trasformazioni organizzative in atto nel settore, rendendo il sistema di inquadramento più flessibile e orientato al futuro.

 

Parte obbligatoria

 

Nel rinnovo del CCNL Energia e Petrolio 2025–2027, la premessa è stata ampiamente rivista, assumendo un tono strategico e programmatico che riflette la complessità del contesto attuale. Le parti hanno sottolineato come il contratto venga rinnovato in una fase storica segnata da profonde trasformazioni: la crisi energetica internazionale ha messo in luce la fragilità del sistema europeo e nazionale, mentre la transizione verso un’economia decarbonizzata e la rivoluzione digitale stanno ridefinendo profondamente l’organizzazione del lavoro. In questo scenario, al centro del cambiamento viene posta la persona, riconosciuta non più come semplice esecutore ma come attore consapevole e partecipe delle trasformazioni.

 

Il contratto ha quindi rafforzato il ruolo della partecipazione dei lavoratori, riaffermandone l’importanza tanto sul piano organizzativo quanto su quello strategico. In coerenza con i principi del Patto per la Fabbrica del 2018, che ha ridefinito il modello contrattuale italiano valorizzando il secondo livello di contrattazione e il ruolo attivo delle parti sociali, il CCNL riconosce la necessità di consolidare strumenti e sedi di confronto che permettano ai lavoratori e alle loro rappresentanze di contribuire in modo consapevole alle scelte aziendali fondamentali. In un contesto segnato da profonde trasformazioni legate all’innovazione tecnologica, alla digitalizzazione e alla transizione ambientale, le parti hanno rilanciato con decisione il tema della bilateralità e del dialogo strutturato tra rappresentanze datoriali e sindacali, con l’obiettivo di costruire un sistema partecipativo.

 

Interessante, infine, come le parti, riconoscendo la complessità della questione e le recenti trasformazioni organizzative, abbiano deciso di istituire una commissione bilaterale con il compito di esaminare le specificità dei lavoratori con contratto estero, concentrandosi sulla tutela dei diritti sindacali, sulle forme di rappresentanza, nonché sulle modalità di comunicazione e accesso alle informazioni sindacali. L’obiettivo è identificare soluzioni condivise che garantiscano un’adeguata protezione e valorizzazione del loro ruolo nel contesto internazionale.

 

Valutazione d’insieme

 

Nel suo impianto normativo complessivo, il rinnovo del CCNL Energia e Petrolio adotta un approccio pragmatico e inclusivo, orientato a rafforzare il legame tra persone e imprese. Le Parti firmatarie hanno definito una serie di strumenti finalizzati a rendere l’organizzazione del lavoro sempre più attenta alle esigenze sociali, con particolare riguardo ai lavoratori fragili, ai giovani e al benessere complessivo dei dipendenti. In questa direzione si collocano misure significative, come l’esclusione del periodo di comporto per i lavoratori affetti da patologie oncologiche, il potenziamento delle tutele in materia di orario di lavoro e l’anticipo, dal settimo al quinto anno di anzianità, dell’accesso al nuovo scaglione di ulteriori cinque giorni di ferie. A completare il quadro, l’incremento delle risorse destinate al Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa FASIE, che testimonia l’impegno a rafforzare il welfare contrattuale, nella prospettiva di una maggiore sostenibilità sociale e coesione all’interno del settore.

 

Alice Cireddu

Apprendista di ricerca presso Edison S.p.A.

 

Retribuzioni contrattuali in crescita nel primo trimestre del 2025

Retribuzioni contrattuali in crescita nel primo trimestre del 2025

Bollettino ADAPT 12 maggio 2025 n. 18

 

Sono del 29 aprile i dati Istat relativi all’andamento delle retribuzioni contrattuali nel primo trimestre del 2025, dai quali emerge un graduale miglioramento della dinamica retributiva in Italia, con incrementi sia congiunturali che tendenziali. A livello di trimestre, nel complesso dell’economia, le retribuzioni crescono dell’1% rispetto al periodo precedente e del 3,9% su base annua.

 

Restringendo l’analisi a marzo 2025, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie mostra un aumento dello 0,4% rispetto a febbraio e del 4% rispetto a marzo dell’anno scorso. La crescita tendenziale risulta poi particolarmente robusta nel settore privato (+4,7%), con un incremento delle retribuzioni contrattuali orarie del 4,9% nell’industria e del 4,3% nei servizi.

 

Andando a guardare i singoli comparti, spiccano incrementi tendenziali significativi nell’alimentare (+7,8%), nella metalmeccanica (+6,3%), nel commercio (+6,1%) e nella DMO (+6%). Variazioni più contenute si osservano invece nei servizi di informazione e comunicazione (+0,4%), nel settore della gomma-plastica (+0,8%) e nel comparto chimico (+1%).

 

Le proiezioni dell’indice delle retribuzioni contrattuali indicano un ulteriore miglioramento della dinamica retributiva, con un incremento del 2,6% per il periodo aprile-settembre 2025 e con una crescita media annua che dovrebbe attestarsi intorno al 2,7%.

 

Va tuttavia sottolineato come la dinamica retributiva, pur mostrando segnali positivi, risenta ancora degli effetti dell’inflazione. Tra gennaio 2021 e marzo 2025, le retribuzioni contrattuali nel settore privato sono aumentate del 10,6% in termini nominali; tuttavia, tenendo conto della crescita dei prezzi al consumo, il potere d’acquisto dei lavoratori si è ridotto del 6,8%. Negli ultimi mesi la dinamica dei prezzi ha rallentato, ma l’impatto del picco inflazionistico registrato tra il 2022 e il 2023 continua a pesare, comprimendo significativamente i benefici degli aumenti salariali.

