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Retribuzioni contrattuali in crescita nel primo trimestre del 2025

Retribuzioni contrattuali in crescita nel primo trimestre del 2025

Bollettino ADAPT 12 maggio 2025 n. 18

 

Sono del 29 aprile i dati Istat relativi all’andamento delle retribuzioni contrattuali nel primo trimestre del 2025, dai quali emerge un graduale miglioramento della dinamica retributiva in Italia, con incrementi sia congiunturali che tendenziali. A livello di trimestre, nel complesso dell’economia, le retribuzioni crescono dell’1% rispetto al periodo precedente e del 3,9% su base annua.

 

Restringendo l’analisi a marzo 2025, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie mostra un aumento dello 0,4% rispetto a febbraio e del 4% rispetto a marzo dell’anno scorso. La crescita tendenziale risulta poi particolarmente robusta nel settore privato (+4,7%), con un incremento delle retribuzioni contrattuali orarie del 4,9% nell’industria e del 4,3% nei servizi.

 

Andando a guardare i singoli comparti, spiccano incrementi tendenziali significativi nell’alimentare (+7,8%), nella metalmeccanica (+6,3%), nel commercio (+6,1%) e nella DMO (+6%). Variazioni più contenute si osservano invece nei servizi di informazione e comunicazione (+0,4%), nel settore della gomma-plastica (+0,8%) e nel comparto chimico (+1%).

 

Le proiezioni dell’indice delle retribuzioni contrattuali indicano un ulteriore miglioramento della dinamica retributiva, con un incremento del 2,6% per il periodo aprile-settembre 2025 e con una crescita media annua che dovrebbe attestarsi intorno al 2,7%.

 

Va tuttavia sottolineato come la dinamica retributiva, pur mostrando segnali positivi, risenta ancora degli effetti dell’inflazione. Tra gennaio 2021 e marzo 2025, le retribuzioni contrattuali nel settore privato sono aumentate del 10,6% in termini nominali; tuttavia, tenendo conto della crescita dei prezzi al consumo, il potere d’acquisto dei lavoratori si è ridotto del 6,8%. Negli ultimi mesi la dinamica dei prezzi ha rallentato, ma l’impatto del picco inflazionistico registrato tra il 2022 e il 2023 continua a pesare, comprimendo significativamente i benefici degli aumenti salariali.

 

Emergono anche dati interessanti sul fronte della copertura contrattuale: a fine marzo risultano in vigore 40 contratti collettivi che regolano il trattamento economico di circa 6,9 milioni di dipendenti, corrispondenti al 50,7% del monte retributivo complessivo nazionale. Nel settore privato, la copertura raggiunge il 65,9%, con variazioni importanti tra i diversi comparti: 100% in agricoltura, 42,4% nell’industria e 84,6% nei servizi privati.

 

A marzo 2025, la quota di dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale è pari al 47,3%, in calo rispetto al mese precedente (48,5%) ma in aumento rispetto a marzo 2024 (34,9%). Nel settore privato, la quota si abbassa al 32,6%, in diminuzione rispetto a febbraio (34,2%) ma significativamente superiore rispetto all’anno precedente (16,7%).

 

In generale, i dati Istat segnalano un rafforzamento della dinamica retributiva, soprattutto nel settore privato dove gli aumenti contrattuali riflettono gli sforzi della contrattazione collettiva. Il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali resta tuttavia inferiore ai livelli pre-inflazione. Il rallentamento della crescita dei prezzi e le previsioni sulla dinamica retributiva per il 2025 offrono comunque segnali incoraggianti, così come il miglioramento della copertura contrattuale.

 

Jacopo Sala
ADAPT Research Fellow

@_jacoposala

 

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? Parte I – La normativa di incentivazione

Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività?  Parte I – La normativa di incentivazione

Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17

 

Da un punto di vista fisiologico tutto il processo di contrattazione collettiva persegue, più o meno direttamente, obiettivi di produttività. Non è tuttavia sempre chiaro, neppure tra gli operatori e gli attori del nostro sistema di relazioni industriali, cosa si intenda con il termine «produttività» (vedi P. Tomassetti, Di cosa parliamo quando parliamo di produttività?, in Bollettino ADAPT dell’8 marzo 2017) e, soprattutto, come questo obiettivo venga di fatto perseguito tanto dalle parti sociali che dal legislatore. È pertanto opportuno, periodicamente, fare il punto della situazione su una tematica così centrale per la crescita e, conseguentemente, anche per i relativi processi redistributivi che in Italia, come mostra il trascinarsi da decenni della questione salariale, non trovano allo stato risposte soddisfacenti (vedi già le osservazioni critiche raccolte in Contrattazione e produttività: analisi e proposte del gruppo FareContrattazione, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016).

 

In questa direzione un primo contributo, oggetto di questo breve intervento, può essere rivolto alla normativa di sostegno e incentivazione economica alla contrattazione di produttività intesa in senso lato. Non fosse altro per tornare a ribadire, come gruppo di ricerca di ADAPT, l’assenza nel nostro Paese di un affidabile sistema di monitoraggio e verifica degli effetti delle ingenti risorse pubbliche destinate a questo obiettivo attraverso il sostegno della contrattazione di secondo livello.

 

All’obbligo di deposito del testo contrattuale, come condizione per il godimento del beneficio fiscale o contributivo, non fa infatti seguito alcun monitoraggio di tipo qualitativo, tanto a livello macro che micro, sugli effetti delle misure di incentivazione. Nessun attore istituzionale ha sviluppato analisi sistematiche sui testi contrattuali e anche i soggetti che seguono, attraverso una periodica reportistica, la materia della contrattazione aziendale non hanno sin qui realizzato vere e proprie indagini campionarie sul fenomeno, seppure tutti convengano che i nodi del nostro sistema di relazioni industriali restino quelli della bassa produttività e dei bassi salari. A mancare è anche la chiarezza sulle diverse misure e sui rispettivi obiettivi fissati dal legislatore.

 

Il fenomeno non ha origini recenti. Accanto a isolate esperienze aziendali e settoriali (vedi diffusamente il numero monografico di Diritto delle Relazioni Industriali del 1991 sulla retribuzione ad incentivi) il tema entra a pieno titolo nella riforma degli assetti contrattuali avviata con il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 che assegna al livello decentrato la funzione di stabilire «erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa».

 

È tuttavia il rapporto finale del 1997 della Commissione incaricata del monitoraggio del protocollo del 1993 a segnalare persistenti limiti allo sviluppo della contrattazione aziendale e la difficoltà nel nostro Paese di avviare una vera contrattazione di produttività. Nel rapporto si legge, in particolare: «viene unanimemente riconosciuto che questo assetto contrattuale ha conseguito, in larga misura, gli obiettivi che si era prefisso in termini macroeconomici. In particolare, il contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) ha garantito le retribuzioni in termini reali redistribuendo anche, a seconda dei settori o dei comparti, una quota della produttività prodotta dal sistema. Questo risultato si è combinato con un più stretto controllo a livello centrale della contrattazione decentrata finalizzato a raggiungere gli obiettivi di politica dei redditi e a difendere l’occupazione, particolarmente in una fase di ristrutturazione dell’apparato produttivo del nostro Paese. Insufficienti appaiono invece i risultati ottenuti a livello microeconomico. La contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) che doveva accrescere la variabilità della retribuzione, concorrendo così ad una maggiore flessibilità del sistema, è stata quantitativamente e qualitativamente insufficiente ed insoddisfacente, anche per la tardiva e limitata applicazione dell’incentivazione contributiva prevista. Il contratto decentrato è stato in larga misura caratterizzato da erogazioni di tipo tradizionale, non collegate a parametri oggettivi di produttività, redditività, qualità per diverse ragioni: vischiosità delle prassi precedenti, impreparazione “culturale” dei soggetti negoziali decentrati, resistenza ad allargare le materie oggetto di contrattazione (ad es., all’organizzazione del lavoro), mancanza di strutture – anche organizzative – adeguate (si pensi alla contrattazione territoriale)».

 

Da qui un ripensamento delle misure di incentivazione della contrattazione di produttività rispetto alla originaria previsione di cui al decreto legge n. 499 del 1996 che conteneva un primo esempio di incentivazione della contrattazione decentrata, stabilendo l’esclusione dalla retribuzione imponibile delle «erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, (…) delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati» (art. 5). Ulteriori sgravi contributivi erano poi stati definiti, ma anche in questo caso senza un reale impatto sulle dinamiche della contrattazione collettiva, con la legge n. 247 del 2007 che prevedeva, per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello, la decontribuzione di quelle stesse erogazioni già citate nel 1996 (si vedano in questo senso anche L. n. 92/2012, D.M. 27 dicembre 2012, circolare INPS n. 73 del 2012; per le modalità di concreta fruizione dello sgravio, invece, il messaggio INPS del 20 settembre 2013, n. 14855).

 

Una svolta si ha, almeno sul piano della tecnica normativa, soltanto a partire dal 2009 quando si stabilisce una riduzione dell’imposta Irpef e delle addizionali per le somme erogate a livello aziendale «in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa» (decreto-legge n. 93/2008, convertito poi nella L. n. 126 del 24 luglio 2008, Legge di Stabilità 2009, art. 2 co. 1 lett. c).

 

Con questa proposta, presentata in via sperimentale, viene disciplinata per la prima volta una forma di agevolazione fiscale delle somme di ammontare variabile previste per i lavoratori al livello aziendale dei contratti collettivi. In questa fase, il totale annuo detassabile si attesta su 3.000 euro ed il vantaggio viene garantito esclusivamente ai lavoratori in possesso, nell’anno precedente a quello nel quale si usufruisce della tassazione agevolata, di un reddito da lavoro dipendente inferiore a 30.000 euro. È però dal 2010 che queste misure vengono strutturate in maniera più stabile e precisa, indicando la contrattazione decentrata come sede elettiva per concordare l’erogazione di premi di risultato assoggettabili ad una tassazione di favore (aliquota del 10%). Infatti, il d.l. n. 78/2010 (art. 53, co. 1, poi convertito nella L. n. 220/2010) prescrive una vera e propria detassazione dei premi di risultato.

