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Ancora sulla contrapposizione (teorica) tra partecipazione e contrattazione

Ancora sulla contrapposizione (teorica) tra partecipazione e contrattazione

Bollettino ADAPT 27 gennaio 2025, n. 4

 

È in calendario per oggi (lunedì 27 gennaio 2025) l’avvio della discussione da parte della Assemblea della Camera dei Deputati della proposta di legge n. 1573 «La partecipazione al lavoro. Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori» dopo un lungo iter legislativo, avviatosi con la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla Cisl nell’aprile 2023 e proseguito, fino al 23 gennaio scorso, in sede di Commissioni riunite VI Finanze e XI lavoro, dove il testo è stato esaminato e in più parti emendato. Eliminati, tra le altre cose, i meccanismi premiali volti a favorire la diffusione delle prassi partecipative di tipo gestionale e organizzativo, nonché l’obbligatorietà nel campo della consultazione dei lavoratori. Soppressi – almeno dal testo liberato dalle Commissioni e rimanendo comunque intatta l’autonomia negoziale collettiva di disporre liberamente della materia – i riferimenti ai contratti collettivi per l’attivazione di piani di partecipazione finanziaria dei lavoratori dipendenti e le forme di partecipazione organizzativa. Rimangono, al momento, gli incentivi economici per la partecipazione economica e finanziaria, l’istituzione di una Commissione presso il Cnel con compiti di monitoraggio e valutazione dell’implementazione della legge e un ruolo della contrattazione collettiva nel disciplinare forme di partecipazione gestionale e definire le modalità di funzionamento della partecipazione consultiva.

 

Ed è proprio sul ruolo della contrattazione collettiva nella partecipazione che si sono concentrate, nei giorni scorsi, le critiche sollevate tanto dal fronte datoriale quanto sindacale alla proposta di legge di matrice cislina, che peraltro nella sua formulazione originaria, poneva i contratti collettivi a potenziale fondamento della gran parte delle procedure partecipative previste (per un esame del testo di legge proposto dalla Cisl si veda la sezione monografica dedicata al tema dalla rivista Diritto delle relazioni industriali, n. 4/2023). Per un verso, i vertici di Confindustria hanno sostenuto che il rinvio di legge alla contrattazione collettiva per l’istituzione di forme di partecipazione finirebbe per inasprire il conflitto nei luoghi di lavoro, precludendo una reale libera scelta delle imprese in questo ambito. Per l’altro verso, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha manifestato preoccupazioni a che la promozione della partecipazione dei lavoratori, soprattutto laddove sviluppata nell’ambito di Commissioni bilaterali, possa in qualche modo indebolire il ruolo e l’autonomia contrattuale delle rappresentanze dei lavoratori in azienda (RSU/RSA).

 

Ancora una volta, come in passato, dunque, la partecipazione risulta contesa tra una concezione tipicamente paternalistica, per la quale spetterebbe all’impresa concedere luoghi e strumenti di partecipazione, e la valorizzazione di un approccio conflittuale e di contrapposizione alle relazioni industriali, che la partecipazione potrebbe minare.

 

Non è questa la sede per un esame approfondito dell’articolato che, peraltro, potrebbe venire modificato ulteriormente nei prossimi giorni, né per tornare sulle ragioni ideologiche e culturali che hanno determinato storicamente il ritardo della partecipazione in Italia (sul tema è intervenuto recentemente anche Pietro Ichino in una intervista pubblicata sul bollettino ADAPT). Ciò che piuttosto ci preme sottolineare è come tanto nella “teoria” delle relazioni industriali (si veda la prefazione di Gino Giugni al celebre Contrattazione e partecipazione di Umberto Romagnoli, riedito nel 2024 in modalità open access da il Mulino) quanto nella “pratica” i due metodi, quello della partecipazione e quello della contrattazione collettiva, sono tutt’altro che alternativi tra loro e che, proprio perché spesso uniti dall’origine contrattuale della partecipazione, non risultano scevri nemmeno dalla volontà aziendale, dato che senza di questa non si potrebbe avere alcun contratto collettivo.