 

Emergono anche dati interessanti sul fronte della copertura contrattuale: a fine marzo risultano in vigore 40 contratti collettivi che regolano il trattamento economico di circa 6,9 milioni di dipendenti, corrispondenti al 50,7% del monte retributivo complessivo nazionale. Nel settore privato, la copertura raggiunge il 65,9%, con variazioni importanti tra i diversi comparti: 100% in agricoltura, 42,4% nell’industria e 84,6% nei servizi privati.

 

A marzo 2025, la quota di dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale è pari al 47,3%, in calo rispetto al mese precedente (48,5%) ma in aumento rispetto a marzo 2024 (34,9%). Nel settore privato, la quota si abbassa al 32,6%, in diminuzione rispetto a febbraio (34,2%) ma significativamente superiore rispetto all’anno precedente (16,7%).

 

In generale, i dati Istat segnalano un rafforzamento della dinamica retributiva, soprattutto nel settore privato dove gli aumenti contrattuali riflettono gli sforzi della contrattazione collettiva. Il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali resta tuttavia inferiore ai livelli pre-inflazione. Il rallentamento della crescita dei prezzi e le previsioni sulla dinamica retributiva per il 2025 offrono comunque segnali incoraggianti, così come il miglioramento della copertura contrattuale.

 

Jacopo Sala
ADAPT Research Fellow

@_jacoposala

 

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? (Parte I) – La normativa di incentivazione

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? (Parte I) – La normativa di incentivazione

Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17

 

Da un punto di vista fisiologico tutto il processo di contrattazione collettiva persegue, più o meno direttamente, obiettivi di produttività. Non è tuttavia sempre chiaro, neppure tra gli operatori e gli attori del nostro sistema di relazioni industriali, cosa si intenda con il termine «produttività» (vedi P. Tomassetti, Di cosa parliamo quando parliamo di produttività?, in Bollettino ADAPT dell’8 marzo 2017) e, soprattutto, come questo obiettivo venga di fatto perseguito tanto dalle parti sociali che dal legislatore. È pertanto opportuno, periodicamente, fare il punto della situazione su una tematica così centrale per la crescita e, conseguentemente, anche per i relativi processi redistributivi che in Italia, come mostra il trascinarsi da decenni della questione salariale, non trovano allo stato risposte soddisfacenti (vedi già le osservazioni critiche raccolte in Contrattazione e produttività: analisi e proposte del gruppo FareContrattazione, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016).

 

In questa direzione un primo contributo, oggetto di questo breve intervento, può essere rivolto alla normativa di sostegno e incentivazione economica alla contrattazione di produttività intesa in senso lato. Non fosse altro per tornare a ribadire, come gruppo di ricerca di ADAPT, l’assenza nel nostro Paese di un affidabile sistema di monitoraggio e verifica degli effetti delle ingenti risorse pubbliche destinate a questo obiettivo attraverso il sostegno della contrattazione di secondo livello.

 

All’obbligo di deposito del testo contrattuale, come condizione per il godimento del beneficio fiscale o contributivo, non fa infatti seguito alcun monitoraggio di tipo qualitativo, tanto a livello macro che micro, sugli effetti delle misure di incentivazione. Nessun attore istituzionale ha sviluppato analisi sistematiche sui testi contrattuali e anche i soggetti che seguono, attraverso una periodica reportistica, la materia della contrattazione aziendale non hanno sin qui realizzato vere e proprie indagini campionarie sul fenomeno, seppure tutti convengano che i nodi del nostro sistema di relazioni industriali restino quelli della bassa produttività e dei bassi salari. A mancare è anche la chiarezza sulle diverse misure e sui rispettivi obiettivi fissati dal legislatore.

 

Il fenomeno non ha origini recenti. Accanto a isolate esperienze aziendali e settoriali (vedi diffusamente il numero monografico di Diritto delle Relazioni Industriali del 1991 sulla retribuzione ad incentivi) il tema entra a pieno titolo nella riforma degli assetti contrattuali avviata con il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 che assegna al livello decentrato la funzione di stabilire «erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa».

 

È tuttavia il rapporto finale del 1997 della Commissione incaricata del monitoraggio del protocollo del 1993 a segnalare persistenti limiti allo sviluppo della contrattazione aziendale e la difficoltà nel nostro Paese di avviare una vera contrattazione di produttività. Nel rapporto si legge, in particolare: «viene unanimemente riconosciuto che questo assetto contrattuale ha conseguito, in larga misura, gli obiettivi che si era prefisso in termini macroeconomici. In particolare, il contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) ha garantito le retribuzioni in termini reali redistribuendo anche, a seconda dei settori o dei comparti, una quota della produttività prodotta dal sistema. Questo risultato si è combinato con un più stretto controllo a livello centrale della contrattazione decentrata finalizzato a raggiungere gli obiettivi di politica dei redditi e a difendere l’occupazione, particolarmente in una fase di ristrutturazione dell’apparato produttivo del nostro Paese. Insufficienti appaiono invece i risultati ottenuti a livello microeconomico. La contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) che doveva accrescere la variabilità della retribuzione, concorrendo così ad una maggiore flessibilità del sistema, è stata quantitativamente e qualitativamente insufficiente ed insoddisfacente, anche per la tardiva e limitata applicazione dell’incentivazione contributiva prevista. Il contratto decentrato è stato in larga misura caratterizzato da erogazioni di tipo tradizionale, non collegate a parametri oggettivi di produttività, redditività, qualità per diverse ragioni: vischiosità delle prassi precedenti, impreparazione “culturale” dei soggetti negoziali decentrati, resistenza ad allargare le materie oggetto di contrattazione (ad es., all’organizzazione del lavoro), mancanza di strutture – anche organizzative – adeguate (si pensi alla contrattazione territoriale)».