 

Anche nel 2011 la normativa è stata oggetto di proroghe, che non ne hanno alterato la struttura normativa ma solo le quantità economiche, ad esempio il reddito da lavoro dipendente necessario per accedere alla misura, che viene innalzato a 40.000 euro. Nel 2012 con la legge n. 183 del 2011 (legge di Stabilità 2012) questo istituto viene nuovamente prorogato abbassando però a 2.500 euro annui l’importo detassabile e stabilendo in 30.000 euro il reddito da lavoro dipendente di riferimento. Nel 2013 l’impianto normativo subisce, invece, significative modifiche migliorative: il comma 481, dell’articolo 1, della L. n. 228 del 2012 (legge di Stabilità 2013) prevede uno stanziamento pari a 950 milioni di euro nel 2013 e 600 nel 2014. Salvo poi l’anno 2015, nel quale l’agevolazione non è stata finanziata e quindi è rimasta inattiva, a partire dal 2016 il legislatore ha continuato a prorogare annualmente questi vantaggi fiscali.

 

Già in questa fase erano tuttavia persistenti le denunce circa la scarsa effettività ed efficacia della misura a partire dalla assenza di un reale meccanismo di monitoraggio. Bastava in effetti scorrere i principali accordi di detassazione sottoscritti in questa fase per rendersi conto di come il provvedimento, pur contribuendo positivamente a ridurre il peso del cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori, non avesse sostenuto veri e propri incrementi di produttività concordati a livello territoriale o aziendale. La gran parte degli accordi oggetto di analisi sono anzi risultati fotocopie l’uno dell’altro (vedi F. Fazio, M. Tiraboschi, Una occasione mancata per la crescita Brevi considerazioni a proposito della misura di detassazione del salario di produttività, in Bollettino ADAPT del 19 dicembre 2011)

 

Il quadro  non cambia con l’ultima innovazione normativa, che corrisponde alla attuale configurazione della misura, contenuta nell’articolo 1, ai commi da 182 a 191, della Legge n. 208 del 2015 (Legge di stabilità 2016) per cui – secondo le ultime modifiche apportate (si veda la Tabella 1) – «sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta, sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento (triennio 2025-2027), entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili (…), nonché le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa» (comma 182). Che questi incentivi economici non abbiano inciso in modo rilevante rispetto all’obiettivo di strutturare a livello collettivo una forma di retribuzione variabile legata ad obiettivi specifici (produttività, redditività, qualità, efficienza, innovazione) lo dimostrano le successive verifiche empiriche fatte dal gruppo di ricerca di ADAPT (vedi in particolare P. Tomassetti, Detassazione 2016: il ritorno degli accordi “fotocopia”di livello territoriale, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016) e documentate puntualmente con i Rapporti ADAPT sulla contrattazione in Italia.

 

Da qui l’urgenza di riprendere in mano il tema della contrattazione incentivata di produttività non solo per meglio capire, con ulteriori verifiche empiriche, utilità e impatto delle ingenti misure premiali previste dal Legislatore, ma anche per valutare l’esistenza di possibili soluzioni alternative ovvero l’adozione di accorgimenti tecnici utili ad ancorarle in modo più perentorio ai condivisibili obiettivi contenuti nella astratta previsione normativa.

 

Giulia Comi

PhD Candidate – ADAPT Università di Siena

@giulphil

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

I numeri (veri) sulla contrattazione pirata*

 

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

Se c’è un elemento che, più di altri, concorre a valutare nel merito la qualità e lo stato di salute di un sistema di relazioni industriali questo è legato alla genuinità e trasparenza delle relative dinamiche contrattuali. Non è un caso che si richiamino regolarmente, non solo tra gli addetti ai lavori ma anche nel dibattito pubblico, gli oltre mille contratti collettivi nazionali di categoria depositati al CNEL per segnalare l’estrema frammentazione e una complessiva inefficienza del nostro sistema di relazioni industriali apparentemente condizionato da centinaia di sigle di sindacali e datoriali.

 

Fondamentale, in questa prospettiva, è allora la capacità di analizzare in profondità gli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva. In Italia, tuttavia, questa conoscenza resta parziale, discontinua e spesso affidata a iniziative isolate. Non esistono studi sistematici e continuativi della contrattazione di livello nazionale e tanto meno delle forme di raccordo e coordinamento tra contrattazione nazionale e contrattazione di secondo livello. Le stesse organizzazioni sindacali sono oggi prevalentemente impegnate, coi loro rapporti periodici, nello studio della contrattazione decentrata, di cui ancora meno si conosce la valenza non essendo in questo caso neppure di facile reperimento gli stessi testi contrattuali. Questo a differenza di quanto avviene per la contrattazione nazionale che si trova agevolmente nell’archivio nazionale dei contratti del CNEL e che viene registrata, testo per testo, in due bollettini semestrali dello stesso CNEL di descrizione dei relativi contenuti essenziali.

 

Rispetto al fenomeno della contrattazione c.d. pirata l’unica fonte disponibile è, allo stato, quella offerta dalla collaborazione tra CNEL e INPS, che consente di consultare i flussi Uniemens relativi ai contratti dichiarati dai datori di lavoro per ciascun lavoratore, ai fini del calcolo dei contributi previdenziali. Si tratta di dati indubbiamente preziosi, che permettono – una volta incrociati con il repertorio contrattuale CNEL – di stimare con buona precisione il numero di imprese e lavoratori cui si applica ciascun contratto collettivo nazionale, anche con disaggregazione territoriale per province. I rapporti annuali del CNEL sul mercato e la contrattazione collettiva, pur denunciando i rischi della contrattazione in dumping, evidenziano la buona tenuta della contrattazione condotta dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Sono proprio i flussi Uniemens a documentare, anche per il biennio 2023-2024, che i (relativamente) pochi contratti sottoscritti da CGIL, CISL, UIL (circa 250 sugli oltre 1.000 depositati nell’archivio del CNEL), coprono la quasi totalità dei lavoratori. Parliamo di una copertura che supera il 96 per cento dei lavoratori italiani del settore privato, con la sola eccezione per lavoro domestico e lavoro agricolo dove questi dati ancora mancano. I restanti contratti, soprattutto quelli sottoscritti da sigle minori e spesso del tutto sconosciute, si applicano a numeri davvero residuali di lavoratori. Basti pensare che quasi 500 contratti nazionali depositati al CNEL trovano applicazione a meno di 100 addetti, davvero poca cosa per parlare di frammentazione del sistema di contrattazione collettiva e di un dilagare della contrattazione in dumping. Le finalità del deposito, in questi casi, sono evidentemente altre e riguardano benefici che gli “attori” firmatari contano di maturare rispetto alle istituzioni pubbliche più che in ragione di un reale radicamento nel sistema di relazioni industriali.

 

In realtà non pochi studiosi ed osservatori del mercato del lavoro e delle relazioni industriali continuano a esprimere, non si sa sulla base di quali motivazioni, ampie riserve sull’affidabilità dei dati offerti dai flussi Uniemens. L’obiezione più diffusa riguarda la natura dell’obbligo dichiarativo (previsto dall’art. 1, comma 1, del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla l. 7 dicembre 1989, n. 389) secondo cui l’INPS deve utilizzare, ai fini contributivi, i minimi tabellari previsti dal contratto collettivo nazionale indicato dal datore di lavoro. Ma da ciò non deriverebbe necessariamente che tale contratto sia quello effettivamente applicato al rapporto di lavoro. Si ipotizza anzi che, in alcuni casi, le imprese possano adottare un contratto riconosciuto e firmato da organizzazioni sindacali rappresentative unicamente per determinare l’imponibile contributivo, mentre nel concreto il trattamento economico e normativo dei lavoratori sarebbe regolato da un diverso contratto – magari sottoscritto da soggetti non comparativamente rappresentativi – con condizioni meno favorevoli.

 

È in questo contesto che assume un rilievo particolare il recente studio realizzato dall’Osservatorio regionale sul mercato del lavoro di Veneto Lavoro. A differenza delle analisi fondate solo sui flussi previdenziali, lo studio utilizza anche le comunicazioni obbligatorie inviate dai datori di lavoro ai servizi per l’impiego (ai sensi dell’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510, convertito con modificazioni dalla l. 28 novembre 1996, n. 608) in occasione di assunzioni, cessazioni, proroghe, trasformazioni, trasferimenti e distacchi. In particolare, l’analisi si concentra sulle oltre 600mila assunzioni effettuate nel 2024 da imprese private operanti sul territorio di Regione Veneto, rilevando i contratti collettivi effettivamente applicati ai nuovi rapporti di lavoro.

 

I risultati sono degni di nota. Sei CCNL, tutti riconducibili ai sistemi di relazioni industriali più consolidati, coprono da soli oltre il 50% delle assunzioni effettuate in Veneto nel 2024. Si tratta del CCNL Turismo (Federturismo), del CCNL Terziario, distribuzione e servizi (Confcommercio), del CCNL Agricoltura (Confagricoltura, Coldiretti, Cia), del CCNL Metalmeccanici (Federmeccanica), del CCNL Pubblici Esercizi/Ristorazione (Fipe) e del CCNL Multiservizi (Confindustria, Legacoop, Confcooperative). Ancora più rilevanti i dati relativi alla titolarità sindacale dei contratti: il 92,9% delle assunzioni risulta associato a contratti firmati da almeno una tra CGIL, CISL o UIL. Il 2% fa riferimento a contratti sottoscritti da sigle non confederali ma presenti al CNEL (in linea con gli stessi dati offerti dal CNEL sulla base dei flussi Uniemes), mentre meno dello 0,3% di questi contratti è riconducibile a soggetti del tutto esterni al sistema di rappresentanza istituzionale. I contratti non firmati da sindacati confederali assumono un certo rilievo in alcuni settori specifici. Nel comparto della vigilanza privata, ad esempio, oltre il 70% delle assunzioni è legato a un contratto sottoscritto dal sindacato autonomo Confsal. Un peso non trascurabile dei contratti non confederali si registra anche nell’ICT e nei servizi informatici, dove si segnala la diffusione del contratto firmato da UGL per i Centri di elaborazione dati. È da segnalare anche, per completezza, che nel settore privato la percentuale di assunzioni annue rilevata dal sistema delle comunicazioni obbligatorie che non riporta un contratto univoco ma si rifà ad una indicazione generica si aggira attorno al 5%.

 

I dati del Veneto non devono essere generalizzati in modo acritico. Si riferiscono a una sola regione – per quanto economicamente rilevante e dotata di una buona capacità amministrativa in materia di osservazione del mercato del lavoro – e non è escluso che in altri territori la diffusione della contrattazione pirata assuma proporzioni diverse. Tuttavia, proprio perché costruiti su fonti diverse da quelle previdenziali, questi dati rappresentano un importante banco di prova per valutare e confermare l’attendibilità e affidabilità delle rilevazioni Uniemens. Offrono inoltre uno spaccato concreto sulla effettiva applicazione dei contratti nei nuovi rapporti di lavoro, contribuendo a colmare un vuoto conoscitivo finora difficilmente colmabile.