 

Delle possibilità di interazione sinergica tra contrattazione e partecipazione ne sono del resto testimoni diverse aziende e parti sociali, che in Italia hanno sviluppato la partecipazione per via negoziale. Una recente indagine condotta sui sistemi contrattuali della grande industria metalmeccanica e chimica, per esempio, mostra come la partecipazione, individuata tra i contenuti negoziali di primario interesse dalla stessa Confindustria nel Patto della Fabbrica del 2018, sia notevolmente promossa a livello di categoria e sviluppata anche al livello decentrato della contrattazione collettiva, dove due accordi collettivi su tre regolano procedure e prassi partecipative, benché quasi sempre nella forme deboli del confronto e dell’esame congiunto e non della co-decisionalità (vedi G. Impellizzieri, La cosiddetta “partecipazione organizzativa”: un primo bilancio a cinque anni dal Patto per la fabbrica, DRI, 3, 2024, consultabile in modalità open access). Nel solo 2024, inoltre, secondo le rilevazioni dell’osservatorio Farecontrattazione.it, quasi la  metà dei contratti aziendali analizzati contiene forme di partecipazione dei lavoratori (soprattutto a livello di consultazione ed esame congiunto) ai processi decisionali; quasi un terzo delle quali già si sviluppa nell’ambito di organismi bilaterali, composti da responsabili aziendali e rappresentanti dei lavoratori, e dedicati all’analisi congiunta e alla formulazione di proposte su temi come la formazione professionale, il welfare, le pari opportunità, la salute e la sicurezza, nonché i progetti di innovazione tecnologica e organizzativa (si vedano anche alcune esperienze specifiche, come il caso Rold). Quest’ultimo, in particolare, è un ambito dove l’azione contrattuale tradizionalmente fatica ad arrivare se non in una fase successiva, per deliberare sugli effetti (in termini di benessere e condizioni di lavoro) di decisioni già prese dalla direzione aziendale. Al contrario, attraverso le procedure di consultazione istituite dalla contrattazione collettiva, soprattutto nell’ambito di commissioni congiunte, sempre più rappresentanti dei lavoratori conquistano nuovi spazi di intervento nella valutazione dei piani per l’avanzamento tecnologico e organizzativo, prima che questi vengano formalmente adottati. Inoltre, l’analisi condotta su oltre 400 contratti aziendali sottoscritti nel 2024 fa emergere interessanti opportunità di interazione virtuosa tra partecipazione e contrattazione e addirittura, di potenziamento di quest’ultima, ad esempio attraverso la trasmissione alle delegazioni trattanti delle analisi e dei pareri formulati in sede di comitato bilaterale su questioni come il welfare e la conciliazione.

 

I dati e le informazioni sopra riportati non vogliono negare che la partecipazione, entrando in sede negoziale, possa diventare oggetto di scambio e quindi anche di conflitto (del resto la peculiarità della partecipazione è proprio la sua duplice natura come mezzo e come fine delle relazioni industriali, destinata quindi inevitabilmente a diventare materia di confronto tra le parti), ma mostrare che la contrattazione collettiva è già all’origine di diverse pratiche di partecipazione; questo anche in virtù della capacità del metodo negoziale (soprattutto laddove manca una rigida cornice legislativa) di inserire la partecipazione in un quadro di regole e procedure tali da assicurarle quella trasparenza e comprensibilità che sono tra i principali antidoti alla diffidenza e alle ostilità che la stessa Confindustria vorrebbe evitare e che invece un approccio unilaterale aziendale, esente da vincoli e impegni bilateralmente assunti, potrebbe finire per esacerbare. D’altro canto, non possiamo contestare del tutto nemmeno l’eventualità, paventata nei media dalla Cgil e certamente conosciuta anche dalla Cisl, che tra azione contrattuale e funzione consultiva e partecipativa possano generarsi occasioni di confronto, se non anche di conflitto, soprattutto con riferimento a temi organizzativi (come il welfare, la formazione, l’orario di lavoro, ecc.), potenzialmente oggetto di entrambi i canali di interlocuzione nelle aziende italiane. Piuttosto, con la breve ricognizione prima esposta, intendiamo fornire al dibattito politico e sindacale recentemente animatosi prove concrete che partecipazione e contrattazione possono ampliare, e non comprimere, le possibilità di voce ed espressione dei lavoratori in azienda; e che, anche qualora intervengano sui medesimi temi, non sono necessariamente in competizione e anzi, se governate con intelligenza dalle parti, possono ben integrarsi e sostenersi a vicenda, a beneficio di imprese e lavoratori.

