contrattazione collettiva

La regolamentazione dell’apprendistato nei contratti collettivi nazionali di lavoro

La regolamentazione dell’apprendistato nei contratti collettivi nazionali di lavoro

 

Bollettino ADAPT 9 dicembre 2024, n. 44

 

Le disposizioni di legge in materia di apprendistato riconoscono da tempo un ruolo centrale all’azione delle parti sociali. Il decreto legislativo n. 81 del 2015 opera specifici rinvii alla contrattazione collettiva su una pluralità di materie e, in considerazione di ciò, l’INAPP nel compiere la sua attività di monitoraggio verso i contratti collettivi (vedi, in tema, M. Colombo, G. Impellizzieri, M. Tiraboschi, Dove va l’apprendistato? Osservazioni e proposte a partire dall’ultimo rapporto Inapp-Inps, Bollettino ADAPT 25 novembre 2024) verifica se ed in che modo le Parti sociali hanno sfruttato gli spazi di regolamentazione aperti dalla legge.

 

L’apprendistato tra legge e contrattazione collettiva

Gli spazi regolatori che il legislatore riconosce alle parti sociali in materia di contratto di apprendistato, salvo il rispetto di alcuni principi inderogabili, sono piuttosto ampi, ai sensi dell’art. 42, co. 5 secondo il quale la disciplina di questo istituto «è rimessa ad accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative». All’autonomia collettiva è affidata, soprattutto, la definizione dei moduli e formulari dei piani formativi individuali, i livelli retributivi degli apprendisti e le quote di stabilizzazione. Nel regolare la materia, devono comunque essere rispettati i principi stabiliti dall’art. 42, comma 5, d.lgs. 81/2015 che – fra gli altri – regola aspetti legati alla retribuzione (come il divieto di retribuzione a cottimo per l’apprendista), limita il sottoinquadramento (al massimo fino a due livelli inferiori rispetto a quello di destinazione) e impone almeno la presenza di un tutor o referente aziendale. La legge, inoltre, riconosce la facoltà alla contrattazione collettiva di individuare, «esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno cinquanta dipendenti» (art. 42, comma 8, d.lgs. 81/2015), limiti di contingentamento diversi da quelli legali. In ogni caso, titolari della contrattazione sono le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

 

Sono questi, del resto, gli ambiti rispetto ai quali il rapporto Inapp, al capitolo 3.5 dedicato a “La regolamentazione dell’apprendistato nei contratti collettivi nazionali di lavoro”, indaga se e come sono intervenuti i 148 rinnovi dei CCNL sottoscritti nel 2022. Sul punto, peraltro, va segnalata la scelta dell’Istituto di monitorare non solo gli accordi collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, cioè quelle selezionate dal legislatore per l’integrazione del dato di legge, ma l’universo dei rinnovi sopraggiunti nel 2022, senza distinguere le organizzazioni sindacali e datoriali firmatarie né indicando il codice alfanumerico Cnel che pur avrebbe permesso di “pesare” le tendenze della contrattazione collettiva così come individuate dal rapporto.

 

Il rapporto si limita ad indicare due settori prevalenti che si occupano dell’apprendistato. La maggiore diffusione della regolazione collettiva dell’apprendistato si registra soprattutto nel settore del Commercio, con 30 CCNL rinnovati in materia, seguito poi dal settore di Enti ed Istituzioni private (22 CCNL), dove a incidere non pare tanto l’attenzione degli attori della rappresentanza nei confronti dell’istituto quanto la (ben nota) proliferazione, non sempre genuina, di contratti collettivi di categoria in questi settori.

 

Cionondimeno, una segnalazione interessante di Inapp sul fenomeno emerge in ordine al dato della diminuzione del numero di contratti collettivi che non citano alcuna normativa inerente l’apprendistato o che rimandano a normative non più in vigore. Per contro, si rivela comunque in aumento il numero di CCNL che non regolano in alcun modo l’apprendistato (il numero da 33 è passato a 41). Questi CCNL identificano un’ampia percentuale pari al 28% del campione scelto dal Rapporto.

 

Larga parte di questi contratti collettivi (74 su 148) si occupano di disciplinare l’apprendistato professionalizzante e questo dato non ci stupisce affatto, poiché da anni ormai la tendenza del mercato del lavoro italiano mostra una netta prevalenza dell’utilizzo di questa forma di apprendistato sopra le altre due previste dalla legge.

L’apprendistato duale, cioè quello di primo e terzo livello, è regolato soltanto in 25 contratti sul totale del campione), tanto che una buona parte di questi contratti analizzati dà conto di una disciplina minima degli apprendistati duali e la totalità di questi non si discosta dalla percentuale di retribuzione prevista per legge a favore degli apprendisti.

 

La regolazione collettiva del rapporto di apprendistato

 

Il rapporto di monitoraggio si focalizza altresì su alcuni aspetti del rapporto di lavoro, evidenziando dove ed in che modo la contrattazione collettiva è intervenuta in maniera robusta ovvero ha provveduto ad effettuare semplici rinvii alle disposizioni nazionali o regionali che regolano la materia. Un primo elemento preso in considerazione è rappresentato dai sistemi di retribuzione prescelti dove si registra una presenza costante della disciplina predisposta dai CCNL.

L’art. 42, comma 5, lettera b, del d.lgs. n.81/2015, come anticipato, prevede la possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro ai lavoratori addetti a mansioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al cui conseguimento è finalizzato il contratto di apprendistato (c.d. sotto-inquadramento) oppure in modo alternativo e non cumulativo, di stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e proporzionata all’anzianità di servizio (c.d. percentualizzazione). Dall’analisi dei contratti collettivi presi a campione è emerso come per l’apprendistato scolastico o di primo livello e l’apprendistato professionalizzante o di secondo livello le parti sociali abbiano prediletto il sistema della percentualizzazione mentre al contratto di apprendistato di ricerca e alta formazione, o di terzo livello, venga applicato il sotto-inquadramento.

 

Indipendentemente dal meccanismo prescelto, si rileva come i CCNL esaminati prevedano una suddivisione in sottoperiodi, del periodo inerente alla formazione, a cui corrispondono o il sotto-inquadramento o la percentualizzazione; elementi questi che variano in aumento secondo il passare del tempo. I sottoperiodi sono considerati il più delle volte in annualità ma non mancano le ipotesi che si riferiscono invece a mesi o semestri.

