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Evoluzione e prospettive della contrattazione collettiva nella regolazione dell’orario di lavoro*

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Bollettino ADAPT 8 maggio 2023, n. 17

 

Dagli albori della rivoluzione industriale in poi, gli aspetti legati alla dimensione temporale hanno costantemente ricoperto un ruolo centrale nella regolazione del lavoro. Non è un caso che, al termine della prima guerra mondiale, l’appena costituita Organizzazione Internazionale del Lavoro abbia adottato, quale suo primo atto, la Convenzione n. 1/1919, volta a limitare le ore di lavoro ad otto per giorno e a quarantotto per settimana. In Italia il medesimo principio è stato sancito dal Regio Decreto-Legge n. 692 del 1923, che – fino all’entrata in vigore della Legge n. 196 del 1997 che ha fissato l’orario normale di lavoro in quaranta ore settimanali – si è occupato di disciplinare l’orario di lavoro.

 

Tra la disciplina degli anni Venti e la Legge del 1997, però, sono state le parti sociali a farsi carico delle istanze di regolazione (e riduzione) dell’orario di lavoro: con il contratto collettivo nazionale dell’industria metalmeccanica privata del 1970, ad esempio, è fissato, a partire dal 1° dicembre 1972 e per tutti i settori merceologici afferenti alla categoria contrattuale, il limite delle quaranta ore settimanali di lavoro. Non sorprende, quindi, constatare che, all’approvazione del Decreto Legislativo n. 66 del 2003 (il testo che oggi, in attuazione delle direttive europee sull’orario di lavoro, regola la materia), nella maggioranza dei settori l’orario lavorativo era già stato ridotto a quaranta ore o era addirittura inferiore (si prenda il settore chimico, per cui dal 1998 l’orario è di trentasette ore e quarantacinque minuti a settimana).

 

Attualmente, dunque, il Decreto Legislativo n. 66 del 2003 prevede che l’orario normale di lavoro sia articolato sulla base di quaranta ore settimanali, ma consente ai contratti collettivi di stabilire una durata minore o di riferire l’orario alla durata media delle prestazioni rese in un periodo non superiore all’anno (c.d. orario multiperiodale). La possibilità di intervenire regolando la variabile temporale, dunque, risulta una delle facoltà più importanti che il legislatore assegna alle parti sociali per disciplinare e organizzare il mercato del lavoro.

 

È in ogni caso da sottolineare che, storicamente, nel contesto italiano la contrattazione in materia di tempo di lavoro si è concentrata sulla richiesta, lato datoriale, di maggiore flessibilità oraria e, lato sindacale, di minore orario di lavoro. La rivendicazione di riduzione dell’orario, inoltre, trae argomenti anche dalla constatazione per cui, secondo le ultime stime dell’OCSE disponibili, relative al 2021, l’Italia è, con 1669 ore in media effettivamente lavorate all’anno per singolo lavoratore, tra i Paesi europei in cui si lavora di più, staccata da Portogallo (1649) e Spagna (1641), ma soprattutto da Francia (1490), Danimarca (1363) e Germania (1349). È però da sottolineare che la produttività, intesa come valore del PIL per ora lavorata, da anni non cresce in Italia come negli altri Paesi europei e, dunque, i tempi di lavoro più lunghi sarebbero frutto della scarsa produttività oraria. Sul punto, è anche bene evidenziare che la produttività è determinata primariamente da fattori di contesto: le ore di lavoro, infatti, sono meno produttive in un contesto, come quello italiano, in cui la produzione è ad alta intensità di manodopera e caratterizzata da un minor apporto delle tecnologie, testimoniato anche da bassi investimenti nella ricerca e nello sviluppo (1,3% del PIL contro il 2% di media UE). Non è un caso, dunque, che le rivendicazioni sindacali di riduzione dell’orario siano accompagnate da altre istanze di intervento, oltre che sui livelli occupazionali, anche sulla innovazione tecnologica, poiché, nell’ottica delle organizzazioni dei lavoratori, un minor orario di lavoro potrebbe essere compensato da una crescita dell’occupazione e degli investimenti in ricerca e sviluppo.