 

Da qui un ripensamento delle misure di incentivazione della contrattazione di produttività rispetto alla originaria previsione di cui al decreto legge n. 499 del 1996 che conteneva un primo esempio di incentivazione della contrattazione decentrata, stabilendo l’esclusione dalla retribuzione imponibile delle «erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, (…) delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati» (art. 5). Ulteriori sgravi contributivi erano poi stati definiti, ma anche in questo caso senza un reale impatto sulle dinamiche della contrattazione collettiva, con la legge n. 247 del 2007 che prevedeva, per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello, la decontribuzione di quelle stesse erogazioni già citate nel 1996 (si vedano in questo senso anche L. n. 92/2012, D.M. 27 dicembre 2012, circolare INPS n. 73 del 2012; per le modalità di concreta fruizione dello sgravio, invece, il messaggio INPS del 20 settembre 2013, n. 14855).

 

Una svolta si ha, almeno sul piano della tecnica normativa, soltanto a partire dal 2009 quando si stabilisce una riduzione dell’imposta Irpef e delle addizionali per le somme erogate a livello aziendale «in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa» (decreto-legge n. 93/2008, convertito poi nella L. n. 126 del 24 luglio 2008, Legge di Stabilità 2009, art. 2 co. 1 lett. c).

 

Con questa proposta, presentata in via sperimentale, viene disciplinata per la prima volta una forma di agevolazione fiscale delle somme di ammontare variabile previste per i lavoratori al livello aziendale dei contratti collettivi. In questa fase, il totale annuo detassabile si attesta su 3.000 euro ed il vantaggio viene garantito esclusivamente ai lavoratori in possesso, nell’anno precedente a quello nel quale si usufruisce della tassazione agevolata, di un reddito da lavoro dipendente inferiore a 30.000 euro. È però dal 2010 che queste misure vengono strutturate in maniera più stabile e precisa, indicando la contrattazione decentrata come sede elettiva per concordare l’erogazione di premi di risultato assoggettabili ad una tassazione di favore (aliquota del 10%). Infatti, il d.l. n. 78/2010 (art. 53, co. 1, poi convertito nella L. n. 220/2010) prescrive una vera e propria detassazione dei premi di risultato.

 

Anche nel 2011 la normativa è stata oggetto di proroghe, che non ne hanno alterato la struttura normativa ma solo le quantità economiche, ad esempio il reddito da lavoro dipendente necessario per accedere alla misura, che viene innalzato a 40.000 euro. Nel 2012 con la legge n. 183 del 2011 (legge di Stabilità 2012) questo istituto viene nuovamente prorogato abbassando però a 2.500 euro annui l’importo detassabile e stabilendo in 30.000 euro il reddito da lavoro dipendente di riferimento. Nel 2013 l’impianto normativo subisce, invece, significative modifiche migliorative: il comma 481, dell’articolo 1, della L. n. 228 del 2012 (legge di Stabilità 2013) prevede uno stanziamento pari a 950 milioni di euro nel 2013 e 600 nel 2014. Salvo poi l’anno 2015, nel quale l’agevolazione non è stata finanziata e quindi è rimasta inattiva, a partire dal 2016 il legislatore ha continuato a prorogare annualmente questi vantaggi fiscali.

 

Già in questa fase erano tuttavia persistenti le denunce circa la scarsa effettività ed efficacia della misura a partire dalla assenza di un reale meccanismo di monitoraggio. Bastava in effetti scorrere i principali accordi di detassazione sottoscritti in questa fase per rendersi conto di come il provvedimento, pur contribuendo positivamente a ridurre il peso del cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori, non avesse sostenuto veri e propri incrementi di produttività concordati a livello territoriale o aziendale. La gran parte degli accordi oggetto di analisi sono anzi risultati fotocopie l’uno dell’altro (vedi F. Fazio, M. Tiraboschi, Una occasione mancata per la crescita Brevi considerazioni a proposito della misura di detassazione del salario di produttività, in Bollettino ADAPT del 19 dicembre 2011)

 

Il quadro  non cambia con l’ultima innovazione normativa, che corrisponde alla attuale configurazione della misura, contenuta nell’articolo 1, ai commi da 182 a 191, della Legge n. 208 del 2015 (Legge di stabilità 2016) per cui – secondo le ultime modifiche apportate (si veda la Tabella 1) – «sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta, sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento (triennio 2025-2027), entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili (…), nonché le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa» (comma 182). Che questi incentivi economici non abbiano inciso in modo rilevante rispetto all’obiettivo di strutturare a livello collettivo una forma di retribuzione variabile legata ad obiettivi specifici (produttività, redditività, qualità, efficienza, innovazione) lo dimostrano le successive verifiche empiriche fatte dal gruppo di ricerca di ADAPT (vedi in particolare P. Tomassetti, Detassazione 2016: il ritorno degli accordi “fotocopia”di livello territoriale, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016) e documentate puntualmente con i Rapporti ADAPT sulla contrattazione in Italia.