La percentuale viene determinata sulla base di alcuni parametri come, ad esempio, la durata del percorso di apprendistato, e comunque va da un minimo del 45 % per i primi due anni ed un massimo del 70% per l’ultimo periodo, in caso di apprendistato di primo livello; mentre in caso di apprendistato professionalizzante si registrano percentuali più alte (in alcuni casi nell’ultimo periodo si arriva al 100%, ma non mancano anche casi contrapposti come un CCNL noleggio auto con conducente e le relative attività correlate, di cui non si conoscono le parti firmatarie, che stabilisce una percentuale minima del 20 % ed una massima del 50 %. Per quanto attiene all’erogazione del trattamento economico riferibile alla formazione interna, nessun contratto collettivo si discosta dalla percentuale del 10% di quella dovuta normalmente.

 

Altro profilo oggetto di attenzione in sede di negoziazione collettiva è rappresentato dalle clausole di stabilizzazione. Un grande numero di contratti collettivi non le disciplina, limitandosi a rinviare alla normativa di rango nazionale e a confermare la percentuale del 20 % di assunzione degli apprendisti il cui periodo di apprendistato si sia concluso nei 36 mesi precedenti. Fanno eccezione due CCNL del trasporto e uno del commercio che applicano rispettivamente le percentuali del 60%, 30% e 30% per le imprese che hanno alle proprie dipendenze più di 50 lavoratori.

 

Residuale, invece, è l’attenzione verso i profili formativi dell’apprendistato. Sebbene il contratto di apprendistato sia uno schema contrattuale che si discosta dagli ordinari rapporti di lavoro subordinato in virtù delle finalità economiche ed occupazionali che persegue e soprattutto per essere un contratto a fasi successive dove la formazione riveste un ruolo determinante, si evidenzia come la figura del tutor o referente aziendale ed anche il profilo della formazione nella quasi totalità dei CCNL presi in esame vengano scarsamente disciplinate e la materia venga demandata alla regolazione normativa di rango nazionale. Tuttalpiù, si è evidenziato che nell’apprendistato professionalizzante il monte ore della formazione aziendale viene definito in base al livello di inquadramento oltre che alla durata del percorso di apprendistato. In argomento si è visto che ai livelli più bassi corrisponde un incremento del numero di ore di formazione.

 

Omogenea ed uniforme è la disciplina riferibile al part time in apprendistato dove tutti i CCNL, ad eccezione del settore alimentare che stabilisce la percentuale del 50 %, richiamano la regola per cui il part time non può essere inferiore al 60 % dell’orario normale.

Infine, si è registrato un incremento da parte della contrattazione collettiva nel valorizzare il ruolo degli enti bilaterali, anche se sul punto non si registrano particolari novità ad esclusione del CCNL Edilizia che fra i compiti assegnati all’ente prevede, oltre al monitoraggio delle esperienze di apprendistato, anche quello di divulgazione delle esperienze più rilevanti.

 

Conclusioni

 

In conclusione, l’analisi condotta evidenzia il ruolo centrale, ma ancora non pienamente sviluppato, della contrattazione collettiva nella regolamentazione del contratto di apprendistato. Sebbene il legislatore offra ampi spazi di intervento alle parti sociali, molti CCNL si limitano a recepire le norme di legge senza introdurre significative innovazioni, con una prevalenza di attenzione all’apprendistato professionalizzante rispetto alle altre tipologie. Tuttavia, emergono problematiche rilevanti, tra cui la crescita dei contratti che non disciplinano affatto l’apprendistato e l’assenza di un’effettiva attenzione ai profili formativi e al ruolo del tutor aziendale, elementi centrali per il valore educativo dell’istituto.

 

È comunque complesso, se non azzardato, sviluppare ulteriori riflessioni sui risultati del rapporto in commento alla luce dell’opacità della contrattazione collettiva presa in considerazione, degli attori i firmatari e del numero di lavoratori e imprese coinvolte, che rende praticamente impossibile valutare l’effettività e l’impatto delle regolamentazioni collettive.

 

Federica Chirico

Apprendista di ricerca ADAPT

@fedechirico

 

Giulia Comi

Apprendista di Ricerca ADAPT

@giulphil

 

Nicoletta Serrani

ADAPT Labour Lawyers associate

@Nicserrani

 

Le conciliazioni in sede sindacale tra “formalismi”, oneri probatori e contrattazione collettiva

Le conciliazioni in sede sindacale tra “formalismi”, oneri probatori e contrattazione collettiva

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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024 n. 43

 

Non sono passate di certo inosservate le recenti pronunce della Corte di Cassazione riguardanti i presupposti affinché una conciliazione esperita in sede sindacale possa sortire gli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ. e cioè l’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni concordate dalle parti. I nuovi approdi giurisprudenziali, infatti, stanno facendo discutere tutti gli attori coinvolti nei processi di negoziazione dei c.d. verbali tombali, cioè quegli accordi in cui le parti del rapporto di lavoro dirimono in via definitiva ogni lite in occasione della relativa cessazione.

 

Con ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non sia necessario che la conciliazione sia sottoscritta presso una sede sindacale intesa nella sua dimensione “materiale”, essendo piuttosto sufficiente che il lavoratore (o la lavoratrice) sia pienamente informato e reso consapevole da un sindacalista circa le conseguenze giuridiche derivanti dalla sottoscrizione dell’accordo. In altri termini, ciò che è essenziale, ai fini della validità di una conciliazione in sede sindacale e della produzione degli effetti previsti dall’art. 2113, comma 4 cod. civ., è che il sindacalista aiuti il lavoratore a comprendere e valutare la convenienza dell’accordo rispetto all’oggetto della lite, accertandosi che la sua volontà non sia stata coartata o condizionata (anche) dal datore di lavoro. In tale quadro, nell’ordinanza la Corte precisa che la sede sindacale nella sua accezione fisico-topografica non rappresenterebbe un requisito formale ma solo “funzionale” ad assicurare al lavoratore l’esercizio di un libero convincimento, senza alcun condizionamento (cfr. punto 5 dell’ordinanza). Se, però, il lavoratore ha effettivamente ricevuto una adeguata assistenza sindacale, il fatto che poi l’accordo sia stato sottoscritto presso la sede aziendale (nel caso di specie, uno studio oculistico) non rileva, con conseguente idoneità dell’accordo a produrre l’effetto dell’inoppugnabilità previsto dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.