 

È inoltre da segnalare che, accanto alle tradizionali prestazioni lavorative cronometricamente delimitate, grazie allo sviluppo tecnologico sono in aumento i lavoratori che rendono la propria prestazione – utilizzando le parole della Legge n. 81 del 2017 in materia di lavoro agile – con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, la cui regolazione rappresenta una delle sfide delle parti sociali per governare il mercato del lavoro in trasformazione.

 

In sintesi è da rilevare che, se non appaiono attuali gli scenari di drastica riduzione dell’orario, come quella prospettata nel 1930 da John Maynard Keynes che aveva profetizzato una settimana lavorativa di quindici ore, è indubbio che il tema della regolazione del fattore temporale è centrale per lo sviluppo dell’intero mercato del lavoro, poiché, dalle scelte in materia, potrebbero derivare conseguenze anche su produttività e livelli occupazionali. Alle parti sociali e alla contrattazione, dunque, il compito di trovare il punto d’equilibrio.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@FrancescoAlifan

 

*Pubblicato anche su Il Sole 24 Ore col titolo Quali prospettive nella regolazione, 26 aprile 2023

 

Novità da parte di PSI sul fronte digitalizzazione: arriva il Digital Bargaining Hub

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Bollettino ADAPT 8 maggio 2023, n. 17

 

Arthur Bloch, autore del celebre libro La legge di Murphy (1988), scrive: «la tecnologia è dominata da due tipi di persone: quelli che capiscono ciò che non dirigono; quelli che dirigono ciò che non capiscono».

L’affermazione, per quanto provocatoria, offre lo spunto per riflettere sull’importanza di governare – o almeno vivere da protagonisti e non quali semplici spettatori – una delle più imponenti trasformazioni del nostro tempo: la transizione digitale.

È in questo spirito, che la Public Services International (PSI), organizzazione sindacale internazionale dei servizi pubblici, fondata nel 1907 e con all’attivo 700 affiliati, in rappresentanza di 30 milioni di lavoratori di oltre 150 Paesi, ha realizzato il proprio Digital Bargaining Hub.

Si tratta di un database online, gratuito e liberamente consultabile, disponibile in versione multilingua (inglese, francese e spagnolo) e pensato per supportare in primis ma non solo – i sindacati in questa transizione, attraverso la messa a fattor comune di clausole, best practices e tecniche di negoziazione, finora sviluppate in ambito digitale.

 

La novità è stata presentata tramite webinar lo scorso 26 aprile da Daniel Bertossa, Segretario generale aggiunto di PSI, con la collaborazione di Christina Colclough e Hannah Johnston, esperte di lavoro e nuove tecnologie. Lo strumento nasce dalla consapevolezza delle implicazioni delle trasformazioni digitali nel mondo del lavoro. Molteplici sono le dimensioni direttamente interessate da queste evoluzioni: dalle riorganizzazioni aziendali indotte dai nuovi processi di automazione, alla protezione dei dati personali dei lavoratori, passando per i percorsi di reskilling e upskilling che si rendono necessari con l’introduzione di nuove tecnologie.

A seconda di come viene gestita, la transizione digitale può rappresentare una risorsa per i lavoratori e l’intera collettività, in grado di potenziare i servizi, abbattere le barriere relative al loro accesso e migliorare la qualità del lavoro, oppure una minaccia, che finisce per acuire le disuguaglianze esistenti, indebolire il potere negoziale dei sindacati e peggiorare le condizioni dei lavoratori. Per questo, ad avviso della Federazione, è indispensabile governare la transizione attraverso la contrattazione collettiva e plasmarla nell’interesse pubblico, a partire dalla comprensione dei meccanismi che la regolano.

 

L’Hub, in particolare, consultabile attraverso tre diverse modalità  report, database o mediante ricerca per parole chiave (Paese, regione, settore, sindacato stipulante o materia della clausola) , è articolato in 8 temi (quali ad es. coinvolgimento ed informazione, diversità ed inclusione, lavoro da remoto, work-life balance e lavoro su piattaforma, protezione dati e relativi diritti, ecc.) e 28 sotto-temi, ciascuno contenente clausole contrattuali, linee guida sindacali e accordi quadro, legati ai processi di digitalizzazione nelle specifiche materie. I singoli contenuti, validi sia per il settore pubblico che per quello privato, sono numerati in serie, con indicazione anche di anno, tipo di documento, sindacato stipulante e Paese di provenienza. Sono spesso corredati da un link al documento originale e possono essere copiati e utilizzati dagli operatori sindacali come modello ai tavoli negoziali.