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Senior Fellow

@ilaria_armaroli

 

Giorgio Impellizzieri

Assegnista di ricerca in diritto del lavoro – Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

ADAPT Senior Fellow

@giorgioimpe

Una rappresentanza collettiva che non vuole soccombere alla partecipazione diretta: spunti dal convegno internazionale ADAPT 2024

Una rappresentanza collettiva che non vuole soccombere alla partecipazione diretta: spunti dal convegno internazionale ADAPT 2024

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Bollettino ADAPT 16 dicembre 2024, n. 45

 

La XIV edizione del Convegno internazionale ADAPT, tenutasi a Bergamo dal 4 al 6 dicembre, e intitolata “What Do Workers Want, Today? An Interdisciplinary Reflection on Representation, Industrial Relations and Labour Law”, ha ospitato diverse presentazioni incentrate sulla partecipazione dei lavoratori. Benché diversi contributi abbiano avuto ad oggetto il canale tradizionale, ossia rappresentativo, di partecipazione dei lavoratori, non sono mancate incursioni anche negli ambiti, storicamente meno esplorati, di coinvolgimento e influenza diretta dei lavoratori, senza cioè la mediazione della rappresentanza. Lo si è fatto parlando di gruppi di lavoro e miglioramento continuo, schemi per la rilevazione dei suggerimenti dei lavoratori, opportunità per il singolo lavoratore di segnalazione di illeciti da parte dell’azienda, autonomia individuale o di team nella gestione del contenuto e dell’organizzazione del proprio lavoro, diritti di informazione verso il lavoratore relativamente all’impiego di sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, coinvolgimento dei dipendenti nei processi di due diligence.

 

Ma l’aspetto più interessante emerso dal Convegno non è stato tanto l’inclusione di questi temi nel programma dei tre giorni, quanto l’emersione, da diverse presentazioni, del bisogno urgente di abbracciare i sempre maggiori canali di coinvolgimento dei lavoratori in una prospettiva teorica e pratica di relazioni industriali. In altre parole, non si tratta semplicemente di tenere conto di queste nuove e meno “mediate” modalità di partecipazione dei lavoratori negli studi sulle relazioni industriali e la democrazia nei luoghi di lavoro (che troppo spesso hanno tenuto separate le vecchie e nuove forme di espressione). Occorre invece capire, da un lato, se le forme tradizionali di rappresentanza sono rese desuete dall’ascesa dei moderni canali di influenza e dall’altro, se così non fosse, approfondire come il vecchio e il nuovo possono integrarsi a beneficio di tutti e tre gli obiettivi delle relazioni industriali che John W. Budd (2004) ha sapientemente sintetizzato: efficiency, equity e voice. In questa ultima direzione, si è mosso l’intervento di Sara Lafuente (ricercatrice presso l’ETUI) in occasione della seconda plenaria del Convegno, che ha auspicato l’affermazione di una rinnovata agenda politica dei sindacati e della rappresentanza del lavoro che tenga conto e includa anche nuovi attori (i singoli lavoratori e gli altri portatori d’interesse) e nuovi temi (come l’innovazione organizzativa, la responsabilità sociale d’impresa, le nuove tecnologie applicate al lavoro, ecc.) e livelli (da quello multinazionale fino al singolo luogo di lavoro o reparto, senza dimenticare la comunità e il territorio) di operatività.

 

Una prima applicazione concreta di questa strategia, che testimonia la possibile sinergia tra autonomia individuale e autonomia collettiva, è emersa dalla presentazione di Heejung Chung (professoressa presso il King’s College di Londra) che nell’ultima giornata di Convegno, si è concentrata sul cosiddetto “lavoro flessibile” ovvero l’autonomia data al lavoratore di scegliere quando e dove prestare il proprio lavoro. La professoressa ha denunciato il rischio che “when workers gain more control over when and where they work – e.g. flexitime, working time autonomy, teleworking/homeworking – they end up working harder and longer”, per via di una serie di fattori tra cui l’idea di dover lavorare di più per compensare la maggiore flessibilità e per superare lo stigma, ancora ampiamente diffuso nei contesti lavorativi, che l’assenza di orari e postazioni fissi nuoccia alla produttività. Questi meccanismi, soprattutto nelle donne e in chi si occupa della cura dei famigliari, si aggiungono alla pressione di dover svolgere, data la possibilità di lavorare da casa, anche maggiori attività domestiche. Chung non ha però dimenticato di sottolineare che l’inquadramento del lavoro flessibile in una prospettiva più ampia di rinnovamento organizzativo, tanto più nell’ambito di una regolazione collettiva, può ridurre i problemi ad esso correlati.