 

Sennonché, qualche mese dopo, la Suprema Corte è ritornata sulla questione: nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, gli ermellini hanno sostenuto che la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette. Secondo la Corte, i luoghi designati dall’art. 2113, comma 4 cod. civ.  sono tassativi e non ammettono alternative, «sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia perché in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro» (cfr. punto 18 dell’ordinanza). Pertanto, la sede sindacale alla quale farebbe riferimento tanto l’art. 2113, comma 4 cod. civ. che l’art. 411, comma 3, cod. proc. civ., non va intesa solo come “luogo virtuale di protezione” del lavoratore, integrata dalla sola presenza del sindacalista, bensì anche come “luogo fisico-topografico”.

 

Nel registrare l’esistenza di due orientamenti tra loro parzialmente in contrasto – rispetto ai quali sarebbe auspicabile un intervento nomofilattico da parte della stessa Corte – v’è però da notare, in prima battuta, che l’eventuale verbale di conciliazione sottoscritto in una sede che non sia quella “fisica” dell’associazione sindacale non darebbe luogo automaticamente ad una invalidità dell’atto, essendo sempre possibile dimostrare che, in realtà, il lavoratore (o la lavoratrice) sia stato messo nelle condizioni di poter maturare il suo libero convincimento grazie ad una effettiva assistenza del sindacalista. È questa, del resto, la conclusione alla quale perviene l’ordinanza 18 gennaio 2024, n. 1975: se la conciliazione è stata conclusa nella sede sindacale intesa in senso “materiale”, posto che la prova della piena consapevolezza dell’atto dispositivo del lavoratore può dirsi in re ipsa o desumersi in via presuntiva «graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale»; diversamente, laddove la conciliazione sia stata conclusa in una sede diversa, l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante l’assenza di una sede protetta intesa in senso “fisico”, il lavoratore, grazie all’effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto modo di comprendere contenuto ed effetto delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.

 

Posta in questi termini, dunque, la questione si sposterebbe semmai sull’eventuale ripartizione degli oneri probatori, anche perché non è sempre detto che per il solo fatto che la negoziazione dell’accordo si sia svolta presso una sede sindacale il lavoratore sia stato adeguatamente assistito ai fini del compimento delle dovute valutazioni che occorre fare in una fase in cui si sta per rinunciare definitivamente all’accertamento dei diritti connessi al rapporto di lavoro, molti dei quali inderogabili e quindi indisponibili. Pertanto, anche laddove dovesse accertarsi che la conciliazione sia stata conclusa non presso la sede sindacale ma in presenza di un sindacalista che abbia effettivamente assistito il lavoratore, l’accertamento dell’invalidità della conciliazione dipenderebbe dalla capacità del datore di lavoro di dimostrare che il lavoratore non ha subito alcun condizionamento e che sia stato adeguatamente assistito.

 

Inoltre, a non convincere del tutto il rigido orientamento assunto dalla Corte nella ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065, sovviene la lettera della legge la quale, proprio con riferimento alla conciliazione in sede sindacale, riconosce un significativo spazio di regolazione alla contrattazione collettiva. L’art. 412-ter cod. proc. civ., infatti, prevede che la conciliazione può essere esperita «altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative». Dunque, il contratto collettivo – a qualunque livello esso sia sottoscritto (nazionale, territoriale o aziendale) posto che la norma nulla dice al riguardo – ha il potere di definire delle modalità conciliative proprie, che possono anche prescindere dalla fisicità del luogo, purché idonee a tutelare la posizione di debolezza negoziale del lavoratore, dati gli effetti che scaturiscono da un accordo di conciliazione ex art. 2113, comma 4 cod. civ. È in questa cornice concettuale che deve essere ricondotto il recente accordo collettivo territoriale sottoscritto a Treviso il 22 ottobre 2024, da Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali Cgil, Cisl e Uil. Coltivando legittimamente il rinvio che l’art. 412-ter cod. proc. civ. depone in favore della contrattazione collettiva, l’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est», se coinvolta.

 

Allo scopo di garantire un adeguato livello di tutela al lavoratore, l’accordo prevede che l’organizzazione sindacale che assiste il lavoratore debba poter essere messa al corrente del luogo ove si svolgerà la conciliazione, in modo tale da poter verificare preventivamente se vi siano i rischi di particolari condizionamenti del lavoratore. Non solo; a presidio di una maggiore tutela del lavoratore, l’accordo prescrive anche la necessaria e contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto. L’accordo, dunque, definisce una procedura nel pieno rispetto degli spazi di regolazione che la legge affida all’autonomia collettiva, senza che da questa possano desumersi particolari vincoli spaziali o procedurali. È in questo senso che si giustifica la scelta delle organizzazioni sindacali di non porre l’accento sulla dimensione fisica del luogo ma sulle procedure, evidentemente consapevoli anche del fatto che l’unico precedente giurisprudenziale a propendere per una concezione anche “fisica” di sede sindacale riguarda un caso in cui le parti del rapporto avevano conciliato senza seguire delle procedure definite da alcun accordo o contratto collettivo, seguendo piuttosto la prassi (cioè conciliare presso i locali aziendali e in assenza di una disciplina collettiva di riferimento che autorizzi una tale procedura prevedendo delle contromisure).

 

Nicoletta Serrani

ADAPT Labour Lawyers associate

@Nicserrani

 

Salario minimo e contrattazione collettiva: spunti dal Rapporto UNI Europa “Time for action!”

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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2024 n. 43

 

Introduzione

 

L’articolo che segue si propone di analizzare il recente rapporto “TIME FOR ACTION!”, edito da UNI – Europa, la Federazione Sindacale Europea dei Servizi, che rappresenta in Europa 272 sindacati nazionali. Il report è inserito nell’ambito di un progetto più ampio, svoltosi da agosto 2022 ad agosto 2024 e coordinato dalla federazione, che è volto a individuare strategie per il rafforzamento della contrattazione collettiva nel settore dei servizi. Un obiettivo che, proprio con riferimento a questo ambito settoriale, assume una rilevanza centrale, considerato il tasso generalmente molto basso di copertura della contrattazione nei vari Paesi, in ogni caso ben al di sotto della soglia minima dell’’80% individuata dalla Direttiva UE 2022/2041 sui salari minimi adeguati.