 

È da analisi come queste che può prendere forma un giudizio equilibrato e documentato sulle dinamiche delle relazioni industriali in Italia. Il fenomeno della contrattazione collettiva pirata esiste, e in alcuni settori / territori è certamente rilevante. Ma non può essere indicato come l’unica, né la principale, causa della questione salariale che attraversa il nostro Paese. Le retribuzioni stagnanti, le disuguaglianze crescenti e le difficoltà di valorizzazione del lavoro non dipendono solo dall’azione o dal dumping di soggetti marginali o opachi. Richiedono, piuttosto, una riflessione più ampia sulla qualità della contrattazione collettiva, sul ruolo dei livelli territoriali e aziendali, sulla capacità di rappresentanza e sulla forza effettiva delle istituzioni del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 16/2025

 

L’accordo integrativo Everli per la regolamentazione dello “Shopper”

L’accordo integrativo Everli per la regolamentazione dello “Shopper”

Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16

 

In data 9 Aprile 2025 come FeLSA CISL, insieme a Nidil e Uiltemp, abbiamo siglato un accordo nazionale con la piattaforma digitale Everli. L’intesa si colloca nel solco dell’accordo nazionale sottoscritto con l’Associazione Assogrocery nel febbraio 2024 per la disciplina del mondo e-grocery e la regolamentazione della figura dello shopper. La figura dello Shopper opera per il tramite della piattaforma digitale, occupandosi della preparazione del carrello di prodotti ordinati on line dal cliente, provvedendo a tutte le fasi dell’acquisto, raccolta, pagamento, distribuzione e recapito presso il domicilio del cliente. In Italia sono quasi 2.000 gli shopper e operano particolarmente in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna.

 

L’intesa aziendale sottoscritta con Everli (la principale piattaforma del settore in Italia) prevede un sistema di regolamentazione aziendale che valorizza l’affidabilità, l’esperienza e la qualità del servizio degli shopper. Oltre a riprendere gli elementi definiti nell’accordo nazionale quali compenso minimo per consegna, indennità per spesa pesante, indennità di disponibilità, diritto alla sospensione dell’account, tutela della malattia e dell’infortunio, permessi e altre tutele, l’accordo prevede una serie di diritti aggiuntivi e si prefigge l’obiettivo di implementare nuove prassi nella gestione dei rapporti lavorativi.

 

Tra i punti più significativi dell’intesa annoveriamo sicuramente i diritti sindacali, prevedendo l’introduzione e l’attivazione di permessi retribuiti e un’apposita bacheca online accessibile a tutti da tutti i territori. Su questo aspetto è importante evidenziare il ruolo che le rappresentanze sindacali aziendali hanno avuto, non solo nella gestione e conduzione della trattativa, ma soprattutto nel garantire una dinamica assolutamente partecipata di tutti i lavoratori all’andamento e valutazione del negoziato. Inoltre, è diventata ordinaria l’esperienza delle assemblee sindacali serali via Telegram. Pertanto, anche nell’ambito delle piattaforme digitali è possibile costruire una vera e viva rappresentanza sindacale.

 

La contrattazione inoltre interviene anche nella gestione dell’algoritmo, andando a definire una più equa gestione della distribuzione degli incarichi, visualizzazione delle proposte e prenotazione degli slot e orari lavorativi con l’obbiettivo di contrastare la discriminazione algoritmica, valorizzando e premiando al contempo gli shopper più meritevoli. Vengono identificate due platee differenti: gli shopper Senior, ovverosia coloro che vantano un’anzianità lavorativa importante e che svolgono questa attività in via prevalente e gli shopper junior, ossia tutti coloro che hanno appena effettuato iscrizione e accesso o svolgono questa attività come secondaria. È previsto anche un percorso per gli shopper che vogliano passare da junior a senior.

 

L’accordo interviene anche sul tema del bilanciamento vita lavoro: rispetto all’accordo di settore Assogrocery, sono implementate a 34 le giornate di sospensione dell’account per motivi di bilanciamento vita-lavoro. Si prevedono infine delle visite mediche a carico della piattaforma per tutti gli shopper e una formazione dedicata per lo svolgimento dell’attività.

 

L’accordo, il primo siglato tra OO.SS. e una piattaforma digitale, oltre a rappresentare un traguardo importante nell’ambito delle relazioni sindacali e nello sviluppo della contrattazione nei nuovi settori digitali, risulta fondamentale anche per la dinamica di partecipazione, attiva e propositiva, dei delegati Shopper che hanno potuto dare il loro concreto contributo al tavolo di trattativa.

Questa esperienza riconferma come la contrattazione sia lo strumento privilegiato per costruire tutele adeguate e pertinenti con il contesto di riferimento, in grado di coniugare gli elementi di autonomia di una tipologia contrattuale atipica, le esigenze di flessibilità delle imprese e le giuste rivendicazioni di tutela da parte delle lavoratrici e dei lavoratori, anche al di fuori del classico schema del lavoro subordinato.

 

Daniel Zanda

Segretario Generale FeLSA CISL

@daniel_zanda

La partecipazione agli utili, questa sconosciuta

La partecipazione agli utili, questa sconosciuta

 

Bollettino ADAPT 7 aprile 2025, n. 14

 

Benché la sua definizione per via contrattuale sia promossa attraverso i medesimi incentivi fiscali dei più noti premi di risultato, la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa resta una pratica poco conosciuta. Per verificarne l’effettiva diffusione non giovano in effetti nemmeno i report ministeriali sui premi di produttività, che pur analizzando tutti i contratti depositati ai fini delle agevolazioni fiscali di cui all’arti. 1, co. 182 della legge di bilancio per il 2016, non riportano dati in merito.

 

Eppure, la distribuzione ai lavoratori degli utili dell’impresa ha origini lontane nel nostro ordinamento. Già il Codice civile del 1942 contemplava, tra le diverse modalità con cui retribuire i lavoratori dipendenti, la partecipazione agli utili (“Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”, art. 2099, co. 3, c.c.), quale forma di retribuzione variabile legata all’andamento e ai risultati dell’impresa.

 

Oggi, come anticipato, la partecipazione agli utili è annoverata tra le quote di retribuzione che, laddove introdotte da accordi aziendali o territoriali stipulati ai sensi dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015 (organizzazioni dotate di maggiore rappresentatività a livello comparato), possono godere della fiscalità di vantaggio (con imposta sostitutiva dell’Irpef) al pari dei premi di risultato (l. n. 208/2015 e s.m.i.).

 

Si tratta, a ben vedere, di una modalità alternativa a detti premi, con cui però condivide (in cumulo) sia il medesimo limite annuo (3.000 euro lordi), sia il reddito annuo massimo pro-capite per quanto concerne la platea di lavoratori ammessi a tassazione agevolata (80.000 euro lordi).

 

L’art. 3, d. interm. 25 marzo 2016 (attuativo della l. n. 208/2015), si preoccupa di chiarire come ai fini dell’applicazione dell’imposta sostitutiva, per partecipazione agli utili si intende l’erogazione di somme ai sensi dell’art. 2102 c.c., in base cioè agli utili netti dell’impresa e, per le imprese soggette alla pubblicazione del bilancio, in base agli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato.

 

Tale forma di retribuzione non è dunque da confondere con i più classici obiettivi di redditività aziendale, calcolati sulla base di indicatori di fatturato o anche utile, che concorrono invece alla determinazione dei tradizionali premi di risultato, e che, a differenza degli utili netti redistribuiti ai dipendenti, danno accesso agli sgravi fiscali solo a fronte del rispetto del requisito di incrementalità.

Nonostante le lacune nel monitoraggio ministeriale di queste forme di retribuzione, sporadiche casistiche emergono dagli ultimi rapporti sulla contrattazione decentrata della Fondazione Di Vittorio della Cgil (2024) e dell’Osservatorio OCSEL della Cisl (2021), nonché interrogando la banca dati sui contratti collettivi della Scuola di ADAPT. Tra gli esempi più virtuosi possiamo segnalare l’accordo Maglificio Miles (1° luglio 2022), dove viene definita la distribuzione di parte degli utili netti d’impresa, con soglie e costi massimi in base all’utile conseguito, introducendo poi un meccanismo di riparametrazione individuale dell’importo in base alla presenza.

 

Nel complesso, però, gli attuali incentivi sembrano non aver favorito la diffusione di questa modalità di retribuzione. Anche per questa ragione, probabilmente, il disegno di legge A.S. n. 1407 sulla partecipazione dei lavoratori, attualmente in discussione al Senato, frutto della proposta di legge Cisl presentata a fine novembre 2023 e delle modiche intervenute in sede di esame alla Camera dei Deputati, intende promuovere ulteriormente la misura, prevedendo che per l’anno 2025, in caso di distribuzione ai lavoratori di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, il limite dell’importo soggetto all’imposta sostitutiva sia elevato a 5.000 euro lordi. Ma il fronte sindacale appare diviso. La Cgil, ad esempio, sostiene che la partecipazione agli utili “non rispetti la tradizionale distinzione tra proprietà e dipendenti” (Audizione informale della Cgil, VI Commissione Finanze e XI Commissione Lavoro Pubblico e Privato Camera dei Deputati, 1° febbraio 2024) e rimanda piuttosto alla contrattazione dei premi di risultato.

 

Avremo tempo, nei prossimi mesi, di conoscere l’esito dell’iter parlamentare del disegno di legge e se sarà sufficiente a inaugurare un nuovo corso. Basterà per questo il (semplice) potenziamento degli attuali vantaggi fiscali? La cautela è d’obbligo, se pensiamo anche a vecchie misure di incentivazione della partecipazione finanziaria (ci riferiamo ad un particolare fondo introdotto con legge del 2013 e istituito con apposito decreto nel 2016) poco o nulla note e sulle quali non si ha notizia di monitoraggi o esperienze di valore.

 

Ilaria Armaroli

Ricercatrice ADAPT Senior Fellow
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Marco Menegotto

Ricercatore ADAPT Senior Fellow

@MarcoMenegotto

 

Per una storia della Contrattazione Collettiva in Italia/265 –Nuovo Protocollo sulle Relazioni Industriali in TIM: un’intesa innovativa tra azienda e sindacati in un settore in crisi

Per una storia della Contrattazione Collettiva in Italia/265 –Nuovo Protocollo sulle Relazioni Industriali in TIM: un’intesa innovativa tra azienda e sindacati in un settore in crisi

 

Bollettino ADAPT 31 marzo 2025, n. 13

 

Oggetto e tipologia di accordo

 

Il 7 febbraio 2025, TIM S.p.A. e le segreterie nazionali di SLC-CGIL, Fistel-CISL e Uilcom-UIL hanno siglato un nuovo Protocollo aziendale sulle Relazioni Industriali. L’accordo, valido fino al 31 dicembre 2027, rappresenta un’evoluzione del sistema di relazioni sindacali all’interno dell’azienda, con l’obiettivo di rendere più efficace il confronto tra le parti, garantendo un modello partecipativo e dinamico, coerente con le sfide del mercato.

