Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? Parte I – La normativa di incentivazione

Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17
Da un punto di vista fisiologico tutto il processo di contrattazione collettiva persegue, più o meno direttamente, obiettivi di produttività. Non è tuttavia sempre chiaro, neppure tra gli operatori e gli attori del nostro sistema di relazioni industriali, cosa si intenda con il termine «produttività» (vedi P. Tomassetti, Di cosa parliamo quando parliamo di produttività?, in Bollettino ADAPT dell’8 marzo 2017) e, soprattutto, come questo obiettivo venga di fatto perseguito tanto dalle parti sociali che dal legislatore. È pertanto opportuno, periodicamente, fare il punto della situazione su una tematica così centrale per la crescita e, conseguentemente, anche per i relativi processi redistributivi che in Italia, come mostra il trascinarsi da decenni della questione salariale, non trovano allo stato risposte soddisfacenti (vedi già le osservazioni critiche raccolte in Contrattazione e produttività: analisi e proposte del gruppo FareContrattazione, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016).
In questa direzione un primo contributo, oggetto di questo breve intervento, può essere rivolto alla normativa di sostegno e incentivazione economica alla contrattazione di produttività intesa in senso lato. Non fosse altro per tornare a ribadire, come gruppo di ricerca di ADAPT, l’assenza nel nostro Paese di un affidabile sistema di monitoraggio e verifica degli effetti delle ingenti risorse pubbliche destinate a questo obiettivo attraverso il sostegno della contrattazione di secondo livello.
All’obbligo di deposito del testo contrattuale, come condizione per il godimento del beneficio fiscale o contributivo, non fa infatti seguito alcun monitoraggio di tipo qualitativo, tanto a livello macro che micro, sugli effetti delle misure di incentivazione. Nessun attore istituzionale ha sviluppato analisi sistematiche sui testi contrattuali e anche i soggetti che seguono, attraverso una periodica reportistica, la materia della contrattazione aziendale non hanno sin qui realizzato vere e proprie indagini campionarie sul fenomeno, seppure tutti convengano che i nodi del nostro sistema di relazioni industriali restino quelli della bassa produttività e dei bassi salari. A mancare è anche la chiarezza sulle diverse misure e sui rispettivi obiettivi fissati dal legislatore.
Il fenomeno non ha origini recenti. Accanto a isolate esperienze aziendali e settoriali (vedi diffusamente il numero monografico di Diritto delle Relazioni Industriali del 1991 sulla retribuzione ad incentivi) il tema entra a pieno titolo nella riforma degli assetti contrattuali avviata con il Protocollo Ciampi-Giugni del 23 luglio 1993 che assegna al livello decentrato la funzione di stabilire «erogazioni (…) strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità ed altri elementi di competitività (…) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa».
È tuttavia il rapporto finale del 1997 della Commissione incaricata del monitoraggio del protocollo del 1993 a segnalare persistenti limiti allo sviluppo della contrattazione aziendale e la difficoltà nel nostro Paese di avviare una vera contrattazione di produttività. Nel rapporto si legge, in particolare: «viene unanimemente riconosciuto che questo assetto contrattuale ha conseguito, in larga misura, gli obiettivi che si era prefisso in termini macroeconomici. In particolare, il contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) ha garantito le retribuzioni in termini reali redistribuendo anche, a seconda dei settori o dei comparti, una quota della produttività prodotta dal sistema. Questo risultato si è combinato con un più stretto controllo a livello centrale della contrattazione decentrata finalizzato a raggiungere gli obiettivi di politica dei redditi e a difendere l’occupazione, particolarmente in una fase di ristrutturazione dell’apparato produttivo del nostro Paese. Insufficienti appaiono invece i risultati ottenuti a livello microeconomico. La contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) che doveva accrescere la variabilità della retribuzione, concorrendo così ad una maggiore flessibilità del sistema, è stata quantitativamente e qualitativamente insufficiente ed insoddisfacente, anche per la tardiva e limitata applicazione dell’incentivazione contributiva prevista. Il contratto decentrato è stato in larga misura caratterizzato da erogazioni di tipo tradizionale, non collegate a parametri oggettivi di produttività, redditività, qualità per diverse ragioni: vischiosità delle prassi precedenti, impreparazione “culturale” dei soggetti negoziali decentrati, resistenza ad allargare le materie oggetto di contrattazione (ad es., all’organizzazione del lavoro), mancanza di strutture – anche organizzative – adeguate (si pensi alla contrattazione territoriale)».
Da qui un ripensamento delle misure di incentivazione della contrattazione di produttività rispetto alla originaria previsione di cui al decreto legge n. 499 del 1996 che conteneva un primo esempio di incentivazione della contrattazione decentrata, stabilendo l’esclusione dalla retribuzione imponibile delle «erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, (…) delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati» (art. 5). Ulteriori sgravi contributivi erano poi stati definiti, ma anche in questo caso senza un reale impatto sulle dinamiche della contrattazione collettiva, con la legge n. 247 del 2007 che prevedeva, per l’incentivazione della contrattazione di secondo livello, la decontribuzione di quelle stesse erogazioni già citate nel 1996 (si vedano in questo senso anche L. n. 92/2012, D.M. 27 dicembre 2012, circolare INPS n. 73 del 2012; per le modalità di concreta fruizione dello sgravio, invece, il messaggio INPS del 20 settembre 2013, n. 14855).