 

Nel report è quindi fatta sintesi tra numerosi contributi di alcuni esperti nazionali sulla contrattazione collettiva e analisi di esperienze di policy attuate in diversi Stati europei, con l’obiettivo di arricchire il dibattito in merito alle strategie più efficaci da adottare a livello nazionale per lo sviluppo della contrattazione, nel solco degli obiettivi posti a livello eurocomunitario. Per fare ciò, sono individuati due macro – obiettivi: uno strutturale, cioè orientato all’apportare cambiamenti di policy volti a migliorare l’attività sindacale e i processi di sviluppo della contrattazione; uno culturale, volto allo sviluppo di una coscienza “comune”, nella società, sul valore del ruolo della contrattazione collettiva.

 

Il primo obiettivo è il più complesso da affrontare e si suddivide in tre ambiti d’intervento: l’incremento della capacità contrattuale degli attori coinvolti; la riforma dell’impianto normativo e organizzativo della contrattazione collettiva; l’efficacia e l’impatto degli accordi collettivi raggiunti. Tali ambiti sono a loro volta organizzati intorno a cinque aree tematiche, ricche di suggestioni e di proposte, su cui si sviluppa l’analisi. Parte delle misure suggerite dagli esperti sono riconducibili a un approccio più flessibile, il c.d. carrot approach (approccio della carota), altre invece a un approccio più incisivo, il c.d. stick approach (approccio del bastone).

 

Prima area d’intervento: capacità e forza contrattuale delle organizzazioni sindacali

 

Nella prima parte dell’analisi, vengono proposte alcune azioni di policy volte a rimuovere alcuni ostacoli che, attualmente, rendono più complesso l’esercizio delle attività delle organizzazioni sindacali.

 

In questa prospettiva, sono presentate alcune prime riflessioni in merito al requisito della rappresentatività, secondo il quale ai sindacati è riconosciuta la possibilità di negoziare i contratti collettivi nel caso in cui dimostrino di avere una certa consistenza e capacità di mobilitazione e di protezione degli interessi collettivi nel settore, territorio o azienda di riferimento. Il requisito della rappresentatività è disciplinato dai legislatori nazionali attraverso l’individuazione di soglie, le quali possono essere, a seconda dei casi, particolarmente stringenti (molto alte) o permissive (molto basse). Ognuna di queste eventualità può comportare problemi di natura diversa sul piano dell’azione sindacale: infatti soglie troppo alte renderebbero di fatto impossibile la partecipazione alla contrattazione delle organizzazioni; al contrario, soglie basse renderebbero troppo facile la costituzione di una rappresentanza e la partecipazione di questa al tavolo della contrattazione, aumentando così il rischio di yellow unions, ossia organizzazioni sindacali asservite agli interessi del datore di lavoro. Sulla scorta di alcune esperienze nazionali, vengono quindi suggeriti alcuni rimedi, che vanno dalla predisposizione di un sistema di rappresentatività automatica basato sulla firma di accordi collettivi (Croazia) alla creazione di un sistema di mutuo riconoscimento in cui gli accordi collettivi siano applicati a prescindere dal rispetto delle soglie di rappresentatività (Malta).

 

Una seconda questione problematica è rappresentata dalla presenza di discriminazioni sul luogo di lavoro: questo fattore può infatti ostacolare la partecipazione dei lavoratori alle organizzazioni sindacali, nel momento in cui vengano indotte le dimissioni o negate specifiche opportunità di carriera ai lavoratori sindacalizzati. Sono numerose le proposte di rafforzamento dei sistemi normativi che già prevedono sanzioni in merito, ad esempio attraverso l’estensione della protezione assicurata ai whistleblower e la predisposizione di politiche che portino alla stipulazione di patti a tutela della carriera.

 

Un terzo punto riguarda il tempo e le risorse a disposizione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per dirigere e organizzare le attività sindacali. In quest’ottica, si propone la disponibilità di utilizzo degli spazi e materiali aziendali (come uffici e computer), così come la previsione di aumenti salariali in virtù del numero di lavoratori rappresentati. È importante garantire ai rappresentanti l’incontro con i lavoratori, favorendone le condizioni, soprattutto in situazioni con un alto tasso di lavoratori da remoto, dispersi o mobili, ad esempio consentendo la presenza dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali al momento dell’assunzione, di modo da consentire la possibilità per il sindacato di farsi conoscere e da rendere consapevoli i lavoratori dei propri diritti.

 

Un quarto nodo problematico riguarda la costante presenza di forme di lavoro flessibile e precario, dato che i lavoratori assunti con tipologie contrattuali non standard sono disincentivati a unirsi alle organizzazioni sindacali.

 

Infine un tema critico che si riscontra in fase di applicazione degli accordi collettivi aziendali riguarda i soggetti beneficiari delle negoziazioni; di fatto gli accordi raggiunti ricadono sia sui lavoratori iscritti sia sui non iscritti, potendo così comportare una riduzione della partecipazione sindacale. Si tratta della questione dei c.d.free – riders, cioè dei lavoratori che non si iscrivono ai sindacati, potendo comunque beneficiare dei risultati delle negoziazioni. Per far fronte a questo nodo problematico, sono delineate tre possibili linee d’azione: limitare il costo dell’iscrizione ai sindacati, attraverso sgravi fiscali, indennità o rimborsi; prevedere “commissioni solidali” costituite da quote monetarie versate da ogni lavoratore e volte alla creazione di un fondo per la contrattazione collettiva che andrebbe a finanziare economicamente l’attività di contrattazione dei sindacati; prevedere l’applicazione degli accordi solo agli iscritti al sindacato firmatario, una soluzione che tuttavia sarebbe incostituzionale secondo gli ordinamenti di molti paesi. Infine una visione più stringente della tematica porterebbe alla creazione di un sistema obbligatorio d’iscrizione alle organizzazioni sindacali, così come attuato in Austria dove è prevista l’iscrizione obbligatoria dei lavoratori alla Camera del lavoro, la quale offre assistenza al lavoratore e fornisce servizi legali.

 

Seconda area d’intervento: il potere contrattuale e la partecipazione dei datori di lavoro alla contrattazione collettiva

 

Nell’ambito del report viene poi analizzata la questione del mandato delle organizzazioni datoriali, la cui mancanza mina la capacità (e volontà) dei datori di lavoro ad avviare le negoziazioni con le organizzazioni dei lavoratori. Problema urgente, soprattutto per le realtà multi –datoriali, che può essere risolto solo con l’intervento del’azione pubblica.