 

Parti firmatarie e contesto

 

L’intesa, frutto della collaborazione tra TIM e le principali organizzazioni sindacali del settore delle telecomunicazioni: SLC-CGIL, Fistel-CISL e Uilcom-UIL, è esemplificativa dell’ancora riconosciuta centralità delle relazioni industriali, strumento centrale in un momento di forte criticità per il settore.

 

Da un lato, infatti, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro delle telecomunicazioni è scaduto da oltre due anni e le trattative tra sindacati e aziende si trovano in una fase di stallo dallo scorso dicembre. Se la discussione sulla parte normativa ha registrato progressi, la parte economica è rimasta bloccata a causa della posizione rigida di alcune aziende capofila del settore, tra cui TIM, che hanno dichiarato di non poter sostenere aumenti del costo del lavoro a causa della crisi in atto.

 

Dall’altro, anche il confronto governativo sui temi industriali e regolatori del settore procede con lentezza, senza interventi concreti a sostegno del comparto. La deregolamentazione del mercato e una concorrenza eccessiva basata sul ribasso delle tariffe hanno portato a una significativa riduzione dei ricavi e a una drastica riduzione degli investimenti.

 

Temi trattati

 

Le parti sociali hanno quindi confermato l’importanza di sviluppare relazioni industriali sempre più moderne e coerenti con il contesto del mercato. Si sottolinea la necessità di promuovere un modello di dialogo costruttivo e partecipativo che possa adattarsi alle dinamiche di un mercato in rapida evoluzione, caratterizzato da cambiamenti tecnologici e una crescente competitività. Questo approccio è visto come cruciale per gestire i cambiamenti aziendali, favorire l’innovazione e sviluppare soluzioni condivise, pur rispettando i ruoli reciproci. Il sistema di relazioni industriali è quindi inteso come un motore di sviluppo economico, in grado di affrontare le sfide di un mercato dinamico e di migliorare il sistema economico-produttivo attraverso la collaborazione tra azienda e sindacati.

 

A costruzione di tale modello, le parti condividono la necessità di definire il concetto di unità produttiva ai fini dell’elezione, costituzione e funzionamento delle RSU e nell’ambito dei RLS. Il nuovo accordo prevede, entro 15 giorni dall’elezione delle RSU, la costituzione di un coordinamento nazionale RSU di TIM S.p.A. composto complessivamente da un numero massimo di 45 loro membri. I componenti del Coordinamento sono eletti al proprio interno dalle Rappresentanze Sindacali Unitarie di tutte le unità produttive sulla base di un regolamento elettorale che dovrà essere reso noto dalle OO.SS. in tempo utile per consentire la presentazione delle candidature a tutti gli eventi diritto. Le intese sottoscritte a maggioranza dei componenti del Coordinamento saranno vincolanti per tutto il personale in forza e vincolanti per tutte le OO.SS. operanti all’interno dell’azienda.

 

La RSU in quanto titolari dei diritti sindacali a norma del titolo III della l. 300/1970 è legittimata a indire assemblee per il personale dipendente, nell’ambito della propria unità produttiva secondo le previsioni di cui all’art.20 della stessa legge sindacale e dal CCNL Telecomunicazioni vigente. Le assemblee, come previsto dal protocollo, potranno essere indette anche in modalità telematica: in tal caso la partecipazione dovrà avvenire presso i luoghi dove è consentito lo svolgimento della prestazione lavorativa.

 

In merito ai permessi sindacali e ai relativi trattamenti, è previsto per ciascun componente della RSU il diritto a usufruire, per l’esercizio del proprio mandato, di un massimo di 96 ore di permesso retribuito all’anno. Inoltre, per la partecipazione agli incontri delle RSU e del Coordinamento nazionale convocati in presenza dall’azienda, la stessa si farà carico delle spese di viaggio con mezzo pubblico, pernottamento e pasti mediante rimborsi spese.

 

Il protocollo si concentra, inoltre, sul tema della sicurezza sul lavoro, prevedendo un sistema chiaro per l’elezione dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), che hanno il diritto di accesso ai luoghi di lavoro e la possibilità di fare proposte per migliorare le condizioni di salute e sicurezza. Nello specifico, l’accesso degli RLS ai luoghi di lavoro sarà regolato attraverso la funzione Health Safety and Environment per garantire la sicurezza e rispettare le normative aziendali. Inoltre, è stato confermato il diritto degli RLS a partecipare al percorso formativo obbligatorio predisposto dall’azienda ai sensi del d. lgs. 81/2008, che garantisce loro gli strumenti necessari per adempiere correttamente ai loro compiti di sicurezza sul lavoro.

 

Il protocollo si occupa, quindi, di chiarire l’articolazione del modello delle relazioni industriali di Tim, basato sui diritti di informazione, consultazione e negoziazione, e organizzato su due livelli di rappresentanza, nazionale e territoriale.

 

Con il processo di informazione, si chiarisce l’obbligo per l’azienda di fornire informazioni sui programmi aziendali, le scelte organizzative e l’evoluzione del business, con attenzione anche agli scenari di mercato. Le informazioni sono trasmesse sia a livello nazionale che territoriale, con l’obiettivo di garantire che le RSU siano informate e possano agire con consapevolezza rispetto alle scelte aziendali.

 

La consultazione è, invece, finalizzata a condividere la conoscenza di specifiche materie con l’obiettivo di progettare iniziative e individuare soluzioni comuni. È effettuata e organizzata mediante gli organismi paritetici aziendali, come il Comitato Paritetico Nazionale per la Sicurezza e Salute o la Commissione Nazionale per il Welfare e le Pari Opportunità, che lavorano insieme per sviluppare politiche aziendali che siano orientate al benessere dei lavoratori.

 

Le parti intendono valorizzare, inoltre, la negoziazione in sede aziendale quale fase di confronto fra le parti sociali finalizzata a ricercare con efficacia e tempestività, nel rispetto dei reciproci ruoli, le soluzioni utili per gestire i processi di evoluzione del mercato e dell’azienda e la valorizzazione delle persone. La negoziazione aziendale, si specifica, si svolge nell’ambito e in coerenza con quanto previsto dal CCNL e sulle materie indicate dal CCNL e dalla normativa vigente.

 

Il protocollo chiarisce inoltre gli organismi che compongono il sistema di Relazioni Industriali di TIM S.p.A. fra cui vengono menzionati le RSU; i RLS; il CUN (Coordinamento Nazionale delle RSU); il Comitato Paritetico nazionale salute e sicurezza; la Commissione Nazionale Welfare e Pari Opportunità, inclusione e sviluppo sostenibile; il Comitato Nazionale Formazione.

 

Centrale è, inoltre, il tema della formazione, fondamentale per affrontare i cambiamenti tecnologici e le trasformazioni del mercato del lavoro. In tale contesto, le parti coinvolte si sono impegnate ad aderire a Fondimpresa, l’organismo per la formazione continua, per sviluppare percorsi personalizzati di formazione per i dipendenti TIM S.p.A. Questo processo di formazione avrà come obiettivo la riqualificazione professionale, soprattutto in relazione alla digitalizzazione e ai cambiamenti nei processi aziendali. L’azienda e i sindacati lavoreranno insieme per promuovere la valorizzazione delle competenze e l’acquisizione di nuove professionalità, con progetti formativi che aiuteranno i lavoratori a rimanere competitivi in un mercato in continua evoluzione.

 

Valutazione d’insieme

 

Il nuovo Protocollo rappresenta un passo avanti nel modello di relazioni industriali di TIM, ponendo le basi per un dialogo strutturato e costruttivo tra azienda e sindacati. Tuttavia, il suo impatto concreto dovrà essere valutato alla luce dell’attuale contesto di tensione tra le parti sociali. La mancata firma del rinnovo contrattuale e il crescente malcontento tra i lavoratori, manifestato dalle assemblee in corso e dalla proclamazione dello sciopero, rappresentano fattori critici che potrebbero influenzare l’efficacia dell’accordo nel lungo periodo.

 

La centralità della contrattazione collettiva, l’attenzione alla formazione e il rafforzamento del ruolo delle RSU e degli RLS sono elementi chiave per garantire un equilibrio tra sviluppo aziendale e tutela dei lavoratori. Resta da vedere se il modello di relazioni industriali promosso da TIM sarà in grado di conciliare le esigenze aziendali con la richiesta, sempre più pressante, di un rinnovo contrattuale che restituisca un giusto aumento salariale ai dipendenti del settore.

 

Alice Cireddu

Apprendista di ricerca presso Edison S.p.A.

Rischi psicosociali e benessere dei dipendenti: i risultati di un progetto sulla salute mentale nel settore metalmeccanico in Italia

Rischi psicosociali e benessere dei dipendenti: i risultati di un progetto sulla salute mentale nel settore metalmeccanico in Italia

Bollettino ADAPT 17 marzo 2025, n. 11

 

Nell’ambito di un progetto co-finanziato dall’Unione Europea, “IncreMe(n)tal – Increasing Metalworkers’ representatives’ Awareness and Skills on Mental Health Protection & Promotion in the Workplace” un gruppo di ricercatrici di Fondazione ADAPT e ADAPT sta indagando il tema della salute mentale dei lavoratori e delle lavoratrici nel settore metalmeccanico in Italia, insieme a un gruppo di esperti a cui è affidato l’approfondimento dello stesso tema in altri 6 paesi target (Belgio, Irlanda, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia).

 

Il progetto, coordinato dalla FIM-CISL, vede la partecipazione di diversi enti di ricerca, università e parti sociali e mira a fornire una formazione di qualità ai sindacalisti e ai rappresentanti dei lavoratori nell’industria metalmeccanica nei 7 paesi target e a livello transnazionale.

 

È già disponibile online un primo report che sintetizza i risultati delle attività di ricerca documentaria e sul campo condotte nel primo anno di progetto, con un focus proprio sul contesto italiano (Deliverable 2.1. “National Highlight – Italia”). In particolare, il report dà conto sia del contesto normativo e teorico di riferimento in materia di rischi psicosociali, organizzazione del lavoro e salute mentale dei dipendenti, sia di quanto emerso dalla somministrazione di un questionario a 35 lavoratori e lavoratrici e la conduzione di interviste a 5 rispondenti (due rappresentanti dei lavoratori a livello aziendale, uno a livello nazionale e due rappresentanti aziendali del dipartimento risorse umane) impiegati nel settore metalmeccanico. La ricerca sul campo, strutturata coerentemente al quadro di riferimento delineato a livello europeo dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) e dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) in materia di rischi psicosociali, ha consentito di verificare i risultati della ricerca desk effettuata.