 

Da qui l’urgenza di riprendere in mano il tema della contrattazione incentivata di produttività non solo per meglio capire, con ulteriori verifiche empiriche, utilità e impatto delle ingenti misure premiali previste dal Legislatore, ma anche per valutare l’esistenza di possibili soluzioni alternative ovvero l’adozione di accorgimenti tecnici utili ad ancorarle in modo più perentorio ai condivisibili obiettivi contenuti nella astratta previsione normativa.

 

Giulia Comi

PhD Candidate – ADAPT Università di Siena

@giulphil

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

 

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

Se c’è un elemento che, più di altri, concorre a valutare nel merito la qualità e lo stato di salute di un sistema di relazioni industriali questo è legato alla genuinità e trasparenza delle relative dinamiche contrattuali. Non è un caso che si richiamino regolarmente, non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nel dibattito pubblico, gli oltre mille contratti collettivi nazionali di categoria depositati al CNEL per segnalare l’estrema frammentazione e una complessiva inefficienza del nostro sistema di relazioni industriali apparentemente condizionato da centinaia di sigle di sindacali e datoriali.

 

Fondamentale, in questa prospettiva, è allora la capacità di analizzare in profondità gli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva. In Italia, tuttavia, questa conoscenza resta parziale, discontinua e spesso affidata a iniziative isolate. Non esistono studi sistematici e continuativi della contrattazione di livello nazionale e tanto meno delle forme di raccordo e coordinamento tra contrattazione nazionale e contrattazione di secondo livello. Le stesse organizzazioni sindacali sono oggi prevalentemente impegnate, coi loro rapporti periodici, nello studio della contrattazione decentrata, di cui ancora meno si conosce la valenza non essendo in questo caso neppure di facile reperimento gli stessi testi contrattuali. Questo a differenza di quanto avviene per la contrattazione nazionale che si trova agevolmente nell’archivio nazionale dei contratti del CNEL e che viene registrata, testo per testo, in due bollettini semestrali dello stesso CNEL di descrizione dei relativi contenuti essenziali.

 

Rispetto al fenomeno della contrattazione c.d. pirata l’unica fonte disponibile è, allo stato, quella offerta dalla collaborazione tra CNEL e INPS, che consente di consultare i flussi Uniemens relativi ai contratti dichiarati dai datori di lavoro per ciascun lavoratore, ai fini del calcolo dei contributi previdenziali. Si tratta di dati indubbiamente preziosi, che permettono – una volta incrociati con il repertorio contrattuale CNEL – di stimare con buona precisione il numero di imprese e lavoratori cui si applica ciascun contratto collettivo nazionale, anche con disaggregazione territoriale per province. I rapporti annuali del CNEL sul mercato e la contrattazione collettiva, pur denunciando i rischi della contrattazione in dumping, evidenziano la buona tenuta della contrattazione condotta dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Sono proprio i flussi Uniemens a documentare, anche per il biennio 2023-2024, che i (relativamente) pochi contratti sottoscritti da CGIL, CISL, UIL (circa 250 sugli oltre 1.000 depositati nell’archivio del CNEL), coprono la quasi totalità dei lavoratori. Parliamo di una copertura che supera il 96 per cento dei lavoratori italiani del settore privato, con la sola eccezione per lavoro domestico e lavoro agricolo dove questi dati ancora mancano. I restanti contratti, soprattutto quelli sottoscritti da sigle minori e spesso del tutto sconosciute, si applicano a numeri davvero residuali di lavoratori. Basti pensare che quasi 500 contratti nazionali depositati al CNEL trovano applicazione a meno di 100 addetti, davvero poca cosa per parlare di frammentazione del sistema di contrattazione collettiva e di un dilagare della contrattazione in dumping. Le finalità del deposito, in questi casi, sono evidentemente altre e riguardano benefici che gli “attori” firmatari contano di maturare rispetto alle istituzioni pubbliche più che in ragione di un reale radicamento nel sistema di relazioni industriali.

 

In realtà non pochi studiosi ed osservatori del mercato del lavoro e delle relazioni industriali continuano a esprimere, non si sa sulla base di quali motivazioni, ampie riserve sull’affidabilità dei dati offerti dai flussi Uniemens. L’obiezione più diffusa riguarda la natura dell’obbligo dichiarativo (previsto dall’art. 1, comma 1, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 1989, n. 389) secondo cui l’INPS deve utilizzare, ai fini contributivi, i minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale indicato dal datore di lavoro. Ma da ciò non deriverebbe necessariamente che tale contratto sia quello effettivamente applicato al rapporto di lavoro. Si ipotizza anzi che, in alcuni casi, le imprese possano adottare un contratto riconosciuto e firmato da organizzazioni sindacali rappresentative unicamente per determinare l’imponibile contributivo, mentre nel concreto il trattamento economico e normativo dei lavoratori sarebbe regolato da un diverso contratto – magari sottoscritto da soggetti non comparativamente rappresentativi – con condizioni meno favorevoli.

 

È in questo contesto che assume un rilievo particolare il recente studio realizzato dall’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro di Veneto Lavoro. A differenza delle analisi fondate solo sui flussi previdenziali, lo studio utilizza anche le comunicazioni obbligatorie inviate dai datori di lavoro ai servizi per l’impiego (ai sensi dell’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni dalla l. 28 novembre 1996, n. 608) in occasione di assunzioni, cessazioni, proroghe, trasformazioni, trasferimenti e distacchi. In particolare, l’analisi si concentra sulle oltre 600mila assunzioni effettuate nel 2024 da imprese private operanti sul territorio di Regione Veneto, rilevando i contratti collettivi effettivamente applicati ai nuovi rapporti di lavoro.