 

Su tale questione, sono suggerite due strategie di portata diversa.

 

L’approccio più morbido suggerisce l’introduzione di fondi, incentivi, co – finanziamenti, crediti fiscali e la possibilità di deroga ad alcune leggi, riconosciuti ai datori di lavoro che si impegnino attivamente nella contrattazione di settore. Tali incentivi hanno lo scopo di rendere disponibili maggiori risorse per i datori di lavoro, così che questi possano muoversi più liberamente nell’ambito delle regole poste attraverso la contrattazione collettiva. Inoltre, essendo necessaria la formazione dei soggetti coinvolti nelle trattative, soprattutto in ambiti multi – settoriali, è cruciale la previsione di corsi e la messa a disposizione di risorse, come la consulenza di esperti o il rimborso per i costi sostenuti in merito.

 

Diversamente si potrebbe prevedere l’obbligo di adesione obbligatoria alle organizzazioni datoriali, come accade in Austria e Slovenia, visione certamente più coercitiva che può avere l’effetto di richiedere un impegno maggiore ai soggetti coinvolti, senza predisporre risorse adeguate.

 

Terza area d’intervento: l’importanza della politica

 

In linea con quanto visto sopra, le politiche pubbliche possono rivestire un ruolo importante nello sviluppo dei processi di contrattazione collettiva, in particolare nell’ottica di favorire il raggiungimento di accordi compromissori. In questo senso la politica, oltre alla predisposizione di risorse conferite alle organizzazioni sindacali e finalizzate ad agevolare il loro operato, può assicurare la disponibilità di dati accurati e completi, supportando indagini statistiche settoriali, favorendo la trasparenza e ampliando il principio di buona fede cui s’ispirano le regole della contrattazione.

 

Secondo un approccio più flessibile, la politica può poi prevedere la creazione di “sedi” di negoziazione, finanziate e organizzate dallo Stato, dove i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali possano incontrarsi per discutere; la messa a disposizione di esperti governativi, con un ruolo di mediazione; la previsione di benefit (es. sgravi fiscali) condizionati alla conclusione di un accordo collettivo. Inoltre, sempre la politica potrebbe obbligare le parti sociali a confrontarsi su determinati argomenti come salute, formazione e sicurezza, salario, equilibrio vita – lavoro, rischio occupazionale e schemi classificatori, come accade in Francia. D’altro canto, il processo di contrattazione può essere salvaguardato anche attraverso la previsione di obblighi in capo ai datori di lavoro, rendendo la contrattazione coercitiva, sia su determinati argomenti che in un’ottica generale, oppure attraverso la previsione di standard di settore, applicabili in caso di fallimento delle negoziazioni collettive (es. Nuova Zelanda, Australia). Inoltre in molti Paesi è stato introdotto il diritto unilaterale di ricorrere all’arbitrato, misura già applicata su richiesta di entrambe le parti, in caso d’impossibilità a raggiungere un accordo (es. Grecia).

 

Da ultimo, l’intervento della politica è cruciale in tema di diritto di sciopero, punto critico e fondamentale per il funzionamento del sistema e l’effettività della contrattazione collettiva. In questo senso, sarebbe auspicabile la previsione di minori restrizioni al suo esercizio, sia legislative, sia rimuovendo le barriere culturali: sempre più spesso, infatti, ciò che manca è la consapevolezza da parte dei lavoratori in merito al potere di questo strumento.

 

Quarta area d’intervento: riconoscimento ed efficacia degli accordi collettivi

 

La quarta area tematica sottolinea la necessità di rafforzare lo status giuridico degli accordi collettivi, soprattutto in relazione alle altre norme applicate in tema di diritto del lavoro. In questi termini, si parla di una necessaria chiarificazione del loro ruolo all’interno della gerarchia delle norme prevista nei vari ordinamenti e dell’introduzione del principio di favore, secondo cui in caso di concorso tra diverse norme, prevalgono quelle che prevedono un trattamento più favorevole al lavoratore.

 

Anche su questo aspetto, le strategie suggerite si distinguono tra carrot e stick approach.

 

Interventi più accomodanti incoraggiano l’ampliamento dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali, rendendoli applicabili non solo ai soggetti firmatari, ma a tutti i lavoratori del settore attraverso la fissazione di standard minimi di lavoro con riguardo agli aspetti fondamentali del rapporto di lavoro, come l’ammontare degli stipendi e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Utile al fine sarebbe anche la previsione di clausole d’uscita e la restrizione nell’uso di clausole d’eccezione, in modo da rendere possibile derogare all’accordo solo con procedure e requisiti precisi, in maniera tale da limitare gli abusi. Inoltre potrebbero essere introdotti meccanismi pubblici che prevedano l’applicazione automatica degli accordi collettivi di settore in caso d’appalto pubblico o premiando la loro applicazione attraverso il sistema fiscale, estendendo la validità dei contratti collettivi applicati anche sui nuovi assunti (come nel caso tedesco). Nei Paesi dove non via sia un corpus normativo preesistente sul tema sul quale intervenire è auspicabile la stipula di accordi ex novo che applichino quanto descritto in precedenza.

 

Proposte più forti auspicano invece la creazione di corti del lavoro specializzate per rendere gli accordi collettivi obbligatori eil potenziamento dei servizi ispettivi del lavoro, al fine di monitorare con più efficacia lo sviluppo della contrattazione su alcuni temi cruciali.

 

Quinta area d’intervento: interventi culturali ed educativi

 

Infine, nel documento si sottolinea come sia fondamentale lo sviluppo di una consapevolezza culturale sul ruolo della contrattazione collettiva nei vari sistemi nazionali: per questo motivo, diversi esperti suggeriscono la creazione di meccanismi di controllo per monitorare l’estensione e il contenuto degli accordi collettivi, nonché l’introduzione di fondi alla ricerca, accademica e non, sui temi delle relazioni industriali, così che in questo modo si possa contribuire allo sviluppo del dialogo tra le parti sociali.

 

Per creare una “cultura” sul valore della contrattazione collettiva, non si può poi prescindere dall’ “educazione”: centrale, anche in questo campo, può essere il sostegno del sistema pubblico. Tra gli esempi virtuosi, si osserva come in alcuni Paesi siano stati istituiti servizi di avvio al lavoro, anche per migranti, e corsi di gestione aziendale per incentivare l’interesse alla contrattazione collettiva. Inoltre, è suggerito l’utilizzo di campagne pubbliche d’informazione sui benefici legati all’applicazione degli accordi collettivi.