 

Prima di dare conto di alcuni risultati, occorre anzitutto chiarire quali sono i fattori associati al lavoro che possono generare un peggioramento del benessere dei dipendenti. Riprendendo il framework teorico definito a livello europeo all’Eurofound, i fattori che hanno un effetto negativo sulla salute mentale e fisica dei dipendenti sono legati a quegli aspetti del lavoro che richiedono uno sforzo della persona che comporta con un costo fisico, psicologico e sociale (c.d.“Job stressors[1]).

 

Attraverso il questionario, è stato chiesto ai rispondenti qual è il livello di importanza associato ai diversi job stressors che hanno potenzialmente un effetto negativo sulla salute mentale e sul benessere dei dipendenti.

Secondo circa un terzo dei rispondenti al questionario, tutti i fattori di rischio correlati al lavoro inclusi nell’indagine sono almeno moderatamente importanti nelle loro aziende/nel settore metalmeccanico.

Per oltre il 40% degli intervistati alcuni fattori di rischio sono molto importanti, come la scarsa comunicazione all’interno dell’azienda e la percezione di azioni discriminatorie alla luce di determinate caratteristiche personali che portano all’adozione di comportamenti sfavorevoli. Secondo quasi la metà degli intervistati (46%), le preoccupazioni finanziarie e l’interferenza tra lavoro e vita privata sono fattori di rischio psicosociale particolarmente importanti. Secondo l’85% degli intervistati, avere difficoltà a trattare certi argomenti con un i propri superiori e colleghi rappresenta un fattore importante che incide negativamente sul benessere dei lavoratori, così come incidono negativamente – secondo circa l’80% dei rispondenti – molestie, violenze, abusi, in generale, la presenza di atteggiamenti e azioni discriminatorie.

 

Il 35% dei rispondenti ha valutato il benessere mentale generale nella propria organizzazione come scarso, il 31% come buono e il 23% come accettabile.  Quasi la metà dei rispondenti al questionario, inoltre, ritiene che l’ambiente di lavoro abbia un’influenza piuttosto forte sul benessere e sulla salute mentale (46%).

 

Per quanto riguarda le azioni per la prevenzione e la gestione dei rischi psicosociali, è stato chiesto ai partecipanti quali sono le iniziative concretamente intraprese nelle aziende o più in generale nel settore di appartenenza.

 

I risultati mostrano che i rischi psicosociali sono oggetto di specifiche politiche nel 42% dei casi. Tuttavia, una percentuale pressoché analoga (38%) si registra in direzione opposta. Le azioni più frequentemente affrontate nelle policy aziendali sono quelle contro i comportamenti sociali avversi (62%), le discriminazioni (42%). Gli effetti negativi generati da un’organizzazione del lavoro inefficiente, ad esempio carichi di lavoro eccessivi, orari di lavoro non socievoli e interferenze negative tra lavoro e vita personale/familiare, sono raramente presi in considerazione.

 

La presenza di fattori di stress lavoro-correlati nel contesto organizzativo può essere rintracciata attraverso la rilevazione di alcuni sintomi e/o segnali. Da questo punto di vista, l’indagine ha individuato tra i più comuni: stress (19%), burnout (14%), ansia e presentismo (13%) ed esaurimento (12%). Secondo il 65% dei partecipanti, questi sintomi sono sperimentati in particolare dai lavoratori appartenenti a gruppi di lavoratori più vulnerabili, in particolare coloro con condizioni contrattuali precarie (75%) e le donne (69%).

 

Nonostante l’incremento dell’attenzione al tema della salute mentale a seguito della pandemia di COVID-19, tuttavia, la mancanza di consapevolezza sul tema a livello aziendale è stata individuata come un ostacolo alla prevenzione e gestione dei rischi psicosociali dagli intervistati, sia sul versante aziendale che sindacale. Un ulteriore ostacolo è lo stigma, visto che molti lavoratori non parlano dei loro problemi per paura di essere giudicati o penalizzati nella loro carriera.

 

Per comprendere meglio quali azioni ed eventi rappresentano una minaccia per la salute mentale e l’integrità psicofisica dei lavoratori, è stata poi approfondita la percezione dei rispondenti con riferimento a fatti, atti e atteggiamenti discriminatori.

 

I dati raccolti mostrano che un terzo dei rispondenti ritiene che i lavoratori siano leggermente esposti a molestie (sessuali/verbali/di genere). Il 40% afferma che i lavoratori sono leggermente esposti a bullismo e quasi la metà (48%) ritiene che vi sia anche una leggera esposizione a minacce. Un’esposizione moderata è registrata in relazione all’abuso verbale (36%) mentre un quinto dei rispondenti afferma che è presente anche in relazione a molestie e bullismo. Tuttavia, quasi nessuno dei comportamenti considerati sarebbe estremamente diffuso, tanto che si registrano percentuali prossime allo zero per il livello massimo di esposizione.

 

Attraverso il questionario è stato poi chiesto se nelle aziende sono presenti dei fattori che invece supportano i dipendenti nel contrastare la presenza di fattori legati al lavoro che generano un impatto negativo sulla salute (c.d. “Job Resources[2]). Sul punto, i dati mostrano la disponibilità delle risorse lavorative risulta inferiore al 50% per 13 delle 14 categorie analizzate. L’unica eccezione riguarda la retribuzione adeguata, che il 57% degli intervistati considera disponibile.

 

Più in generale, dalla ricerca condotta emerge che il tema della salute mentale è probabilmente ancora difficile da gestire a livello aziendale. Il 42% dei rispondenti ritiene che la cultura aziendale a supporto della salute mentale dei dipendenti sia scarsa e il 29% ritiene che sia molto scarsa.

 

Per migliorare la cultura aziendale in merito all’importanza della salute mentale e del benessere dei dipendenti, è necessario aumentare la consapevolezza relativamente ai rischi psicosociali, secondo ben l’83% degli intervistati.

 

Ciò è particolarmente importante soprattutto se si considera che i nuovi modelli organizzativi possono avere una significativa incidenza sulla salute mentale dei lavoratori. Ad esempio, le connessioni tra digitalizzazione e salute mentale risultano particolarmente evidenti: i rischi psicosociali più frequentemente menzionati da parte degli intervistati sono infatti la ridotta interazione sociale (in particolare legata al lavoro da remoto) e l’eccessiva porosità tra vita privata e lavorativa. Le interviste evidenziano anche la rilevanza di questioni come l’aumento dell’orario di lavoro, la difficoltà nel chiedere supporto ai colleghi, il crescente senso di inadeguatezza correlato alla necessità di un continuo aggiornamento delle competenze digitali e i ritmi di lavoro sempre più frenetici.

 

Nel report viene altresì approfondito il ruolo delle parti sociali nell’affrontare la tematica dei rischi psicosociali sul posto di lavoro. Dalla ricerca sul campo è emerso, da un lato, che attualmente la salute mentale sembra non ricoprire un ruolo centrale nelle agende dei sindacati. Invero, il benessere dei dipendenti e la salute mentale sono temi oggi menzionati solo in relazione a questioni quali l’equilibrio tra lavoro e vita privata o il diritto alla disconnessione. Dall’altro lato, invece, è emerso che la contrattazione collettiva è considerata uno strumento fondamentale per la tutela della salute mentale dei lavoratori.

 

In conclusione, i risultati descritti nel report consentono di evidenziare due questioni principali. La prima è la necessità di fare luce sul ruolo attuale e potenziale della contrattazione collettiva per sostenere il benessere dei dipendenti. Ciò ha portato a indagare sia sulle misure riconosciute a livello nazionale, ad esempio attraverso l’assistenza sanitaria integrativa, sia a livello aziendale, attraverso la rilevazione di buone pratiche aziendali provenienti dal settore metalmeccanico e che sviluppano diverse strategie proprio in tema di benessere e salute mentale dei dipendenti. La seconda questione afferisce invece alla necessità di promuovere la diffusione di una cultura maggiormente sensibile al tema della salute mentale, anche in ambito sindacale. Da questo punto di vista, la formazione che verrà sviluppata nell’ambito del progetto IncreMe(n)tal, sia a livello nazionale che transnazionale, può essere utile per fare un passo avanti in questa direzione.

 

Chiara Altilio

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

@chialtilio

 

[1] Sono considerati “job stressors” ovvero fattori di rischio i seguenti: a) Comportamenti sociali negativi (abuso verbale o minacce, bullismo, molestie o violenza); b) Scarsa comunicazione all’interno dell’organizzazione c) Scarsa cooperazione all’interno dell’organizzazione; c) Paura di perdere il lavoro; d) Richieste emotive (dover affrontare superiori, colleghi difficili, ecc.); e) Orari di lavoro antisociali (lavorare molte ore, di notte, con breve preavviso o nel proprio tempo libero); f) Carichi di lavoro eccessivi (volume di lavoro molto alto da gestire); g) Discriminazione (trattamento sfavorevole o ingiusto sul lavoro in base a determinate caratteristiche); h) Preoccupazioni finanziarie (capacità di sbarcare il lunario della propria famiglia); i) Interferenza lavoro-vita privata (preoccuparsi del lavoro quando non si lavora, sentirsi troppo stanchi dopo il lavoro per fare lavori domestici o avere difficoltà a concentrarsi sul lavoro a causa di responsabilità familiari). Cfr. L. Szekér et al., Psychosocial risks to workers’ wellbeing: lessons from the Covid-19 pandemic, Eurofound Research Report, 2023.

 

[2] Sono individuate come “job resources”: a) Opportunità di carriera; b) Retribuzione adeguata; c) Orari di lavoro flessibili; d) Supporto da parte del management; e) Partecipazione organizzativa; f) Riconoscimento; g) Utilizzo delle competenze, h) Supporto sociale; i) Autonomia nello svolgimento delle mansioni; l) Importanza delle mansioni; m) Opportunità di formazione; n) Fiducia; o) Voce; p) Conciliazione vita-lavoro. Cfr. L. Szekér et al., Psychosocial risks to workers’ wellbeing: lessons from the Covid-19 pandemic, Eurofound Research Report, 2023.

 

Più tutele nella temporaneità, le sfide del nuovo CCNL della somministrazione

Più tutele nella temporaneità, le sfide del nuovo CCNL della somministrazione

Bollettino ADAPT 17 febbraio 2025, n. 7

 

Lo scorso 3 febbraio è stata sottoscritta l’ipotesi di rinnovo del CCNL del settore della somministrazione di lavoro, che disciplina il rapporto tra le Agenzie per il Lavoro e le lavoratrici e i lavoratori in somministrazione.