 

La banca dati si fonda sulla collaborazione tra affiliati ed è alimentata attraverso il caricamento in piattaforma di nuove clausole e accordi. I primi contributi dall’Italia arrivano, ad esempio, da organizzazioni come la Femca Cisl (Federazione Energia, Moda, Chimica ed Affini) o FP Cgil e investono temi quali uguaglianza, diversità e inclusione, formazione e riqualificazione professionale e lavoro da remoto, con clausole che possono essere assunte come base negoziale per i sindacati nazionali e degli altri Paesi (emblematica in questo senso, è la previsione, contenuta in piattaforma e tratta da un contratto collettivo del 2020, per cui «L’amministrazione assicura che i dipendenti che si avvalgono di opportunità di telelavoro non siano penalizzati in termini di riconoscimento della professionalità e avanzamento di carriera»).

 

Lo strumento, peraltro, si inserisce in un percorso più ampio di formazione e sostegno agli affiliati in materia di transizione digitale. Oltre ai numerosi eventi e seminari organizzati dalla PSI, tra cui merita senz’altro attenzione il progetto triennale di formazioneOur Digital Future, il sito internet dell’organizzazione prevede tre risorse principali, a loro volta organizzate in una molteplicità di strumenti ulteriori, per «aiutare i sindacati e i lavoratori a recuperare il potere sulla digitalizzazione nei luoghi di lavoro e nelle loro vite».

La prima, Understanding Digitalisation, raccoglie numerosi rapporti e documenti “a misura di lavoratore”, pensati per una più agevole comprensione del fenomeno e dei suoi effetti sui dipendenti; la seconda, invece, in aggiunta al Digital Bargaining Hub, offre alcuni Negotiation Tools, guide e buone prassi in materia di raccolta e trattamento dei dati personali dei lavoratori; Assessing Your Union’s Digital Readiness, infine, rappresenta una guida interattiva, che consente ai sindacati di verificare il loro livello di preparazione digitale e identificare le aree organizzative e le politiche ancora da implementare, per supportare efficacemente i propri iscritti nella gestione della transizione digitale.

 

Francesca Di Gioia

Scuola di Dottorato di ricerca in Apprendimento ed Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@franc_digioia

 

Contrattazione collettiva: una lezione dal caso francese

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Bollettino ADAPT 26 aprile 2023, n. 16

 

Il sistema di relazioni industriali francese ha subito importanti modifiche a seguito di alcune ordinanze adottate nel 2017, conosciute come le “ordonnances Macron”. Esse hanno contribuito alla definizione dei campi di competenza dei diversi livelli di contrattazione, di categoria e aziendale, facendo chiarezza rispetto alle numerose riforme legislative che, nel tempo, sono intervenute in materia.

 

Storicamente la contrattazione collettiva a livello aziendale ha avuto come funzione principale quella di adattare le disposizioni previste nella contrattazione di categoria. Con i numerosi interventi legislativi degli ultimi anni, la contrattazione a livello aziendale ha tuttavia assunto un rilievo sempre maggiore, tanto da essere diventato il livello di riferimento e, dunque, il contratto collettivo applicabile nella maggior parte dei casi, ad eccezione di alcune limitate ipotesi in cui prevale la contrattazione di categoria. Un recente studio (N. Delahaie, A. Fretel, H. Petit, N. Farvaque, K. Guillas-Kavan, D. Messaoudi, M. Tallard e C. Vincent, Le rôle de la branche après les ordonnances Macron: entre permanence et renouvellement, in La revue de l’ires, 2022) si è fatto carico di mostrare le conseguenze di tali riforme in termini cercando di fornire una risposta sull’effettiva prevalenza della contrattazione aziendale rispetto a quella di categoria.