 

Nello specifico, il lavoro flessibile non deve essere necessariamente concepito come il traguardo di chi ambisce alla conciliazione vita-lavoro, ma piuttosto come uno strumento intorno al quale poter ripensare l’intera organizzazione aziendale in un’ottica di maggiore sostenibilità. Coerentemente, occorre associare all’autonomia individuale nell’organizzazione del proprio lavoro anche la promozione di una gestione delle risorse umane che valuti il raggiungimento degli obiettivi anziché la quantità di ore di lavoro; la valorizzazione dei momenti in presenza, evitando riunioni inutili e calendarizzando incontri funzionali alla circolazione di idee e alla crescita reciproca; la concentrazione, al di fuori degli uffici, di attività di studio e approfondimento individuale che non richiedono la relazione continua con i colleghi; la predisposizione di presidi e strumenti relazionali a contrasto dei possibili rischi di isolamento; la promozione di un buon bilanciamento nell’impiego del lavoro flessibile tra madri lavoratrici e padri lavoratori; il rispetto delle fasce di disconnessione a tutela delle benessere psicosociale dei lavoratori. Un approccio al lavoro flessibile che mi pare confermi dunque, in primo luogo, l’assenza di una incompatibilità strutturale tra autonomia individuale nella gestione del proprio lavoro e rappresentanza collettiva, e in secondo luogo, il potenziale contributo di quest’ultima a che il lavoro flessibile non realizzi una eterogenesi dei propri fini. Per fare questo, però, in linea con la direzione tracciata da Lafuente, occorre che il sindacato non si faccia semplice promotore dell’istanza individuale alla flessibilità, quasi che il lavoro flessibile fosse il fine ultimo della sua azione, ma sappia non perdere di vista i ben più ampi e ambiziosi obiettivi delle relazioni industriali che ho prima richiamato (efficiency, equity, voice), così da provare a costruire una flessibilità che sia a servizio di un corretto bilanciamento tra questi.

 

Personalmente, ritengo che questo punto di vista possa costituire una valida bussola anche per i sindacati nel nostro Paese, spesso spinti ad interrogarsi sulla opportunità o meno di un loro intervento in tanti ambiti che sempre più sono oggetto di relazioni dirette tra impresa e lavoratori (il miglioramento continuo, lo sviluppo di carriera, l’orario di lavoro: tutte aree intercettate anche dal progetto di ricerca europeo, BroadVoice, i cui risultati preliminari sono stati anch’essi presentati in occasione del Convegno).

 

A lungo mi sono chiesta se ci fossero campi specifici nei quali l’intervento sindacale fosse fondamentale e al contrario temi su cui la rappresentanza potesse astenersi. Ma le presentazioni che si sono susseguite nei tre giorni di Convegno hanno mostrato che il discrimine non starebbe nell’oggetto o area di intervento quanto piuttosto nei fini e nelle modalità con cui si perseguono. Perché se il sindacato diventa esclusivamente il canale di affermazione di specifiche istanze individuali (relative, ad esempio, alla formazione, alla conciliazione, alla determinazione del proprio orario di lavoro, ecc.), e i lavoratori vengono già autorizzati ad affermare direttamente o nel rapporto con i propri responsabili queste prerogative, è ragionevole dubitare della rilevanza del sindacato stesso in qualunque area tematica. Al contrario, se la rappresentanza è capace di spostare l’attenzione dagli interessi individuali ai valori sociali di uguaglianza, emancipazione, giustizia, sostenibilità, allora i diritti individuali scendono al rango di meri strumenti e la loro validità sarebbe vagliata e costruita (attraverso regole e procedure collettive) sulla base di questi più ampi e lungimiranti criteri. Allora anche se tutti i lavoratori potessero autodeterminarsi nel proprio lavoro, non verrebbe meno il ruolo del sindacato, fautore e garante che i processi di autodeterminazione del singolo portino benefici sociali ed economici per il singolo e per la collettività. Un’ipotesi questa, di integrazione tra partecipazione diretta e rappresentativa che rifugge qualsiasi approvazione aprioristica, e che al contrario passa dal rafforzamento delle funzioni tradizionali della rappresentanza anche in relazione alla partecipazione diretta dei lavoratori.