 

È sicuramente un contratto collettivo “atipico” in quanto non è la parte economica ad essere quella maggiormente rilevante, ma bensì la parte normativa. Questo perché i lavoratori somministrati, durante la loro missione lavorativa, godono del medesimo trattamento economico dei dipendenti assunti direttamente dall’impresa utilizzatrice. Pertanto, non vengono negoziati i classici elementi retributivi in quanto si applicano anche ai lavoratori somministrati le disposizioni dei contratti collettivi dei diversi settori.

 

Questo rinnovo ha interessato diversi istituti contrattuali, caratterizzandosi pertanto non come un accordo di “manutenzione”, ma come intesa profondamente innovativa nel settore.

 

In questa sede mi limiterò ad evidenziare solo alcuni punti, che ritengo contrattualmente più significativi dell’ampio articolato dell’intesa. Sicuramente innovativa, perché credo rappresenti un unicum in tutta Europa, è l’indennizzo in favore del lavoratore nel caso di mancato rispetto del periodo di preavviso per la comunicazione della proroga del contratto di lavoro a tempo determinato. Innanzitutto, va precisato che già nei precedenti contratti collettivi esisteva una norma che prevedeva l’obbligo, da parte delle agenzie per il lavoro, di comunicare con un preavviso da 5 a 2 giorni la proroga del contratto del lavoratore. Appare tuttavia evidente che una norma di questo tipo, senza una procedura che ne sancisca, l’esigibilità, appare fortemente depotenziata e quindi non prescrittiva. In questi quasi 30 mesi di trattative negoziali, il confronto e la partecipazione attiva dei lavoratori nell’evidenziare la necessità di un intervento sul tema era diventata una discriminante: molte le testimonianze di lavoratrici e lavoratori che, arrivati alle ultime ore del proprio contratto, non sapevano se il giorno dopo avrebbero dovuto presentarsi ancora sul posto di lavoro. Una condizione fortemente provante, sotto il profilo sociale, psicologico, umano, che incide fortemente sulla motivazione e il senso di sé nel proprio lavoro, arrivando, soprattutto quando questa esperienza si ripete ciclicamente, anche alla mortificazione.

 

Con questo rinnovo abbiamo posto un primo tentativo di risposta, ovvero abbiamo previsto un periodo di preavviso della comunicazione della proroga pari a 3 giorni e per i contratti pari o superiori a sei mesi (anche non continuativi, ovvero frutto di precedenti proroghe) nel caso di mancato rispetto di questo periodo deve essere riconosciuto al lavoratore un indennizzo giornaliero pari a 20 euro in fringe benefit (pertanto se la comunicazione della proroga dovesse arrivare all’ultimo giorno l’indennizzo ammonterà a 60 euro). L’altro elemento di forte valore politico e contrattuale che contiene questa misura consiste nel considerare l’agenzia per il lavoro come vero datore di lavoro del lavoratore. Spesso nel rapporto di lavoro in somministrazione l’impresa utilizzatrice assurge impropriamente il ruolo di datore di lavoro essendo il soggetto che gestisce il potere direttivo e autodetermina le proprie esigenze di flessibilità e di organizzazione del lavoro. Pertanto, in molteplici circostanze le Agenzie per il Lavoro, nel concedere troppa libertà alle imprese utilizzatrici, vivono la contraddizione dell’essere il datore di lavoro formale, ma di non essere il soggetto che in ultima istanza assume le decisioni in merito al rapporto di lavoro che le stesse agenzie hanno sottoscritto con i lavoratori. Per questo riteniamo che sia necessario che le agenzie si (ri)approprino di questo ruolo cruciale, perché ne va del profilo qualitativo che uno strumento contrattuale come la somministrazione può esprimere. Tornando sull’istituto del preavviso della proroga, questa norma può essere una leva attraverso la quale le Agenzie per il Lavoro possono esercitare la loro prerogativa di veri datori di lavoro, pretendendo con maggiore incisività il rispetto di una più corretta gestione ed organizzazione della flessibilità da parte delle imprese utilizzatrici. Per ultimo, appare importante rilevare come la profonda modifica di questo istituto introduca anche un elemento economico (seppur indennitario) disciplinato dal CCNL della Somministrazione e non dal CCNL applicato dall’impresa utilizzatrice, che viene corrisposto durante la missione lavorativa. Questo è pertanto un fattore di forte novità che porta le relazioni sindacali della somministrazione dentro una nuova e inedita fase, tutta da esplorare, soprattutto per come potrà essere implementata, praticata e migliorata questa misura nelle relazioni contrattuali di secondo livello.

 

Daniel Zanda

Segretario Generale FeLSA CISL

@daniel_zanda

Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/237 – La partecipazione in Elettrotecnica Rold: può l’esperienza di una PMI diventare modello di sviluppo strategico per il territorio?

Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/237 – La partecipazione in Elettrotecnica Rold: può l’esperienza di una PMI diventare modello di sviluppo strategico per il territorio?

 La presente analisi si inserisce nei lavori della Scuola di alta formazione di ADAPT per la elaborazione del

Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia.

Per informazioni sul rapporto – e anche per l’invio di casistiche e accordi da commentare –

potete contattare il coordinatore scientifico del rapporto al seguente indirizzo: tiraboschi@unimore.it

 

Bollettino ADAPT 7 ottobre 2024, n. 35

 

Lo scorso 8 luglio è stato rinnovato presso la sede principale dell’azienda a Nerviano (MI), il contratto collettivo aziendale tra Elettrotecnica Rold (media impresa attiva da oltre 60 anni nella produzione di componenti innovativi e tecnologia per elettrodomestici con siti produttivi a Nerviano, Pogliano Milanese e Cerro Maggiore) e le RSU, assistite dall’organizzazione sindacale FIM-CISL. L’accordo, completo di un Piano di Innovazione redatto il 20 giugno, conferma ed evolve un percorso intrapreso nel 2019, quando per la prima volta un progetto di innovazione organizzativa e tecnologica aziendale fu connesso all’erogazione del premio di risultato e accompagnato da una gamma di azioni di partecipazione diretta dei lavoratori, sotto il coordinamento di una commissione paritetica (di questo avevamo parlato qui). Raggiunti gli obiettivi che erano stati fissati e superate le difficoltà economiche del biennio 2021-22 dovute all’impatto della pandemia da Covid-19, il percorso progettuale e partecipativo in Rold trova con questo accordo forma e contenuti nuovi.

 

I contenuti dell’accordo

 

In particolare, l’obiettivo che l’azienda si pone oggi è la revisione dei principali processi aziendali che partono dalla progettazione di prodotti e impianti, fino alla messa in produzione, supportati dall’introduzione di un nuovo software che permetterà di connettere tutte le aree coinvolte. A questo fine, il Piano di Innovazione di durata triennale stilato dai responsabili aziendali e condiviso con la rappresentanza dei lavoratori, in conformità con gli orientamenti dell’Agenzia delle Entrate sul coinvolgimento paritetico dei lavoratori, dà conto di una serie di iniziative atte ad abilitare, dal punto di vista organizzativo e della gestione delle persone, questo importante cambiamento. Nello specifico, servendosi della progettualità e offerta didattica della Rold Academy, nata nel 2020 e situata negli spazi dell’ex area Expo 2015, ora MIND (Milano Innovation District), si confermano le direttrici tracciate dal piano formativo 2024 per quanto riguarda sia la formazione verso competenze digitali e trasversali, che l’organizzazione di seminari e workshop sulla digitalizzazione in azienda e focus group per l’approfondimento di eventuali problematiche a bordo linea. La rilevazione dei suggerimenti dei lavoratori costituisce un ulteriore tassello per il coinvolgimento delle persone e si avvale di azioni diversificate tra cui l’impiego di lavagne installate nelle linee di produzione per la segnalazione di proposte di miglioramento, e il potenziamento del ruolo dei team leader nei reparti. Novità dell’accordo 2024, nell’ambito dell’esame congiunto delle proposte di innovazione, è l’articolazione della commissione paritetica (istituita già nel 2019 e composta da responsabili aziendali e rappresentanti sindacali con il compito di individuare, proporre e monitorare gli obiettivi di miglioramento) in cinque gruppi di lavoro dedicati rispettivamente alle seguenti tematiche: efficienza organizzativa, qualità, sicurezza e ambiente, welfare, e sostenibilità. Ciascun gruppo è formato da alcuni componenti della RSU e da figure aziendali con competenze specifiche sui temi in oggetto. Inoltre, su base volontaria e provando ad assicurare una rotazione, potranno partecipare agli incontri altri tre lavoratori per ogni sito produttivo. I gruppi di lavoro dovranno riportare trimestralmente all’intera commissione paritetica l’evoluzione delle attività a loro affidate. Alla fine di ogni anno di vigenza del Piano di Innovazione, la commissione paritetica organizzerà un incontro di condivisione dei risultati ottenuti con l’intera popolazione aziendale.

 

Come in parte già avvenuto nel 2019, anche l’accordo collettivo negoziato quest’anno è fortemente sostenuto dall’impianto partecipativo e connesso al processo di innovazione organizzativa. Non solo, infatti, le questioni della salute e sicurezza, della sostenibilità ESG, del premio di risultato e del welfare, disciplinate dal nuovo contratto, sono oggetto di approfondimento, studio e progettualità congiunta nell’ambito dei gruppi di lavoro e della commissione paritetica. Ma allo specifico miglioramento di tre su cinque indicatori del premio di risultato (OEE – efficienza impianti, costi qualità – non conformità, riduzione scarti) sono dedicati due gruppi di lavoro, mentre il quinto indicatore è correlato al grado di avanzamento del percorso di integrazione del nuovo software e ottimizzazione dei processi aziendali e produttivi. Dal punto di vista economico, il nuovo premio ha un valore massimo di 2.200 euro lordi per il 2024, 2.300 euro per il 2025 e 2.400 euro per il 2026, cui si aggiunge l’erogazione di flexible benefits per un valore rispettivamente di 80 euro, 100 euro e 120 euro nelle tre annualità di vigenza dell’accordo.