Una svolta si ha, almeno sul piano della tecnica normativa, soltanto a partire dal 2009 quando si stabilisce una riduzione dell’imposta Irpef e delle addizionali per le somme erogate a livello aziendale «in relazione a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa» (decreto-legge n. 93/2008, convertito poi nella L. n. 126 del 24 luglio 2008, Legge di Stabilità 2009, art. 2 co. 1 lett. c).
Con questa proposta, presentata in via sperimentale, viene disciplinata per la prima volta una forma di agevolazione fiscale delle somme di ammontare variabile previste per i lavoratori al livello aziendale dei contratti collettivi. In questa fase, il totale annuo detassabile si attesta su 3.000 euro ed il vantaggio viene garantito esclusivamente ai lavoratori in possesso, nell’anno precedente a quello nel quale si usufruisce della tassazione agevolata, di un reddito da lavoro dipendente inferiore a 30.000 euro. È però dal 2010 che queste misure vengono strutturate in maniera più stabile e precisa, indicando la contrattazione decentrata come sede elettiva per concordare l’erogazione di premi di risultato assoggettabili ad una tassazione di favore (aliquota del 10%). Infatti, il d.l. n. 78/2010 (art. 53, co. 1, poi convertito nella L. n. 220/2010) prescrive una vera e propria detassazione dei premi di risultato.
Anche nel 2011 la normativa è stata oggetto di proroghe, che non ne hanno alterato la struttura normativa ma solo le quantità economiche, ad esempio il reddito da lavoro dipendente necessario per accedere alla misura, che viene innalzato a 40.000 euro. Nel 2012 con la legge n. 183 del 2011 (legge di Stabilità 2012) questo istituto viene nuovamente prorogato abbassando però a 2.500 euro annui l’importo detassabile e stabilendo in 30.000 euro il reddito da lavoro dipendente di riferimento. Nel 2013 l’impianto normativo subisce, invece, significative modifiche migliorative: il comma 481, dell’articolo 1, della L. n. 228 del 2012 (legge di Stabilità 2013) prevede uno stanziamento pari a 950 milioni di euro nel 2013 e 600 nel 2014. Salvo poi l’anno 2015, nel quale l’agevolazione non è stata finanziata e quindi è rimasta inattiva, a partire dal 2016 il legislatore ha continuato a prorogare annualmente questi vantaggi fiscali.
Già in questa fase erano tuttavia persistenti le denunce circa la scarsa effettività ed efficacia della misura a partire dalla assenza di un reale meccanismo di monitoraggio. Bastava in effetti scorrere i principali accordi di detassazione sottoscritti in questa fase per rendersi conto di come il provvedimento, pur contribuendo positivamente a ridurre il peso del cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori, non avesse sostenuto veri e propri incrementi di produttività concordati a livello territoriale o aziendale. La gran parte degli accordi oggetto di analisi sono anzi risultati fotocopie l’uno dell’altro (vedi F. Fazio, M. Tiraboschi, Una occasione mancata per la crescita Brevi considerazioni a proposito della misura di detassazione del salario di produttività, in Bollettino ADAPT del 19 dicembre 2011)
Il quadro non cambia con l’ultima innovazione normativa, che corrisponde alla attuale configurazione della misura, contenuta nell’articolo 1, ai commi da 182 a 191, della Legge n. 208 del 2015 (Legge di stabilità 2016) per cui – secondo le ultime modifiche apportate (si veda la Tabella 1) – «sono soggetti a una imposta sostitutiva dell’imposta, sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 5 per cento (triennio 2025-2027), entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, i premi di risultato di ammontare variabile la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili (…), nonché le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa» (comma 182). Che questi incentivi economici non abbiano inciso in modo rilevante rispetto all’obiettivo di strutturare a livello collettivo una forma di retribuzione variabile legata ad obiettivi specifici (produttività, redditività, qualità, efficienza, innovazione) lo dimostrano le successive verifiche empiriche fatte dal gruppo di ricerca di ADAPT (vedi in particolare P. Tomassetti, Detassazione 2016: il ritorno degli accordi “fotocopia”di livello territoriale, in Bollettino ADAPT del 19 ottobre 2016) e documentate puntualmente con i Rapporti ADAPT sulla contrattazione in Italia.
Da qui l’urgenza di riprendere in mano il tema della contrattazione incentivata di produttività non solo per meglio capire, con ulteriori verifiche empiriche, utilità e impatto delle ingenti misure premiali previste dal Legislatore, ma anche per valutare l’esistenza di possibili soluzioni alternative ovvero l’adozione di accorgimenti tecnici utili ad ancorarle in modo più perentorio ai condivisibili obiettivi contenuti nella astratta previsione normativa.
PhD Candidate – ADAPT Università di Siena
Università di Modena e Reggio Emilia