 

I risultati sono degni di nota. Sei CCNL, tutti riconducibili ai sistemi di relazioni industriali più consolidati, coprono da soli oltre il 50% delle assunzioni effettuate in Veneto nel 2024. Si tratta del CCNL Turismo (Federturismo), del CCNL Terziario, distribuzione e servizi (Confcommercio), del CCNL Agricoltura (Confagricoltura, Coldiretti, Cia), del CCNL Metalmeccanici (Federmeccanica), del CCNL Pubblici Esercizi/Ristorazione (Fipe) e del CCNL Multiservizi (Confindustria, Legacoop, Confcooperative). Ancora più rilevanti i dati relativi alla titolarità sindacale dei contratti: il 92,9% delle assunzioni risulta associato a contratti firmati da almeno una tra CGIL, CISL o UIL. Il 2% fa riferimento a contratti sottoscritti da sigle non confederali ma presenti al CNEL (in linea con gli stessi dati offerti dal CNEL sulla base dei flussi Uniemes), mentre meno dello 0,3% di questi contratti è riconducibile a soggetti del tutto esterni al sistema di rappresentanza istituzionale. I contratti non firmati da sindacati confederali assumono un certo rilievo in alcuni settori specifici. Nel comparto della vigilanza privata, ad esempio, oltre il 70% delle assunzioni è legato a un contratto sottoscritto dal sindacato autonomo Confsal. Un peso non trascurabile dei contratti non confederali si registra anche nell’ICT e nei servizi informatici, dove si segnala la diffusione del contratto firmato da UGL per i Centri di elaborazione dati. È da segnalare anche, per completezza, che nel settore privato la percentuale di assunzioni annue rilevata dal sistema delle comunicazioni obbligatorie che non riporta un contratto univoco ma si rifà ad una indicazione generica si aggira attorno al 5%.

 

I dati del Veneto non devono essere generalizzati in modo acritico. Si riferiscono a una sola regione – per quanto economicamente rilevante e dotata di una buona capacità amministrativa in materia di osservazione del mercato del lavoro – e non è escluso che in altri territori la diffusione della contrattazione pirata assuma proporzioni diverse. Tuttavia, proprio perché costruiti su fonti diverse da quelle previdenziali, questi dati rappresentano un importante banco di prova per valutare e confermare l’attendibilità e affidabilità delle rilevazioni Uniemens. Offrono inoltre uno spaccato concreto sulla effettiva applicazione dei contratti nei nuovi rapporti di lavoro, contribuendo a colmare un vuoto conoscitivo finora difficilmente colmabile.

 

È da analisi come queste che può prendere forma un giudizio equilibrato e documentato sulle dinamiche delle relazioni industriali in Italia. Il fenomeno della contrattazione collettiva pirata esiste, e in alcuni settori / territori è certamente rilevante. Ma non può essere indicato come l’unica, né la principale, causa della questione salariale che attraversa il nostro Paese. Le retribuzioni stagnanti, le disuguaglianze crescenti e le difficoltà di valorizzazione del lavoro non dipendono solo dall’azione o dal dumping di soggetti marginali o opachi. Richiedono, piuttosto, una riflessione più ampia sulla qualità della contrattazione collettiva, sul ruolo dei livelli territoriali e aziendali, sulla capacità di rappresentanza e sulla forza effettiva delle istituzioni del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 16/2025

 

L’accordo integrativo Everli per la regolamentazione dello “Shopper”

L’accordo integrativo Everli per la regolamentazione dello “Shopper”

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

In data 9 Aprile 2025 come FeLSA CISL, insieme a Nidil e Uiltemp, abbiamo siglato un accordo nazionale con la piattaforma digitale Everli. L’intesa si colloca nel solco dell’accordo nazionale sottoscritto con l’Associazione Assogrocery nel febbraio 2024 per la disciplina del mondo e-grocery e la regolamentazione della figura dello shopper. La figura dello Shopper opera per il tramite della piattaforma digitale, occupandosi della preparazione del carrello di prodotti ordinati on line dal cliente, provvedendo a tutte le fasi dell’acquisto, raccolta, pagamento, distribuzione e recapito presso il domicilio del cliente. In Italia sono quasi 2.000 gli shopper e operano particolarmente in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna.

 

L’intesa aziendale sottoscritta con Everli (la principale piattaforma del settore in Italia) prevede un sistema di regolamentazione aziendale che valorizza l’affidabilità, l’esperienza e la qualità del servizio degli shopper. Oltre a riprendere gli elementi definiti nell’accordo nazionale quali compenso minimo per consegna, indennità per spesa pesante, indennità di disponibilità, diritto alla sospensione dell’account, tutela della malattia e dell’infortunio, permessi e altre tutele, l’accordo prevede una serie di diritti aggiuntivi e si prefigge l’obiettivo di implementare nuove prassi nella gestione dei rapporti lavorativi.

 

Tra i punti più significativi dell’intesa annoveriamo sicuramente i diritti sindacali, prevedendo l’introduzione e l’attivazione di permessi retribuiti e un’apposita bacheca online accessibile a tutti da tutti i territori. Su questo aspetto è importante evidenziare il ruolo che le rappresentanze sindacali aziendali hanno avuto, non solo nella gestione e conduzione della trattativa, ma soprattutto nel garantire una dinamica assolutamente partecipata di tutti i lavoratori all’andamento e valutazione del negoziato. Inoltre, è diventata ordinaria l’esperienza delle assemblee sindacali serali via Telegram. Pertanto, anche nell’ambito delle piattaforme digitali è possibile costruire una vera e viva rappresentanza sindacale.