 

Senza entrare nello specifico di ogni riforma intervenuta in materia, è bene ricordare il quadro normativo previgente. In Francia, infatti, la contrattazione collettiva di categoria ha, da sempre, giocato un ruolo fondamentale nella strutturazione delle relazioni industriali, mentre gli accordi a livello aziendale erano rimasti per lungo tempo limitati alle grandi imprese pubbliche. Lo scenario cambia, a partire dagli anni 80, quando vengono mosse critiche nei confronti delle negoziazioni di categoria, considerate poco efficaci dal punto di vista economico, mentre, al contrario, viene sottolineata l’efficienza della contrattazione collettiva aziendale, resa possibile dalla vicinanza della stessa ai lavoratori e alla loro realtà economica. In parallelo a queste pubblicazioni accademiche, da inizio anni Ottanta sono state portate avanti importanti riforme istituzionali, aventi l’obiettivo quello di promuovere la negoziazione aziendale. Tali riforme istituzionali (a partire dalle riforme note come leggi Auroux) sono state qualificate come movimento di decentralizzazione delle negoziazioni collettive (décentralisation des négociations collectives).

 

Le ordonnances Macron (ordonnance n° 2017-1387 del 22 settembre 2017, loi n° 2017-1340 del 15 settembre 2017) possono essere considerate come un epigono di questi orientamenti. Nelle stesse si scorge l’intenzione del legislatore di rendere ancora più dinamiche e libere le modalità di negoziazione a livello aziendale, ponendosi in continuità con gli interventi legislativi precedenti che hanno attribuito sempre più autonomia alla contrattazione a livello aziendale rispetto a quella di categoria. Da questo momento l’articolazione tra i due livelli di contrattazione collettiva non è più intesa secondo una gerarchia, ma come una suddivisione di competenze tra i due livelli. L’obiettivo è quello di uscire dalla logica della derogazione, per arrivare ad una completa autonomia tra la contrattazione collettiva aziendale e quella di categoria.

 

In seguito a tali modifiche, sono distinti tre blocchi di negoziazione, la cui disciplina appare utile delineare, per comprendere quali siano i reali effetti pratici. Nel primo blocco (bloc 1 – domaines réservés), sono previste un numero limitato di tematiche, in cui prevale la contrattazione di categoria se quella aziendale non prevede delle garanzie equivalenti. Nonostante il numero di tali tematiche con le ordonnances Macron sia aumentato a 13 (da 6, come era previsto dalla loi du travail del 2016), la contrattazione di categoria non può più bloccare (verrouiller) al proprio livello la tematica di negoziazione come era previsto precedentemente, ma può solamente prevedere delle clausole di imperatività, che dovranno essere rispettate dalla contrattazione aziendale, dovendo essa prevedere delle garanzie almeno equivalenti. Con tale nuova formulazione si è giunti alla creazione di una nuova nozione giuridica, quella delle garanzie almeno equivalenti, “garanties au moins équivalents”, che si è sostituita alla classica formula presente nel codice del lavoro delle disposizioni più favorevoli per i lavoratori (principio di favore).

Nel secondo blocco (bloc 2 – Domaines que la branche peut se réserver sous condition) sono previste quattro tematiche in cui la contrattazione di categoria ha la possibilità di verrouiller ossia di bloccare al proprio livello determinate tematiche, tanto che l’accordo a livello aziendale, concluso successivamente, non può prevedere delle disposizioni differenti, a meno che, anche in questo caso, non siano almeno equivalenti. Prima delle ordonnances Macron del 2017, i temi erano illimitati, vengono, dunque, significativamente ridotti i campi di applicazione delle clausole di verrouillage.

 

Al di fuori di queste tematiche l’accordo a livello aziendale è libero, (bloc 3). Viene dunque messa in rilievo la centralità dell’accordo aziendale, in cui possono essere previste delle disposizioni meno favorevoli per i lavoratori.

 

Possiamo, dunque, notare che formalmente viene rinforzato il ruolo della contrattazione di categoria (i campi in cui essa presentava un carattere imperativo erano solo 6, sono diventati 13), ma sparisce, de facto, la gerarchia strutturale tra i due livelli di negoziazione, in favore della loro autonomia. Non si tratta più di avere, dunque, un accordo aziendale che si adatta alla contrattazione di categoria, ma di sapere in quali casi si debba applicare un accordo e in quali l’altro. Secondo la dottrina francese, se le disposizioni previste a livello aziendale sono almeno equivalenti all’accordo di categoria, prevale l’accordo aziendale. Si considera dunque che la contrattazione di categoria intervenga solo a titolo eccezionale.