 

Conclusioni

 

Il report analizzato chiarisce come la politica possa svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo dei sistemi di contrattazione collettiva: essa può incoraggiare il confronto direttamente attraverso modifiche normative, ma anche indirettamente attraverso il sistema educativo. La creazione di spazi atti al dialogo tra parti sociali e la predisposizione di risorse ad hoc su questi temi, sono poi fattori imprescindibili al fine di sviluppare accordi collettivi che assicurino condizioni di lavoro dignitose ed eque per tutti i lavoratori.

 

Celeste Sciutto

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

@celeste_sciutto

 

La contrattazione decentrata in Francia nel 2023: il punto di vista della Dares

La contrattazione decentrata in Francia nel 2023: il punto di vista della Dares

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Bollettino ADAPT 11 novembre 2024, n. 40

 

Nel mese di ottobre 2024, la Dares, vale a dire il servizio di analisi statistica al servizio del Ministero del lavoro francese, ha fornito i dati relativi alla contrattazione collettiva d’impresa svoltasi nel corso dell’anno 2023.

Si tratta di un’analisi che, in aggiunta al report sulla contrattazione collettiva pubblicato annualmente dalla Direzione generale del lavoro del ministero, offre un focus su quello che è stato il dialogo sociale nel livello di contrattazione di maggiore prossimità.

 

L’analisi statistica condotta dà contezza dei risultati raggiunti dalla contrattazione collettiva in termini numerici, ma anche in termini qualitativi, di quali sono state le tematiche prevalentemente oggetto di negoziazione nel contesto d’azienda.

 

Al fine di comprendere la rilevanza dell’analisi fornita va precisato che il campione di riferimento, sono i testi frutto di contrattazione depositati attraverso la piattaforma Téléaccord presso le direzioni dipartimentali dell’impiego, del lavoro e della solidarietà (Dreets) entro il 31 dicembre dell’anno oggetto di studio, in questo caso il 31 dicembre 2023. Si tratta dunque di uno studio basato su dati parziali che potranno essere rivisti più avanti facendo un ricalcolo basato su quei testi siglati nel 2023 ma depositati successivamente al mese di dicembre.

 

Volendo offrire una panoramica precisa e che possa risultare utile, anche in un’ottica comparata col sistema italiano, va precisata la metodologia seguita dalla Dares nella stesura: viene dapprima fornita una panoramica generale della contrattazione d’impresa andando a verificare se ci sia stato un ampliamento od una contrazione del fenomeno rispetto agli anni precedenti. Una volta forniti i dati complessivi vengono posti in evidenza quelli che sono risultati essere gli istituti e i temi giuslavoristici maggiormente discussi dalle parti sociali e anche in questo caso viene evidenziata la tendenza avutasi rispetto agli anni passati.

 

Altro elemento che permette una piena comprensione del tenore del dialogo sociale è il fatto che viene ben reso chiaro se i testi sottoscritti sono nuovi contratti oppure delle semplici clausole addizionali che vanno ad integrare accordi preesistenti.

Altro importante dato su cui l’istituto di statistica pone l’attenzione è la modalità di adozione con la quale i vari accordi sono stati adottati, se si tratta, cioè, di contratti collettivi venuti ad esistenza e sottoscritti dai delegati sindacali presenti a livello d’azienda, ovvero la cui adozione è successiva allo svolgimento di un referendum sindacale.

 

Relativamente all’istituto del referendum sindacale nel contesto francese è necessario compiere un breve excursus esplicativo, che chiarisca il motivo per cui è rilevante il fatto che l’analisi condotta dalla Dares ci tenga a fornire delle percentuali precise circa la modalità di adozione degli accordi collettivi d’impresa. L’istituto del referendum sindacale, così come applicato oggi, è stato introdotto in Francia con legge n. 1088/2016; si tratta di uno strumento a cui può ricorrere il datore di lavoro e/o i sindacati nell’ambito del processo di contrattazione. A seconda della tipologia d’impresa interessata dalla procedura referendaria vi sono delle differenze nelle modalità di applicazione: nel caso di un’impresa con meno di 11 dipendenti è possibile ricorrere al referendum al fine di adottare un contratto collettivo in assenza di delegati sindacali, qualora invece si tratti di una realtà aziendale che occupa tra gli 11 e i 20 dipendenti è possibile ricorrere al referendum al fine di negoziare un accordo collettivo in mancanza di eletti all’interno del Comitato sociale e economico (CSE), vale a dire la rappresentanza sindacale in azienda; per tutte le altre imprese, invece, è possibile ricorrere al referendum soltanto per l’adozione di accordi minoritari.

 

Tornando ora al perché dei dati forniti dalla Dares sulla modalità di adozione dei vari contratti collettivi aziendali, è chiaro che si tratta di un dato che ci permette di comprendere in che contesto aziendale, dunque se si tratta di grandi o piccole imprese, si è svolta la contrattazione in modo maggiormente proficuo e riguardo a cosa.

 

Volendo entrare adesso nel merito del lavoro realizzato dalla Dares, il dato di partenza è che nell’anno 2023 l’attività di contrattazione di secondo livello si è tradotta nella sottoscrizione di 107.980 testi, registrando un lieve calo rispetto al 2022, ma comunque mantenendo un livello superiore alle cifre raggiunte prima dell’esplosione della crisi sanitaria COVID-19.

Di questi centomila e passa testi conclusi, ben 84.990 sono nuovi contratti collettivi e clausole addizionali, di cui 29.240 adottati all’interno di realtà aziendali con meno di 50 dipendenti, anche questo dato in lieve calo.

 

Di particolare rilevanza è il fatto che, sebbene più della metà di questi quasi 85.000 accordi sia stata sottoscritta da delegati sindacali, ben un quarto è stato frutto dello svolgimento di un referendum. Viene infatti riportato come nelle imprese con meno di 50 lavoratori dipendenti cresca il numero di testi adottati tramite procedura referendaria rispetto al numero dei testi adottati tramite la mediazione delle rappresentanze sindacali in azienda.

Si tratta di una tendenza che si conferma anche con riferimento ai temi centrali del dialogo sociale svoltosi nel 2023.