 

Solo così il sindacato potrebbe evitare il pericolo concreto di essere declassato a mera alternativa delle forme dirette di espressione, e quindi di soccombere alla loro inesorabile ascesa; così come la prospettiva non meno infelice di essere piegato a spalla operativa della direzione d’impresa, in funzione del raggiungimento degli obiettivi che la sola impresa attribuisce alla partecipazione.

 

Ilaria Armaroli

Ricercatrice ADAPT Senior fellow

@ilaria_armaroli

 

Davvero esiste una proliferazione incontrollata e non monitorata di CCNL in Italia?

Davvero esiste una proliferazione incontrollata e non monitorata di CCNL in Italia?

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Bollettino ADAPT 27 novembre 2023, n. 41

 

Con cadenza periodica si ripropone l’allarme sulla proliferazione dei contratti collettivi di categoria e degli attori sindacali e datoriali che li sottoscrivono. In questi giorni si è parlato, per esempio, del settore della metalmeccanica nell’ambito di una operazione “verità” sui trattamenti salariali compromessi appunto, tra gli altri fattori (pandemia, guerra, inflazione), dal feroce dumping contrattuale delle sigle minori.

 

Per questo settore i contratti depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi del CNEL sono in effetti ben 48. Eppure, nonostante questa apparente proliferazione, non si può dire che il dumping selvaggio sia la regola, anzi. Analizzando i dati CNEL-INPS (provenienti dal c.d. flusso Uniemens), infatti, si scopre che, su oltre due milioni e mezzo di lavoratori impiegati nel settore metalmeccanico, ben 40 CCNL non sono applicati neanche a mille lavoratori. Ma non solo: a proposito dell’identità dei firmatari, i cinque contratti collettivi più applicati, che coprono, da soli, il 99,51% dei lavoratori del settore (parliamo dei CCNL Federmeccanica, che copre il 62,35% dei lavoratori del settore; CCNL Meccanica artigiana; CCNL Unionmeccanica; CCNL Confimi meccanica; CCNL Meccanica cooperativa) sono quelli sottoscritti congiuntamente da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil (con la sola eccezione del CCNL Confimi meccanica, stipulato dalle sole Fim-Cisl e Uilm-Uil).

 

Lo stesso si può registrare anche in altri settori come, per esempio, quello della edilizia, dove, su 50 contratti collettivi depositati presso il CNEL, solo cinque si applicano a più di mille lavoratori e, su più di seicentomila lavoratori impiegati nel settore, nel 98,34% dei casi a trovare applicazione è uno dei tre contratti sottoscritti congiuntamente da Fillea-Cgil, Filca-Cisl e Feneal-Uil.

 

In egual modo, anche nel settore terziario, distribuzione e servizi, sul (consistente) totale di 96 CCNL depositati presso il CNEL, soltanto 16 contratti trovano applicazione per più di mille lavoratori. Inoltre, dei quasi tre milioni di lavoratori (2.828.475) l’83,20% è coperto dal CCNL stipulato da Confcommercio e Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, di gran lunga il contratto collettivo più applicato, con un ulteriore 11,80% dei lavoratori comunque garantito da uno degli altri tre contratti nazionali di categoria stipulato da federazioni sindacali afferenti a Cgil, Cisl e Uil.

 

In sintesi, stando ai dati dell’archivio del Cnel, a fronte di un apparente proliferare di contratti collettivi nazionali, da un punto di vista sostanziale, che è poi quello che davvero conta nella politica sindacale e nelle dinamiche delle relazioni industriali e retributive, sono molto pochi – e di regola sottoscritti dal sindacato confederale – i contratti collettivi che hanno una maggiore applicazione.