 

D’altro lato, sembra che il potere della contrattazione di categoria sia, in tal modo, eccessivamente limitato. Questa affermazione viene mitigata riprendendo una disposizione, attualmente in vigore, della loi du travail del 2016, che ha introdotto l’obbligo di creare una commissione paritaria permanente di negoziazione e di interpretazione (Commission paritaire permanente de négociation et d’interprétation – CPPNI), presso ogni categoria, con il compito di vegliare e redigere un bilancio annuale degli accordi adottati a livello aziendale e dei loro impatti sulle condizioni di lavoro dei lavoratori. Oggi tale obbligo è previsto all’articolo L2232-9 del code du travail, obbligazione poi rinforzata anche dalle ordonnances del 2017.

 

Nonostante i vari interventi a livello legislativo, nella prassi, la contrattazione di categoria resta per molto tempo il perno immutabile della contrattazione collettiva. Infatti, alcuni recenti studi (vedi in particolare Jobert, Saglio, La mise en oeuvre des dispositions de la loi du 4 mai 2004, 2005; Mériaux, Evaluation de la loi du 4 mai 2004 sur la négociation d’accords dérogatoires dans les entreprises, 2008) si sono soffermati sull’impatto delle varie riforme sulla contrattazione collettiva ed hanno messo in evidenza, soprattutto in seguito alla legge del 2004 (loi del 4 maggio 2004) delle pratiche di non ricorso alla negoziazione a livello aziendale. Vari sono stati i motivi rimarcati dagli studi in questione: una incompetenza ed una inesperienza di contrattazione a livello aziendale, in particolare in caso di realtà aziendali molto piccole, accompagnata ad una conoscenza non approfondita dei testi giuridici; una paura di trovarsi in situazioni in cui manca la sicurezza giuridica, dovuta soprattutto alla rapidità con cui le riforme di sono succedute nel tempo; una regolamentazione economica delle imprese che si basa di fatto sulla regolamentazione a livello di categoria. Vengono posti all’attenzione del lettore due importanti studi, il primo effettuato nel 2004 e il secondo nel 2010, in cui si analizza il ricorso alla contrattazione di categoria su una serie di tematiche. L’analisi di tali grafici mostra come le imprese abbiano continuato a privilegiare la realtà economica e sociale della contrattazione di categoria e anzi, a prescindere dal tema analizzato, nel 2010 si fa un ricorso maggiore alla stessa rispetto al 2004. La particolarità del contesto economico del 2010, successivo a un’importante crisi economica, ha indotto i datori di lavoro a cercare sicurezza e stabilità nella contrattazione collettiva di categoria, la quale è rimasta, dunque, una referenza necessaria per le parti.

 

È bene però sottolineare che non tutte le categorie agiscono nello stesso modo. Ci sono, infatti, dei settori che si mostrano molto più attaccati al ruolo di regolamentazione svolto della categoria, rispetto ad altri. Con ruolo di regolamentazione (rôle de régulation) si fa riferimento alle condizioni minime di lavoro e di impiego fissate dagli accordi di categoria. Un esempio può essere rinvenuto nel settore relativo alle costruzioni (bâtiment), nel quale la contrattazione di categoria è vista come il luogo più pertinente per la regolamentazione professionale, avendo tenuto conto della particolare fragilità della contrattazione aziendale. Ancora, nel settore relativo al commercio (commerce) gli attori riconoscono alla contrattazione di categoria una funzione essenziale nella regolamentazione della concorrenza. In questo specifico contesto, le parti richiedono rapidamente l’estensione degli accordi siglati, in modo che essi vengano rispettati anche dalle aziende non aderenti, con l’obiettivo di limitare gli effetti della concorrenza. Può essere infine portato l’esempio del settore relativo alle proprietà (propriété) che riconosce anch’esso alla propria convenzione collettiva di categoria un forte ruolo di regolamentazione.

 

Questi esempi vengono temperati da altre realtà, come quella relativa agli uffici (bureau d’études), in cui la contrattazione di categoria non svolge un marcato ruolo di regolamentazione. Spesso queste categorie sono caratterizzate da una debole tradizione di negoziazione collettiva, sia a livello di categoria che a livello aziendale. In questi casi, la dottrina francese ritiene che gli accordi di categoria presentino una struttura più accompagnatrice, che di regolamentazione. Tanto che essi incitano le imprese e le parti a muoversi in una determinata direzione, senza, tuttavia, imporsi; per questo motivo si parla di soft law.