 

La contrattazione inoltre interviene anche nella gestione dell’algoritmo, andando a definire una più equa gestione della distribuzione degli incarichi, visualizzazione delle proposte e prenotazione degli slot e orari lavorativi con l’obbiettivo di contrastare la discriminazione algoritmica, valorizzando e premiando al contempo gli shopper più meritevoli. Vengono identificate due platee differenti: gli shopper Senior, ovverosia coloro che vantano un’anzianità lavorativa importante e che svolgono questa attività in via prevalente e gli shopper junior, ossia tutti coloro che hanno appena effettuato iscrizione e accesso o svolgono questa attività come secondaria. È previsto anche un percorso per gli shopper che vogliano passare da junior a senior.

 

L’accordo interviene anche sul tema del bilanciamento vita lavoro: rispetto all’accordo di settore Assogrocery, sono implementate a 34 le giornate di sospensione dell’account per motivi di bilanciamento vita-lavoro. Si prevedono infine delle visite mediche a carico della piattaforma per tutti gli shopper e una formazione dedicata per lo svolgimento dell’attività.

 

L’accordo, il primo siglato tra OO.SS. e una piattaforma digitale, oltre a rappresentare un traguardo importante nell’ambito delle relazioni sindacali e nello sviluppo della contrattazione nei nuovi settori digitali, risulta fondamentale anche per la dinamica di partecipazione, attiva e propositiva, dei delegati Shopper che hanno potuto dare il loro concreto contributo al tavolo di trattativa.

Questa esperienza riconferma come la contrattazione sia lo strumento privilegiato per costruire tutele adeguate e pertinenti con il contesto di riferimento, in grado di coniugare gli elementi di autonomia di una tipologia contrattuale atipica, le esigenze di flessibilità delle imprese e le giuste rivendicazioni di tutela da parte delle lavoratrici e dei lavoratori, anche al di fuori del classico schema del lavoro subordinato.

 

Daniel Zanda

Segretario Generale FeLSA CISL

@daniel_zanda

La partecipazione agli utili, questa sconosciuta

La partecipazione agli utili, questa sconosciuta

 

Bollettino ADAPT 7 aprile 2025, n. 14

 

Benché la sua definizione per via contrattuale sia promossa attraverso i medesimi incentivi fiscali dei più noti premi di risultato, la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa resta una pratica poco conosciuta. Per verificarne l’effettiva diffusione non giovano in effetti nemmeno i report ministeriali sui premi di produttività, che pur analizzando tutti i contratti depositati ai fini delle agevolazioni fiscali di cui all’arti. 1, co. 182 della legge di bilancio per il 2016, non riportano dati in merito.

 

Eppure, la distribuzione ai lavoratori degli utili dell’impresa ha origini lontane nel nostro ordinamento. Già il Codice civile del 1942 contemplava, tra le diverse modalità con cui retribuire i lavoratori dipendenti, la partecipazione agli utili (“Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”, art. 2099, co. 3, c.c.), quale forma di retribuzione variabile legata all’andamento e ai risultati dell’impresa.

 

Oggi, come anticipato, la partecipazione agli utili è annoverata tra le quote di retribuzione che, laddove introdotte da accordi aziendali o territoriali stipulati ai sensi dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015 (organizzazioni dotate di maggiore rappresentatività a livello comparato), possono godere della fiscalità di vantaggio (con imposta sostitutiva dell’Irpef) al pari dei premi di risultato (l. n. 208/2015 e s.m.i.).

 

Si tratta, a ben vedere, di una modalità alternativa a detti premi, con cui però condivide (in cumulo) sia il medesimo limite annuo (3.000 euro lordi), sia il reddito annuo massimo pro-capite per quanto concerne la platea di lavoratori ammessi a tassazione agevolata (80.000 euro lordi).

 

L’art. 3, d. interm. 25 marzo 2016 (attuativo della l. n. 208/2015), si preoccupa di chiarire come ai fini dell’applicazione dell’imposta sostitutiva, per partecipazione agli utili si intende l’erogazione di somme ai sensi dell’art. 2102 c.c., in base cioè agli utili netti dell’impresa e, per le imprese soggette alla pubblicazione del bilancio, in base agli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato.

 

Tale forma di retribuzione non è dunque da confondere con i più classici obiettivi di redditività aziendale, calcolati sulla base di indicatori di fatturato o anche utile, che concorrono invece alla determinazione dei tradizionali premi di risultato, e che, a differenza degli utili netti redistribuiti ai dipendenti, danno accesso agli sgravi fiscali solo a fronte del rispetto del requisito di incrementalità.

Nonostante le lacune nel monitoraggio ministeriale di queste forme di retribuzione, sporadiche casistiche emergono dagli ultimi rapporti sulla contrattazione decentrata della Fondazione Di Vittorio della Cgil (2024) e dell’Osservatorio OCSEL della Cisl (2021), nonché interrogando la banca dati sui contratti collettivi della Scuola di ADAPT. Tra gli esempi più virtuosi possiamo segnalare l’accordo Maglificio Miles (1° luglio 2022), dove viene definita la distribuzione di parte degli utili netti d’impresa, con soglie e costi massimi in base all’utile conseguito, introducendo poi un meccanismo di riparametrazione individuale dell’importo in base alla presenza.