 

Il maggior numero di accordi conclusi a livello di contrattazione di secondo livello ha avuto ad oggetto il risparmio salariale. Si tratta del tema affrontato dal 40,3% degli accordi conclusi, i quali sono, per l’appunto, entrati in vigore principalmente a seguito di referendum. Questi numeri così elevati vengono giustificati dal pressante fenomeno inflazionistico e dalla conseguente normativa entrata in vigore a protezione del potere d’acquisto dei lavoratori, che inevitabilmente indirizza il dialogo sociale.

 

A dimostrazione di ciò è infatti possibile osservare come il secondo maggior numero di accordi conclusi si sia avuto in tema di salari e premialità.

Unico tema su cui, dalle statistiche fornite, è invece possibile rilevare un aumento rispetto al 2022, è quello del diritto sindacale e della rappresentanza, che è stato oggetto dell’11.9% degli accordi conclusi. Anche in questo caso si tratta di un risultato giustificato dal rinnovo dei componenti degli organi di rappresentanza sindacale a livello d’impresa, trascorsi cinque anni dall’ultima elezione.

 

È evidente, dallo studio statistico appena analizzato, come l’elemento di maggior valore che contraddistingue il lavoro portato avanti dalla Dares sia un punto di vista il più omogeneo ed esaustivo possibile che dà la possibilità ai protagonisti del sistema di relazioni industriali di avere una panoramica valida sul contesto della contrattazione di secondo livello. In tal senso, si tratta di tassello chiave di evoluzione e crescita del contesto giuslavoristico che in Italia risulta ad oggi assente. Come osservato recentemente (si veda M. Tiraboschi, Contrattazione decentrata: un mondo ancora da esplorare, in Boll. ADAPT 3 giugno 2024, n. 22), risulta chiaro come la disorganicità delle fonti di archiviazione e monitoraggio del fenomeno della contrattazione decentrata rappresenti un grande limite all’interno dell’odierno mercato del lavoro in Italia e in questo senso l’esempio francese appena analizzato potrebbe rappresentare un modello a cui fare riferimento come punto di partenza per un’evoluzione dell’oggi carente conoscenza del mondo della contrattazione di secondo livello nel nostro Paese.

 

Marta Migliorino

ADAPT Junior Fellow

@martamigliorino

La contrattazione collettiva in Francia: analisi del fenomeno dal 2012 al 2020

La contrattazione collettiva in Francia: analisi del fenomeno dal 2012 al 2020

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Bollettino ADAPT 14 ottobre 2024, n. 36

 

In Francia, così come in Italia, di anno in anno si assiste ad una progressiva trasformazione di quello che è il sistema delle relazioni industriali. Al fine di fornire un quadro chiaro, dettagliato e sistematico di queste evoluzioni, il Ministero del lavoro francese, a partire dal 2012, si è impegnato a stilare e pubblicare annualmente dei rapporti che analizzano l’andamento della contrattazione collettiva. Questi rapporti vengono poi presentati presso la Commission Nationale de la négotiation collective, commissione istituita con una funzione di supporto e consulenza dei ministri preposti alle tematiche del lavoro, rappresentando un punto di riferimento per tutte le successive riforme di carattere legislativo a tema giuslavoristico.

 

Il presente contributo mira ad offrire una sintesi esplicativa dei report pubblicati tra il 2012 e il 2020, evidenziando la metodologia seguita nella stesura dei report e le tendenze caratterizzanti la contrattazione collettiva in Francia.

 

Punto di partenza per offrire una visione il più lineare possibile dei rapporti in esame è l’analisi dell’evoluzione della struttura degli stessi. I report che vanno dal 2012 al 2017 si attestano su una lunghezza che va dalle 700 alle 800 pagine, mentre dal 2018 vediamo una consistente riduzione con un numero massimo di pagine che si aggira attorno alle 500. Vista la notevole corposità dei rapporti integrali, questi vengono pubblicati accompagnati da un documento di sintesi che offre in poche pagine i dati salienti estratti dal bilancio integrale, mettendo in evidenza gli elementi e i punti chiave del rapporto.

 

Tutti e nove i report presentano una uniformità nella struttura, con una lieve modifica a partire dal 2018: si aprono con una premessa in cui viene sottolineato il ruolo sempre più fondamentale della contrattazione nel contesto delle relazioni industriali e del diritto del lavoro. In particolare, viene fatto un sunto di quella che è stata la contrattazione collettiva nell’anno di riferimento, anticipando in breve e evidenziando i punti salienti di quella che sarà poi l’analisi fornita all’interno del report. Vengono principalmente esplicitate le motivazioni di carattere empirico, sociale, economico che hanno determinato un certo andamento della contrattazione collettiva.

 

Seguono quattro parti: una prima parte dedicata ad una panoramica sulla contrattazione collettiva nell’anno oggetto d’esame; una seconda parte dedicata all’analisi del contesto in cui si svolge la contrattazione, mettendo dunque in relazione i vari fenomeni di contrattazione rispetto al contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento; ancora una terza parte in cui nuovamente e più nel dettaglio si dà conto dei risultati prodotti dalla contrattazione collettiva in quello specifico anno, offrendo un’analisi tematica degli accordi collettivi conclusi e fornendo un censimento esaustivo degli accordi conclusi ai vari livelli di contrattazione; ed infine una quarta parte che raccoglie dossier tematici che vanno ad approfondire la discussione su degli argomenti legati trasversalmente a quelli propri oggetto di contrattazione.

 

Passando adesso all’analisi dei profili metodologici è possibile constatare come i vari rapporti vadano ad analizzare il fenomeno contrattualistico partendo dai singoli livelli di contrattazione. Le categorie di riferimento sono gli accordi conclusi a livello nazionale interprofessionale, quelli conclusi a livello dei singoli settori produttivi su vari livelli geografici (nazionale, regionale, dipartimentale, locale) ed infine gli accordi conclusi a livello d’impresa.

 

Con riferimento a ciascun livello di contrattazione viene compiuta dapprima un’analisi di tipo quantitativo, sia in termini relativi, osservando l’andamento del numero di accordi conclusi in ogni determinato livello, sia in termini assoluti, cioè guardando al numero effettivo di accordi conclusi in ogni specifico livello.

 

A questa prima analisi quantitativa se ne accompagna poi anche una di tipo qualitativo che va ad indagare quali sono i temi oggetto di contrattazione in ciascuno dei tre livelli e a quantificare il numero di accordi che intervengono sui diversi temi ad ogni livello.