 

Indubbiamente, quella della “maggiore applicazione” pare una nozione destinata a far discutere nel prossimo futuro. A questa, infatti, da più parti, si vorrebbe ancorare il riferimento per la definizione dei trattamenti economi minimi da garantire ai lavoratori che, secondo tali proposte, non dovrebbero mai essere inferiori a quelli pattuiti nei contratti collettivi «più applicati» nei diversi settori e categorie.

 

È tutto da comprendere, però, cosa con ciò si voglia intendere. Se il rinvio è al (singolare) contratto di categoria più applicato in ciascun settore economico e categoria ovvero ai (plurale) contratti collettivi maggiormente applicati; e, in tal caso, se il rinvio è ai tre contratti collettivi più applicati, ovvero ai cinque, e così via. Restando alla metalmeccanica, ad esempio, a tutti i lavoratori del settore, siano questi dipendenti di piccole e medie imprese, di aziende artigiane o di grandi imprese multinazionali, dovrebbe applicarsi solo il contratto collettivo più applicato, cioè quello di Federmeccanica, oppure il riferimento è ad una pluralità di contratti?

 

Così come è del tutto oscuro, nelle diverse proposte che si stanno susseguendo, il riferimento alle “categorie” e a chi possa legittimamente definire il loro perimetro, entro cui andrebbe cercato il contratto più applicato. In una recente pubblicazione di ADAPT University Press (AA. VV., Atlante della contrattazione collettiva. La geografia dei mercati del lavoro nel prisma della rappresentanza e dei sistemi di relazioni industriali, ADAPT University Press, 2023, spec. pp. 5-12), c’è stato un primo tentativo sistematico di mappatura dei contratti collettivi più applicati e degli attori della rappresentanza dell’impresa e del lavoro più rappresentativi. In questo caso, sono stati selezionati i contratti collettivi applicati a più di ventimila lavoratori per ciascuno dei settori economici, così come individuati dal sistema di classificazione ATECO 2007.

 

Questa grossolana selezione a fini conoscitivi, senz’altro utile per gli operatori delle relazioni industriali e per i professionisti della disciplina, non deve fare i conti con i limiti giuridici-istituzionali che, invece, devono essere necessariamente rispettati da una eventuale legge che voglia determinare i salari dei lavoratori sulla base dei contratti collettivi più applicati, dove peraltro il dato della maggiore applicazione non è sovrapposto necessariamente a quello della rappresentatività degli attori che firmano il CCNL.

 

Il problema (anche dell’emendamento della maggioranza al disegno di legge dell’opposizione sul salario minimo legale) è tutto qui: chi decide i perimetri contrattuali? Il legislatore? Il Ministero del lavoro? I rapporti di forza tra le parti contrattuali? L’articolo 39 della Costituzione, sul punto, è chiarissimo, e questo spiega perché, in regime di libertà di organizzazione sindacale (compresa la libertà di definizione della “categoria sindacale” prima e della “categoria contrattuale” poi, con quest’ultima che non può preesistere al contratto collettivo), la parte seconda dell’articolo 39 non è mai stata attuata. E ciò non significa sdoganare i contratti collettivi poco o nulla rappresentativi, ma implica che, per contrastare il fenomeno del dumping contrattuale, è necessario trovare strade e strumenti rispettosi del dettato costituzionale.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena
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Giorgio Impellizzieri

Assegnista di ricerca di Diritto del lavoro

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

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Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Coordinatore scientifico ADAPT

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Accordi collettivi, rappresentanza e normativa antitrust: arrivano le linee guida della Commissione Europea

Accordi collettivi, rappresentanza e normativa antitrust: arrivano le linee guida della Commissione Europea

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

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Bollettino ADAPT 10 ottobre 2022, n. 34

 

Il 29 settembre 2022 la Commissione Europea ha adottato delle linee guida per dirimere il (possibile) conflitto tra la normativa euro-unitaria in materia di antitrust e gli accordi collettivi dei lavoratori autonomi. Come è noto, l’art. 101 del TFUE vieta la stipulazione di accordi tra imprese che restringono la concorrenza. Se da un lato, il contratto collettivo negoziato tra rappresentanze dei lavoratori dipendenti e rappresentanze dei datori di lavoro non viene considerato in contrasto con l’art.101 TFUE, dall’altro, occorre considerare che i lavoratori autonomi vengono considerati dalla giurisprudenza euro-unitaria alla stregua di “imprese”: da qui il rischio di violare la normativa antitrust nel caso di negoziazione di accordi collettivi aventi ad oggetto tariffe e/o condizioni di lavoro.