 

Ciò che possiamo ritenere è che gli effetti sono variabili da settore a settore: il criterio dominante è rappresentato dalla necessità di avere minime condizioni di lavoro e di impiego che contrastino la concorrenza tra le aziende. Dunque, se il costo del lavoro è un elemento chiave della concorrenza in un determinato mercato, si crea una forte incitazione alla conclusione di accordi che presentino delle disposizioni minimali, migliorabili a livello aziendale, per evitare, nel caso specifico, pratiche di dumping sociale.

 

Premesso ciò, la contrattazione di categoria ha cercato di imporsi mediante strategie di adattamento e di rinnovo, per contrastare le disposizioni delle ordonnances Macron. In particolare, le parti sociali hanno dovuto aggiornare i contenuti degli accordi per mantenere il ruolo di regolamentazione della concorrenza. Nel contratto collettivo di categoria del settore commercio, recentemente rinnovato, gli attori, per armonizzare le condizioni economiche tra aderenti e non aderenti, hanno integrato alcuni elementi della contrattazione, non previsti né nel primo blocco né nel secondo, all’interno di una tematica sulla quale avevano, invece, il potere di intervenire. Nonostante le ordonnances Macron abbiano previsto, in casi similari, la possibilità di derogare tali disposizioni, le aziende si sono conformate alla contrattazione collettiva, riconoscendole dunque un importante ruolo normativo.

 

Un ulteriore rilevante effetto delle ordonnances Macron (quali conseguenze dell’insieme delle riforme adottate) è stato quello di riconoscere, con il tempo, ulteriori funzioni alla contrattazione collettiva. Tra queste può essere riconosciuto un importante processo di istituzionalizzazione della categoria, rendendola un vero e proprio centro di risorse (centre de ressource) per le imprese, mettendo a disposizione delle imprese una serie di strumenti in tale ambito. L’obiettivo è quello di offrire una serie di misure che accompagnino le imprese, come ad esempio offrire delle guide su determinati argomenti, discriminazioni, uguaglianze, messe a disposizione delle aziende. Esemplificativa è la categoria relativa alle proprietà (propriété), in cui dal 1990 è stata adottata una politica attiva per la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani. Questo ruolo è stato rinforzato dalle ordonnances Macron.

 

In conclusione, è possibile affermare che la contrattazione di categoria non sia affatto in fase di regresso rispetto alla contrattazione aziendale. Nonostante vi siano stati numerosi interventi aventi l’obiettivo di vincolare e rendere più fragile la contrattazione di categoria, quest’ultima rimane una norma di referenza nella definizione delle condizioni di lavoro nelle aziende. Di fatti, le ordonnances Macron non hanno nei fatti modificato la percezione della contrattazione di categoria.

 

Inoltre, lo studio in esame ha confermato le principali funzioni della contrattazione collettiva di categoria: in primis, il ruolo di regolazione della concorrenza, il quale tuttavia è stato indebolito, tanto che gli attori hanno dovuto trovare dei metodi alternativi per mantenere la propria capacità normativa. In secondo luogo, la possibilità di mettere a disposizione delle imprese delle risorse: in questo caso, sembra che la funzione sia stata perfino rinforzata, in particolare nel caso delle piccole imprese.

 

Infine, possono essere sottolineate due importanti difficoltà a cui si può andare incontro: in primo luogo è stata rimarcata la differenza nella pratica del dialogo sociale nei vari settori. Vi sono infatti alcune categorie in cui c’è una debole tradizione di dialogo sociale, tanto che la contrattazione di categoria si trova in difficoltà ad esercitare la propria capacità di contrattazione. Altre difficoltà nascono, poi, per quelle imprese appartenenti a gruppi che intervengono in più settori, le quali possono, dunque, rientrare in più convenzioni collettive di categoria. Cresce allora rapidamente il rischio di concorrenza tra le varie contrattazioni di categoria. Queste difficoltà, in realtà, non sono figlie delle ordonnances Macron, ma ciclicamente si presentano ad ogni intervento legislativo senza che alcuna soluzione sia prevista in materia.

 

Angela Zaniboni

ADAPT Junior Fellow

@angzanib