 

Nel complesso, però, gli attuali incentivi sembrano non aver favorito la diffusione di questa modalità di retribuzione. Anche per questa ragione, probabilmente, il disegno di legge A.S. n. 1407 sulla partecipazione dei lavoratori, attualmente in discussione al Senato, frutto della proposta di legge Cisl presentata a fine novembre 2023 e delle modiche intervenute in sede di esame alla Camera dei Deputati, intende promuovere ulteriormente la misura, prevedendo che per l’anno 2025, in caso di distribuzione ai lavoratori di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, il limite dell’importo soggetto all’imposta sostitutiva sia elevato a 5.000 euro lordi. Ma il fronte sindacale appare diviso. La Cgil, ad esempio, sostiene che la partecipazione agli utili “non rispetti la tradizionale distinzione tra proprietà e dipendenti” (Audizione informale della Cgil, VI Commissione Finanze e XI Commissione Lavoro Pubblico e Privato Camera dei Deputati, 1° febbraio 2024) e rimanda piuttosto alla contrattazione dei premi di risultato.

 

Avremo tempo, nei prossimi mesi, di conoscere l’esito dell’iter parlamentare del disegno di legge e se sarà sufficiente a inaugurare un nuovo corso. Basterà per questo il (semplice) potenziamento degli attuali vantaggi fiscali? La cautela è d’obbligo, se pensiamo anche a vecchie misure di incentivazione della partecipazione finanziaria (ci riferiamo ad un particolare fondo introdotto con legge del 2013 e istituito con apposito decreto nel 2016) poco o nulla note e sulle quali non si ha notizia di monitoraggi o esperienze di valore.

 

Ilaria Armaroli

Ricercatrice ADAPT Senior Fellow
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Marco Menegotto

Ricercatore ADAPT Senior Fellow

@MarcoMenegotto

 

Per una storia della Contrattazione Collettiva in Italia/265 –Nuovo Protocollo sulle Relazioni Industriali in TIM: un’intesa innovativa tra azienda e sindacati in un settore in crisi

Per una storia della Contrattazione Collettiva in Italia/265 –Nuovo Protocollo sulle Relazioni Industriali in TIM: un’intesa innovativa tra azienda e sindacati in un settore in crisi

 

Bollettino ADAPT 31 marzo 2025, n. 13

 

Oggetto e tipologia di accordo

 

Il 7 febbraio 2025, TIM S.p.A. e le segreterie nazionali di SLC-CGIL, Fistel-CISL e Uilcom-UIL hanno siglato un nuovo Protocollo aziendale sulle Relazioni Industriali. L’accordo, valido fino al 31 dicembre 2027, rappresenta un’evoluzione del sistema di relazioni sindacali all’interno dell’azienda, con l’obiettivo di rendere più efficace il confronto tra le parti, garantendo un modello partecipativo e dinamico, coerente con le sfide del mercato.

 

Parti firmatarie e contesto

 

L’intesa, frutto della collaborazione tra TIM e le principali organizzazioni sindacali del settore delle telecomunicazioni: SLC-CGIL, Fistel-CISL e Uilcom-UIL, è esemplificativa dell’ancora riconosciuta centralità delle relazioni industriali, strumento centrale in un momento di forte criticità per il settore.

 

Da un lato, infatti, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro delle telecomunicazioni è scaduto da oltre due anni e le trattative tra sindacati e aziende si trovano in una fase di stallo dallo scorso dicembre. Se la discussione sulla parte normativa ha registrato progressi, la parte economica è rimasta bloccata a causa della posizione rigida di alcune aziende capofila del settore, tra cui TIM, che hanno dichiarato di non poter sostenere aumenti del costo del lavoro a causa della crisi in atto.

 

Dall’altro, anche il confronto governativo sui temi industriali e regolatori del settore procede con lentezza, senza interventi concreti a sostegno del comparto. La deregolamentazione del mercato e una concorrenza eccessiva basata sul ribasso delle tariffe hanno portato a una significativa riduzione dei ricavi e a una drastica riduzione degli investimenti.

 

Temi trattati

 

Le parti sociali hanno quindi confermato l’importanza di sviluppare relazioni industriali sempre più moderne e coerenti con il contesto del mercato. Si sottolinea la necessità di promuovere un modello di dialogo costruttivo e partecipativo che possa adattarsi alle dinamiche di un mercato in rapida evoluzione, caratterizzato da cambiamenti tecnologici e una crescente competitività. Questo approccio è visto come cruciale per gestire i cambiamenti aziendali, favorire l’innovazione e sviluppare soluzioni condivise, pur rispettando i ruoli reciproci. Il sistema di relazioni industriali è quindi inteso come un motore di sviluppo economico, in grado di affrontare le sfide di un mercato dinamico e di migliorare il sistema economico-produttivo attraverso la collaborazione tra azienda e sindacati.

 

A costruzione di tale modello, le parti condividono la necessità di definire il concetto di unità produttiva ai fini dell’elezione, costituzione e funzionamento delle RSU e nell’ambito dei RLS. Il nuovo accordo prevede, entro 15 giorni dall’elezione delle RSU, la costituzione di un coordinamento nazionale RSU di TIM S.p.A. composto complessivamente da un numero massimo di 45 loro membri. I componenti del Coordinamento sono eletti al proprio interno dalle Rappresentanze Sindacali Unitarie di tutte le unità produttive sulla base di un regolamento elettorale che dovrà essere reso noto dalle OO.SS. in tempo utile per consentire la presentazione delle candidature a tutti gli eventi diritto. Le intese sottoscritte a maggioranza dei componenti del Coordinamento saranno vincolanti per tutto il personale in forza e vincolanti per tutte le OO.SS. operanti all’interno dell’azienda.