 

Le linee guida hanno l’obiettivo di chiarire in quali circostanze le rappresentanze dei lavoratori autonomi possono negoziare un accordo collettivo per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Sono il frutto di un lungo iter, iniziato nel 2020 e proseguito nel dicembre 2021, con cui la Commissione Europea ha proposto una serie di misure volte a migliorare le condizioni del lavoro svolto mediante piattaforma digitale, con l’obiettivo di sostenere una crescita sostenibile delle piattaforme di lavoro digitale nell’UE. Il progetto comprendeva: 1) una proposta di direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme (cfr. F. Capponi, Dalla Commissione Europea una proposta di direttiva sul lavoro tramite piattaforma digitale: il punto sulle previsioni in materia di qualificazione del rapporto di lavoro, in Bollettino ADAPT 13 dicembre 2021, n. 44); 2) una comunicazione contenente indicazioni su come sfruttare appieno i vantaggi derivanti dalla digitalizzazione per il futuro del lavoro; 3) infine, un progetto di orientamenti che riguardante chiarimenti sull’applicazione del diritto della concorrenza dell’UE in materia di contratti collettivi dei lavoratori autonomi individuali, compresi coloro che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali.

 

La Commissione successivamente ha avviato una consultazione pubblica, invitando i diversi stakeholders (cittadini, imprese, parti sociali, mondo accademico, enti governativi e tutti i diversi portatori di interessi) a presentare osservazioni sul progetto relativo ai contratti collettivi riguardanti le condizioni di lavoro dei lavoratori autonomi individuali e le relative aporie con la materia concorrenziale.

 

Gli orientamenti pubblicati dalla Commissione il 29 settembre pongono una serie di chiarimenti sulle circostanze nelle quali determinate tipologie di lavoratori autonomi possono unirsi con l’obiettivo di negoziare collettivamente condizioni di lavoro senza entrare in conflitto con le norme di concorrenziali di matrice sovranazionale. Sul tema è intervenuta anche la Commissaria per la concorrenza dell’Unione Europea che ha messo in luce come “Getting together to collectively negotiate can be a powerful tool to improve such conditions. The new Guidelines aim to provide legal certainty to the solo self-employed people by clarifying when competition law does not stand in the way of their efforts to negotiate collectively for a better deal”. Pertanto, l’obiettivo delle nuove linee guida è quello di fornire una certezza giuridica ai lavoratori autonomi che si trovano in una condizione negoziale debole o di dipendenza economica rispetto ai committenti, cercando di chiarire quando il diritto della concorrenza non ostacola lo sforzo di negoziazione collettiva per ottenere migliori condizioni lavorative. La Commissione ritiene che la condizione di dipendenza economica si realizzi quando un lavoratore autonomo “on average, at least 50 % of total workrelated income from a single counterparty, over a period of either one or two years”, cioè quando almeno il 50% del reddito totale è legato ad un unico committente.

 

Gli orientamenti stabiliscono, nel punto III del progetto, che il diritto della concorrenza e l’art.101 TFUE non si applichino alle forme di rappresentanza collettiva dei lavoratori autonomi che si trovino in una situazione affine a quella dei lavoratori subordinati, quali i lavoratori autonomi che prestano servizi esclusivamente o prevalentemente a una sola impresa, lavorando di fianco a lavoratori autonomi o fornendo servizi a una piattaforma di lavoro digitale o attraverso una piattaforma.

 

La Commissione Europea si è posta l’obiettivo di un monitoraggio costante e una revisione di dette linee guida entro il 2030 tramite riunioni periodiche con le parti sociali europee. Queste iniziative fanno parte di una serie di azioni che la Commissione sta portando avanti con l’obiettivo di garantire condizioni migliori ai lavoratori autonomi che eseguono la propria prestazione lavorativa tramite piattaforme digitali.