 

Il contesto e le prospettive

 

Come ho già avuto modo di scrivere (sempre qui), l’aspetto più originale di questo tipo di contrattazione sta nell’essere funzionalmente integrata tanto nelle sue diverse sezioni quanto in rapporto alle strategie di sviluppo aziendale: è a partire dall’obiettivo di maggiore efficienza dei processi produttivi e più in generale di innovazione continua, che si articolano i diversi indicatori del premio di risultato, nonché le varie azioni formative e di coinvolgimento dei lavoratori. In altre parole, il contratto collettivo assume in Rold le reali sembianze di uno strumento organizzativo, la cui operatività per l’intero periodo di vigenza è sostenuta da un articolato impianto partecipativo, che si compone di pratiche di coinvolgimento diretto dei lavoratori (come la formazione, i workshop, i sistemi per la rilevazione dei suggerimenti, ecc.) e di sedi e procedure per la partecipazione della rappresentanza sindacale (come nell’ambito della commissione paritetica). Ed è proprio per l’ampiezza e profondità delle azioni partecipative che abbiamo scelto Rold come uno dei casi studio aziendali del progetto europeo BroadVoice (di cui ho dato conto qui).

 

Non è semplice rintracciare gli specifici fattori abilitanti di questo modello di relazioni industriali. Rold è un’azienda di circa 230 dipendenti guidata dalla Presidente e CEO, Laura Rocchitelli. Dal 1963 produce sistemi di sicurezza e componenti per il mondo della lavatrice e altri dispositivi esportati in tutto il mondo. Oltre ai siti produttivi in Lombardia e a una filiale commerciale a Shangai, da circa un anno ha anche uno stabilimento in Serbia dedicato all’assemblaggio manuale. Il processo produttivo è fortemente automatizzato, il ché ha da sempre determinato una particolare attenzione all’investimento in nuove tecnologie. I rapporti commerciali con i big player degli elettrodomestici costituiscono un’ulteriore leva di innovazione continua sia in termini tecnologici che più recentemente, di sostenibilità ambientale. È in questo contesto, tra l’altro, che nel 2017 è stato fondato il centro dedicato allo sviluppo e alla ricerca applicata, R Lab. Nato per promuovere la modernizzazione in Rold, oggi il laboratorio è parte attiva dell’ecosistema di innovazione di MIND, tanto che proprio quest’anno, grazie alla collaborazione con una società del biomedicale, ha lanciato la start up Beep Factory, per offrire supporto nello sviluppo di dispositivi e strumentazioni di ambito life sciences. Da questo punto di vista, Rold vanta oggi una rete di relazioni e attività che si estende ben oltre il perimetro dei suoi stabilimenti e i confini del suo core business.

 

La sensibilità nei confronti del coinvolgimento dei lavoratori pare abbia invece radici ancor più lontane, probabilmente insite nel modello a conduzione famigliare, che però nel tempo si è tramandato ed è costantemente evoluto, fino all’adozione di metodi lean. E infatti, quando nel 2016 sono stati introdotti incentivi prima fiscali e poi contributivi alla partecipazione diretta dei lavoratori, Rold non ha fatto altro che “mettere nero su bianco qualcosa che già c’era”, come sottolinea Daniela Colantropo, HR Manager di Rold, provando tutt’al più ad integrare le pratiche preesistenti in un percorso progettuale più ampio e organizzato, sulla base delle suggestioni emerse da alcuni seminari formativi ideati da Assolombarda, e potendo contare su una rappresentanza sindacale ricettiva agli stessi stimoli. È da questo “allineamento di condizioni”, come lo chiama Stefano Abbatangelo della FIM-CISL Milano Metropoli, che in Rold il confronto sindacale è arrivato fino al merito dell’organizzazione del lavoro, con una profondità e un’apertura all’apporto dei delegati e dei lavoratori che non sono scontati nelle interlocuzioni con le aziende. Il punto di incontro tra sindacato e azienda è proprio qui, nelle dinamiche organizzative in cui il sindacato aspira ad entrare per dare voce a tutta la passione, alle conoscenze e al contributo dei lavoratori e che l’azienda non ha paura di condividere con la rappresentanza, perché insieme si possano superare le reticenze di parte della forza lavoro e permettere alle azioni partecipative di dispiegare il loro potenziale.

 

La partita, al momento, non è ancora del tutto vinta: la natura paritetica dei gruppi di lavoro, infatti, non si esaurisce in una eguale rappresentanza di diversi ruoli e funzioni aziendali ma richiede che tutti i componenti siano messi nelle condizioni (in termini di tempo e competenze) per partecipare davvero alle discussioni; la partecipazione poi potrà dirsi realizzata appieno solo quando tutte le persone, forti dell’evidenza dei risultati che si ottengono, abbandonino le attuali perplessità per esprimere il loro know-how, contribuendo attivamente alla crescita organizzativa. Ci sono allora ancora aree su cui migliorare, ma Rold non ha intenzione di abbandonare la strada intrapresa. “La domanda che mi faccio”, conclude Colantropo, “è: ne posso fare a meno? No, perché altrimenti il rischio è di non essere in grado di vedere di cosa ho veramente bisogno”. Per Abbatangelo (FIM-CISL) la posta in gioco non riguarda solo il futuro e la crescita aziendali ma il modello di sviluppo di un intero territorio e di una filiera produttiva, oltre che l’evoluzione della stessa rappresentanza sindacale: l’esperienza partecipativa di Rold non è il disegno filantropico di un management illuminato, ma il frutto della scelta strategica di un’azienda che vuole difendere la propria posizione sul mercato e di un sindacato che non vuole abdicare al ruolo di protagonista nell’organizzazione del lavoro. Può allora il sentiero tracciato in Rold offrire ad altre aziende e sindacati un’ipotesi alternativa e convincente di sviluppo?

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Research Fellow

@ilaria_armaroli

Il Quarto rapporto FDV-CGIL sulla contrattazione di secondo livello: da strumento di analisi dei contratti a risorsa di innovazione organizzativa

Il Quarto rapporto FDV-CGIL sulla contrattazione di secondo livello: da strumento di analisi dei contratti a risorsa di innovazione organizzativa

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Bollettino ADAPT 30 settembre 2024, n. 34

 

A poco più di due anni dall’ultima edizione, lo scorso 17 settembre è stato presentato (qui i video della presentazione: https://www.bollettinoadapt.it/presentazione-del-iv-rapporto-sulla-contrattazione-di-ii-livello/) e poi pubblicato il Quarto rapporto sulla contrattazione di secondo livello, frutto della collaborazione tra l’area Politiche contrattuali della CGIL e la Fondazione Di Vittorio (FDV).

 

Pur mantenendo una struttura fedele alle precedenti edizioni, questo rapporto potenzia la dimensione qualitativa nello studio della contrattazione aziendale con affondi interessanti in particolare sulle procedure partecipative, le misure per la conciliazione vita-lavoro e le pari opportunità e la gestione delle cosiddette “transizioni gemelle” (digitale e ambientale), dove alcune clausole contrattuali vengono descritte e valutate anche in relazione all’assetto legislativo. È però l’analisi quantitativa l’elemento di maggior forza del rapporto FDV-CGIL, non solo per le tante variabili misurate ma anche per la capacità di metterle in relazione le une con le altre (come nella valutazione della frequenza di un certo tema rispetto ai settori merceologici di afferenza dei contratti o alla classe dimensionale aziendale) e di fornire una valutazione longitudinale. Oltre all’ampiezza e profondità temporale dell’analisi quantitativa, è possibile apprezzare anche una certa flessibilità, nella misura in cui vengono inserite voci inedite nei casi in cui lo richieda l’osservazione stessa della prassi contrattuale (come dimostra, ad esempio, l’approfondimento sui contenuti della bilateralità negoziata nella contrattazione territoriale).

 

Obiettivi e campione dell’indagine

 

Un ulteriore aspetto di novità di questo ultimo rapporto riguarda la prospettiva analitica e progettuale entro cui è inserito e realizzato. Diversamente dalle prime tre edizioni, il Quarto rapporto affianca all’obiettivo tradizionale di una valutazione qualitativa e quantitativa dell’azione contrattuale, un più ampio progetto di innovazione organizzativa della confederazione sindacale: l’evoluzione tecnologica dell’archivio della contrattazione di secondo livello (attualmente in corso) e l’analisi biennale dei relativi accordi sono infatti messe in relazione alla necessità di una rilevazione puntuale dei dati sul tesseramento e sulla rappresentanza sindacale in azienda (attingendo tanto al sistema informatico della CGIL, su cui si sta investendo, quanto alle strumentazioni di enti esterni, come l’INPS), nella prospettiva di una maggiore integrazione tra le sfere d’intervento della rappresentanza e della contrattazione.

 

Elementi di criticità nel raggiungimento di questo obiettivo restano tuttavia la mancanza di un archivio pubblico dei contratti di secondo livello e le difficoltà di reperimento dei contratti e di costruzione di campioni statisticamente rappresentativi. Circostanze ben note al gruppo di ricerca della CGIL, che per il Quarto rapporto ha costruito un campione (non probabilistico) di 1.924 accordi (202 di livello regionale, provinciale e di sito, 1.697 di livello aziendale e 25 di altra natura) sottoscritti nel triennio 2021-2023, e reperiti attraverso la ricerca nei siti delle sigle sindacali firmatarie e il contatto con le segreterie di riferimento. Il campione non contiene la totalità degli accordi raccolti ma ne rappresenta una selezione ragionata, cercando di bilanciare (con modalità che tuttavia non sono dettagliate nel documento) le federazioni firmatarie e le aree geografiche di afferenza.

 

Struttura del rapporto e dimensioni analitiche

 

Analogamente ai precedenti rapporti, anche questa pubblicazione è strutturata in quattro capitoli principali: il primo ospita una descrizione delle caratteristiche del campione di accordi; il secondo è dedicato agli aspetti generali e ai contenuti degli accordi territoriali; il terzo approfondisce le caratteristiche delle aziende firmatarie degli accordi selezionati; e il quarto si concentra sui contenuti della contrattazione aziendale, con l’aggiunta di focus specifici su temi come la partecipazione, le azioni contrattuali per far fronte all’inflazione, le misure di conciliazione vita-lavoro, le pari opportunità, e le transizioni “gemelle” (digitale e ambientale).

 

Tra le variabili prese in considerazione nell’analisi dei contratti collettivi, si elencano: l’anno di sottoscrizione, la durata, la tipologia di accordo, il livello di sottoscrizione, l’area geografica di afferenza, il luogo di firma, le parti firmatarie, il settore merceologico e le aree tematiche trattate. Per quanto riguarda il settore merceologico, esso è determinato tenendo conto della categoria sindacale firmataria, del codice ATECO associato all’azienda, nonché, qualora mancassero le informazioni precedenti, anche del contratto nazionale applicato. Ne risulta una classificazione in 13 settori merceologici che riprende in larga parte quella adottata dal CNEL, con una differenza in particolare: la voce “Altri” è stata tolta, mentre è stata aggiunta la categoria “Enti o istituzioni pubbliche”. Con riferimento, invece, alle aree tematiche, a seguito di un confronto con gli schemi adottati nei rapporti OCSEL (della CISL), ADAPT e CNEL e dell’osservazione della prassi contrattuale, è stata elaborata una griglia composta da 11 aree tematiche (Relazioni e diritti sindacali; Trattamento economico; Orario di lavoro; Organizzazione del lavoro; Inquadramento e formazione; Occupazione e rapporto di lavoro; Ambiente, salute e sicurezza; Welfare integrativo; Diritti e prestazioni sociali; Politiche industriali e crisi aziendali), ciascuna delle quali si articola in ulteriori norme/voci specifiche.