 

La RSU in quanto titolari dei diritti sindacali a norma del titolo III della l. 300/1970 è legittimata a indire assemblee per il personale dipendente, nell’ambito della propria unità produttiva secondo le previsioni di cui all’art.20 della stessa legge sindacale e dal CCNL Telecomunicazioni vigente. Le assemblee, come previsto dal protocollo, potranno essere indette anche in modalità telematica: in tal caso la partecipazione dovrà avvenire presso i luoghi dove è consentito lo svolgimento della prestazione lavorativa.

 

In merito ai permessi sindacali e ai relativi trattamenti, è previsto per ciascun componente della RSU il diritto a usufruire, per l’esercizio del proprio mandato, di un massimo di 96 ore di permesso retribuito all’anno. Inoltre, per la partecipazione agli incontri delle RSU e del Coordinamento nazionale convocati in presenza dall’azienda, la stessa si farà carico delle spese di viaggio con mezzo pubblico, pernottamento e pasti mediante rimborsi spese.

 

Il protocollo si concentra, inoltre, sul tema della sicurezza sul lavoro, prevedendo un sistema chiaro per l’elezione dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), che hanno il diritto di accesso ai luoghi di lavoro e la possibilità di fare proposte per migliorare le condizioni di salute e sicurezza. Nello specifico, l’accesso degli RLS ai luoghi di lavoro sarà regolato attraverso la funzione Health Safety and Environment per garantire la sicurezza e rispettare le normative aziendali. Inoltre, è stato confermato il diritto degli RLS a partecipare al percorso formativo obbligatorio predisposto dall’azienda ai sensi del d. lgs. 81/2008, che garantisce loro gli strumenti necessari per adempiere correttamente ai loro compiti di sicurezza sul lavoro.

 

Il protocollo si occupa, quindi, di chiarire l’articolazione del modello delle relazioni industriali di Tim, basato sui diritti di informazione, consultazione e negoziazione, e organizzato su due livelli di rappresentanza, nazionale e territoriale.

 

Con il processo di informazione, si chiarisce l’obbligo per l’azienda di fornire informazioni sui programmi aziendali, le scelte organizzative e l’evoluzione del business, con attenzione anche agli scenari di mercato. Le informazioni sono trasmesse sia a livello nazionale che territoriale, con l’obiettivo di garantire che le RSU siano informate e possano agire con consapevolezza rispetto alle scelte aziendali.

 

La consultazione è, invece, finalizzata a condividere la conoscenza di specifiche materie con l’obiettivo di progettare iniziative e individuare soluzioni comuni. È effettuata e organizzata mediante gli organismi paritetici aziendali, come il Comitato Paritetico Nazionale per la Sicurezza e Salute o la Commissione Nazionale per il Welfare e le Pari Opportunità, che lavorano insieme per sviluppare politiche aziendali che siano orientate al benessere dei lavoratori.

 

Le parti intendono valorizzare, inoltre, la negoziazione in sede aziendale quale fase di confronto fra le parti sociali finalizzata a ricercare con efficacia e tempestività, nel rispetto dei reciproci ruoli, le soluzioni utili per gestire i processi di evoluzione del mercato e dell’azienda e la valorizzazione delle persone. La negoziazione aziendale, si specifica, si svolge nell’ambito e in coerenza con quanto previsto dal CCNL e sulle materie indicate dal CCNL e dalla normativa vigente.

 

Il protocollo chiarisce inoltre gli organismi che compongono il sistema di Relazioni Industriali di TIM S.p.A. fra cui vengono menzionati le RSU; i RLS; il CUN (Coordinamento Nazionale delle RSU); il Comitato Paritetico nazionale salute e sicurezza; la Commissione Nazionale Welfare e Pari Opportunità, inclusione e sviluppo sostenibile; il Comitato Nazionale Formazione.

 

Centrale è, inoltre, il tema della formazione, fondamentale per affrontare i cambiamenti tecnologici e le trasformazioni del mercato del lavoro. In tale contesto, le parti coinvolte si sono impegnate ad aderire a Fondimpresa, l’organismo per la formazione continua, per sviluppare percorsi personalizzati di formazione per i dipendenti TIM S.p.A. Questo processo di formazione avrà come obiettivo la riqualificazione professionale, soprattutto in relazione alla digitalizzazione e ai cambiamenti nei processi aziendali. L’azienda e i sindacati lavoreranno insieme per promuovere la valorizzazione delle competenze e l’acquisizione di nuove professionalità, con progetti formativi che aiuteranno i lavoratori a rimanere competitivi in un mercato in continua evoluzione.

 

Valutazione d’insieme

 

Il nuovo Protocollo rappresenta un passo avanti nel modello di relazioni industriali di TIM, ponendo le basi per un dialogo strutturato e costruttivo tra azienda e sindacati. Tuttavia, il suo impatto concreto dovrà essere valutato alla luce dell’attuale contesto di tensione tra le parti sociali. La mancata firma del rinnovo contrattuale e il crescente malcontento tra i lavoratori, manifestato dalle assemblee in corso e dalla proclamazione dello sciopero, rappresentano fattori critici che potrebbero influenzare l’efficacia dell’accordo nel lungo periodo.

 

La centralità della contrattazione collettiva, l’attenzione alla formazione e il rafforzamento del ruolo delle RSU e degli RLS sono elementi chiave per garantire un equilibrio tra sviluppo aziendale e tutela dei lavoratori. Resta da vedere se il modello di relazioni industriali promosso da TIM sarà in grado di conciliare le esigenze aziendali con la richiesta, sempre più pressante, di un rinnovo contrattuale che restituisca un giusto aumento salariale ai dipendenti del settore.

 

Alice Cireddu

Apprendista di ricerca presso Edison S.p.A.