 

La progettualità della Commissione su questa materia è indirizzata nell’invertire quella che è stata la pregressa impostazione sugli accordi collettivi tra lavoratori autonomi da parte della normativa, e, soprattutto, della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Diverse pronunce intervenute nel corso del tempo – a tal proposito si ricordino la sentenza Albany e la sentenza FNV Kunsten – hanno confermato questo orientamento restrittivo, che ha visto di fatto annullare le intese sottoscritte collettivamente da associazioni di attori, musicisti o altri lavoratori autonomi. L’impostazione seguita dalla Commissione Europea sembra prendere atto del profondo cambiamento strutturale che è avvenuto nell’ambito del mercato del lavoro autonomo ove i lavoratori sembrerebbero non godere più della indipendenza e forza contrattuale che normalmente derivava dallo status di lavoratore autonomo. Pertanto, sembrerebbero aprirsi degli spazi di contrattazione collettiva per i lavoratori autonomi in difficoltà per migliorare la propria situazione contrattuale.

 

Il profilo di maggiore rilevanza degli orientamenti, essendo la matrice quella della soft low, è quello attinente all’applicazione del diritto della concorrenza dell’UE, alle prerogative degli Stati membri e delle parti sociali. Le attuali impostazioni giurisprudenziali dominanti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, calate nel contesto italiano, potrebbero avere dei riflessi notevoli sulla legittimazione di alcuni soggetti e di alcune categorie (quali le rappresentanze delle professioni ordinistiche) a stabilire l’equità dei compensi professionali1. Anche in tal caso la giurisprudenza europea ha sempre identificato gli ordini professionali come cartelli di imprese impedendo perciò misure restrittive della libertà concernenti l’emanazione di tariffe professionali e dando anzi la stura al loro definitivo superamento. In questa prospettiva, che vede (ri)emergere una nuova legittimazione di soggetti collettivi ad agire negoziando accordi sindacali, potrebbero beneficiarne anche enti esponenziali come gli ordini professionali tramite una valorizzazione dei concetti di dipendenza e debolezza contrattuale del professionista. Si pensi ad esempio alla tematica dell’equo compenso e alle diverse proposte2 esaminate nel corso della legislatura appena conclusa (e non approvate, se non in prima lettura in uno dei due rami del parlamento) che attribuivano agli ordini il potere di adottare modelli di convenzione vincolanti ritenuti presuntivamente equi.

 

Concludendo, le problematiche applicative sono di non poco conto nel caso di recepimenti delle linee guide nei singoli contesti nazionali. Potrebbero configurarsi scenari in netta controtendenza con impostazioni consolidate nella prassi del diritto antitrust italiano che sin dal 2017, tramite l’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato, si è pronunciata con pareri netti in merito al tema equo compenso, ritenuto come una surrettiziareintroduzione delle tariffe minime nell’ordinamento” che si “pone in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.

 

In ogni caso, rimane centrale il tema dello sviluppo di sistemi di rappresentanza adeguati e la necessità di nuove forme di tutela del lavoro autonomo (interamente inteso) che non vadano a configurare anomalie nella concorrenza. Il rapporto tra diritto della concorrenza e diritto del lavoro è una tematica molto spinosa. Infatti, risulta ancora attuale il monito di Mario Grandi: “il diritto del lavoro (forse anche quello autonomo) non è in genere amico della libertà” e “la legislazione del lavoro riflette, nel suo decorso storico, un processo costante di restrizione dell’illimitata libertà d’impresa” (cfr. M. Grandi, In difesa della rappresentanza sindacale, DLRI, 2004, n. 104).

 

Andrea Zoppo

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@AndreaZoppo

 

1 Pur con i dovuti adattamenti ai singoli contesti nazionali è la stessa Commissione a prendere come riferimento nel punto 3.1 delle guidelines il caso della professione di architetto mono committente di un unico studio.

2 Cfr. la proposta AC.301 a prima firma Meloni, la proposta AC.1979 a prima firma Mandelli, AC.2192 a prima firma Morrone, AC. 2741 a prima firma Bitonci, AC. 3058 a prima firma Di Sarno, AC.620 a firma Porchietto, AS.1425 a firma Santillo.