 

Per la costruzione del terzo capitolo, è stata realizzata una matrice leggermente diversa avente come base le aziende firmatarie anziché gli accordi. Tra le dimensioni analitiche considerate in questo caso ci sono: il tipo di società, la nazionalità, la ripartizione geografica, il settore merceologico, il numero di lavoratori, la classe dimensionale, il fatturato annuo, e le aree tematiche trattate. Alcune di queste informazioni sono state ricavate dalla banca dati Aida (Analisi Informatizzata delle Aziende Italiane) distribuita da Bureau van Dijk.

 

Contenuti ed evidenze

 

Nel primo capitolo, si dà conto delle caratteristiche del campione di accordi (territoriali, aziendali e di altra natura) selezionati. In particolare, si denota una maggiore concentrazione di accordi sottoscritti nel 2021, su cui del resto ci si era già in parte concentrati nel Terzo rapporto, e una quota minore di accordi conclusi nel 2023, che presumibilmente saranno oggetto anche del Quinto rapporto[1]. Inoltre, vi è un’ampissima incidenza di accordi dal perimetro multiterritoriale/nazionale, dovuto alla presenza sia di intese sottoscritte da grandi gruppi aziendali (soprattutto nel credito, nel settore energetico e nel terziario cooperativo) che di protocolli nazionali di secondo livello. Mettendo a confronto l’area geografica di afferenza dei contratti con il luogo di sottoscrizione, non si ottengono informazioni del tutto coincidenti. Infatti, se da un lato, l’area geografica su cui incide la gran parte di accordi è il Nord Italia (soprattutto per la concentrazione sulle regioni Emilia-Romagna e Lombardia), molti accordi risultano sottoscritti anche nel Lazio e telematicamente. Di rilievo inoltre è il fatto che solo il 4,4% degli accordi aziendali analizzato è firmato da RSU/RSA senza l’assistenza delle organizzazioni sindacali, nonostante la titolarità negoziale attribuita alle rappresentanze sindacali da diversi accordi interconfederali. Il settore merceologico maggiormente rappresentato è quello delle aziende di servizi (che include realtà dei settori elettrico, gas e acqua, delle telecomunicazioni, del facility management e dei servizi integrati), seguito dalla meccanica e dai trasporti. Con riferimento invece alle aree tematiche trattate, confrontando i dati di tutti e quattro i rapporti FDV-CGIL, i ricercatori rilevano: una frequenza piuttosto costante di temi come l’orario di lavoro, l’inquadramento e la formazione e l’occupazione e i rapporti di lavoro; l’ascesa delle aree afferenti al welfare integrativo e ai diritti e prestazioni sociali, così come di quelle connesse all’organizzazione del lavoro e alla salute e sicurezza, presumibilmente anche per l’impatto della pandemia da Covid-19; e nell’ultimo triennio, con il superamento del periodo emergenziale, l’importante ripresa della contrattazione sul trattamento economico.

 

Nel primo capitolo è inoltre contenuto un paragrafo dedicato al confronto tra i principali dati a disposizione sulla copertura della contrattazione di secondo livello. Attingendo alle più recenti rilevazioni del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (con riferimento alla contrattazione sui premi di risultato), e ai dati forniti da ISTAT e INAPP, si rileva il perdurare di una copertura limitata della contrattazione di secondo livello, nonostante gli incentivi fiscali e contributivi predisposti negli ultimi anni, che non avrebbero infatti impedito le attuali criticità sul fronte della dinamica salariale e della produttività.

 

Con riferimento alla contrattazione territoriale, su cui ci si concentra nel secondo capitolo, si registra una distribuzione geografica maggiormente omogenea, grazie alla presenza di molti rinnovi del settore agricolo ed edile in territori meridionali. Proprio i comparti agricolo ed edile risultano quelli maggiormente rappresentati, per via della stagione dei rinnovi provinciali condotta rispettivamente nel 2021 e nel 2023. Le aree tematiche più trattate sono invece relative alle relazioni industriali (soprattutto per la contrattazione sulla bilateralità) e al trattamento economico (per la presenza di elementi retributivi sia fissi che variabili). Altri temi ricorrenti sono l’occupazione e i rapporti di lavoro (considerata l’incidenza di clausole sulle tipologie contrattuali, assunzioni e gestione degli appalti) e il welfare. Chiude il secondo capitolo un approfondimento sui 25 accordi di altra natura, non classificabili né come aziendali, né come territoriali, configurando perlopiù protocolli interconfederali, accordi nazionali di secondo livello e dichiarazioni congiunte.

 

Il terzo capitolo sintetizza le principali caratteristiche delle 896 realtà firmatarie dei contratti aziendali analizzati. Nello specifico, si riporta una considerevole concentrazione di aziende nella manifattura, nonostante una buona copertura anche delle aziende di servizi (in particolare, quelle del settore energetico e della distribuzione di gas e acqua) e dei trasporti. Usando la piattaforma Aida – Bureau van Dijk, è possibile per il gruppo di ricerca della CGIL risalire al numero di addetti di 854 aziende firmatarie (restano fuori le realtà del settore pubblico e quelle classificate in “Altro” per cui l’informazione non è disponibile). Complessivamente, si tratta di circa 1.247.848 lavoratori che secondo il rapporto, sarebbero interessati dagli accordi aziendali, anche se non è chiaro se e come questo dato tenga conto di quegli accordi che non coprono intere aziende o gruppi ma singole unità produttive (114 secondo quanto scritto nel primo capitolo). Con riferimento, invece, al fatturato, il dato è ricavabile solo per 791 aziende e ammonta complessivamente a 238.767.134 euro: un numero piuttosto elevato, data la concentrazione di grandi gruppi industriali nel campione considerato. Infine, relativamente alle aree tematiche, relazioni e diritti sindacali ricorrono nel 70% dei contratti sottoscritti dalle imprese con 1.000 o più addetti e in oltre il 50% dei contratti delle realtà medie e medio-grandi; le percentuali scendono invece sensibilmente se si considerano le imprese più piccole. In generale, la contrattazione nelle imprese più grandi si caratterizza per un elevato grado di variabilità dei temi trattati, mentre gli accordi firmati nelle realtà di più piccole dimensioni si concentrano soprattutto sul trattamento economico e sull’orario di lavoro. A questo proposito, va anche considerato che la presenza di più di un accordo sottoscritto nel triennio analizzato da molte delle imprese di grandi dimensioni impatta sulla relativa frequenza e variabilità dei temi trattati.

 

Il quarto capitolo, infine, approfondisce i temi trattati nella contrattazione aziendale. Nel dettaglio, il trattamento economico è la materia di gran lunga più negoziata (51,2%) nel triennio 2021-2023, seguita da relazioni e diritti sindacali (39%), orario di lavoro (34,6%), organizzazione del lavoro (32,9%) e welfare integrativo (30,5%). Scendono sotto al 30% dei contratti aziendali, i temi relativi all’inquadramento e formazione (29,5%), ai diritti e prestazioni sociali (24,3%), all’occupazione e rapporto di lavoro (23,3%), alle politiche industriali e crisi di impresa (20,8%) e all’ambiente, salute e sicurezza (17,2%). Per ogni macro-area tematica, sono fornite maggiori informazioni rispetto agli specifici istituti contrattati, la relativa frequenza nei singoli anni considerati nel Quarto rapporto (anche nel confronto con le annualità precedentemente mappate), e le interazioni con altre norme contrattuali e dimensioni analitiche, come il settore merceologico e la classe dimensionale aziendale. Tra le risultanze del capitolo si possono annoverare: l’incidenza dell’esame congiunto come procedura partecipativa (15,4%) e il calo delle commissioni paritetiche rispetto alla frequenza registrata dal precedente rapporto (passando dal 12% al 6,2% degli accordi aziendali), che del resto riguardava anche gli anni dedicati alla gestione della pandemia; la crescita, nel triennio di osservazione, della contrattazione sulla retribuzione variabile, dal 27,9% degli accordi nel 2021 al 52,8% di quelli del 2023, e la relativa concentrazione nel settore manifatturiero; dal 2021 al 2023, il raddoppio dei casi in cui è contrattato un importo retributivo fisso (dal 9,3% al 20,3% degli accordi), presumibilmente in risposta alla spinta inflazionistica; l’importo medio del premio di risultato contrattato nel triennio 2021-2023 pari a 1.692 euro, in aumento rispetto ai rapporti precedenti, ancorché in larga parte legato a obiettivi tradizionali di produttività e redditività, con un ricorso sempre maggiore alla riparametrazione del premio sulla base della presenza al lavoro; l’evoluzione quantitativa e qualitativa della contrattazione aziendale sullo smartworking, che oggi interessa il 19% degli accordi aziendali (rispetto al 7% degli accordi analizzati nel triennio 2017-2019) e vanta una disciplina sempre più articolata (comprendente, ad esempio, il diritto alla disconnessione, la formazione per i lavoratori interessati, la protezione dei dati sensibili, ecc.); l’incidenza della formazione professionale e della formazione all’innovazione nei contratti aziendali analizzati e la contestuale marginalità delle previsioni su inquadramento e mansioni; l’aumento delle misure di welfare integrativo (che nell’accezione del rapporto include sia forme di assistenza sanitaria e previdenziale integrativa che di welfare aziendale per come definito dagli artt. 51 e 100 del TUIR) e di welfarizzazione del premio di risultato, che passano complessivamente dal 24,6% nel 2021 al 42,7% nel 2023; la contrattazione su diritti e prestazioni sociali particolarmente importante nei contratti aziendali del terziario; e la crescita delle misure di flessibilità oraria, dal 17% degli accordi aziendali analizzati nel precedente rapporto al 28% dell’attuale.

 

Ilaria Armaroli

Ricercatrice ADAPT Senior fellow

@ilaria_armaroli

 

[1] Dato che i rapporti FDV-CGIL vengono pubblicati ogni due anni analizzando però un triennio di contrattazione, alcune annualità sono considerate in due diversi rapporti.