 

A queste analisi di tipo quantitativo e qualitativo in merito ai temi trattati, si aggiunge un’analisi delle ragioni economico-sociali, nonché istituzionali che hanno spinto gli attori del sistema delle relazioni industriali ad intervenire su determinati aspetti. Viene esplicitato il contesto in cui si inseriscono i dati raccolti, basandosi anche sul contesto normativo e giurisprudenziale, oltre che francese anche europeo e internazionale.

 

Per quanto riguarda il campione oggetto di analisi all’interno di ciascun rapporto vengono presi in considerazione tutti i testi di natura convenzionale firmati entro il mese di dicembre dell’anno oggetto di studio, e che sono stati depositati presso il Ministero del lavoro e portati a conoscenza della direzione generale del lavoro entro il mese di marzo dell’anno successivo. Secondo quanto previsto dal disposto del Codice del lavoro in vigore in Francia, tutti i contratti collettivi siglati a ciascun livello di contrattazione devono essere registrati presso il ministero di riferimento, che provvederà alla loro pubblicazione. Questa procedura garantisce che il campione ivi considerato fornisca dati parziali da un punto di vista del periodo di pubblicazione di riferimento, ma al contempo sia altamente rappresentativo in quanto ricomprende la totalità dei testi negoziati.

 

Con riguardo all’analisi qualitativa e dunque all’individuazione delle tematiche che sono state maggiormente oggetto di contrattazione, anche qui è possibile riscontrare una certa sistematicità: tutti e nove i report analizzati presentano una uniformità su quelli che, di anno in anno, sono stati i temi oggetto di maggior interesse, permettendo di avere così uno studio evolutivo e di raffronto sul contributo apportato dalla contrattazione collettiva in un determinato aspetto del settore lavoro. Le tematiche ricorrenti sono:

– Il salario e le premialità;

– La pensione integrativa e la previdenza sociale;

– L’uguaglianza uomo-donna;

– Le condizioni di lavoro;

– La formazione professionale;

– Le modalità di svolgimento della contrattazione collettiva.

 

Andando infine ad indagare quelle che dallo studio dei report risultano essere le tendenze dettate dalla contrattazione collettiva in Francia, l’analisi dei report tra il 2012 e il 2020 mostra tendenze estremamente differenti nei tre livelli di contrattazione considerati. Queste tendenze di carattere quantitativo diversificate sono ovviamente giustificabili, in primis, alla luce del primato che la legge francese attribuisce alla contrattazione aziendale rispetto agli accordi conclusi a livello settoriale su quelle che vengono considerate le tematiche calde del diritto del lavoro, le quali vengono maggiormente influenzate dal mutare del contesto socio-economico, e secondariamente dalle differenti scadenze nelle quali incorrono i vari accordi conclusi.

 

Se si guarda al dato degli accordi siglati a livello interprofessionale su scala nazionale, viene registrata una tendenza altalenante che, però, a partire dal 2019 subisce invece una costante anche se non eccessivamente significativa crescita con una lieve ricaduta poi nel 2020. Questa tipologia di accordi ha l’aspirazione ad essere applicata a più settori produttivi e dunque a creare nuovi diritti in favore dei lavoratori dipendenti e a migliorare la flessibilità delle imprese. Tendenzialmente, tra le tre, si tratta della categoria di accordi collettivi precorritrice rispetto a future modifiche legislative in tema di diritto del lavoro. Dunque l’oscillazione del numero di questo tipo di accordi tra il 2012 e il 2020 è stata notevolmente influenzata dalla correlata attività legislativa svoltasi a livello statuale.

 

Per quanto riguarda gli accordi conclusi a livello di singolo settore produttivo, se nel 2012 appare come un livello segnato da un fenomeno contrattualistico fortemente dinamico caratterizzato dalla conclusione di un elevato numero di accordi, la situazione cambia sensibilmente a partire dall’anno successivo in cui si inizia a registrare una tendenza fatta di alti e bassi che per vari anni manterrà il numero degli accordi sotto la soglia del 1000, dato che viene riconfermato nel 2020.

 

Per quanto riguarda invece il livello di maggiore prossimità, relativo cioè agli accordi collettivi conclusi a livello di singola impresa, nei primi due report considerati, si è avuta una crescita rispetto ai livelli del passato, con la conclusione di circa 39.000 accordi, cifra che a grandi linee rimane costante fino al 2018, anno in cui si assiste ad un exploit nella crescita con cifre che toccano i quasi 80.000 testi conclusi. Questa tendenza ad una crescita importante viene mantenuta anche negli ultimi due anni oggetto di analisi, dove vengono raggiunti picchi da 100.000 accordi.

 

Lo studio dell’esperienza francese può senza dubbio essere utile per arricchire il dibattito italiano sui metodi di analisi della contrattazione collettiva. Lo strumento che, nel panorama interno, più si avvicina a questa tipologia di report sono i rapporti presentati annualmente dalla Commissione dell’informazione del CNEL, che vanno ad analizzare il mercato del lavoro e la contrattazione collettiva. Ciò che contraddistingue i report francesi e che invece sembrerebbe essere un profilo solo recentemente sviluppato in quelli italiani è proprio il fatto di presentare il mercato del lavoro attraverso la lente della contrattazione, che in Francia, così come in Italia, risulta essere elemento centrale del sistema giuslavoristico. Guardare alla contrattazione collettiva e alle sue connessioni con il mercato del lavoro, ma senza rinunciare ad un’analisi connotata da profondità e organicità, infatti, è il punto di forza che rende i report francesi strumento di comprensione prezioso del mondo del lavoro e delle sue dinamiche, e che, se adottato sistematicamente, potrebbe risultare vincente anche nel panorama, italiano.

 

Marta Migliorino

ADAPT Junior Fellow

@martamigliorino

Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/224 – Il rinnovo del CCNL Cooperative alimentari: incrementi retributivi e principali novità normative

 La presente analisi si inserisce nei lavori della Scuola di alta formazione di ADAPT per la elaborazione del

Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia.

Per informazioni sul rapporto – e anche per l’invio di casistiche e accordi da commentare –

potete contattare il coordinatore scientifico del rapporto al seguente indirizzo: tiraboschi@unimore.it

 

Bollettino ADAPT 2 settembre 2024, n. 30

 

Contesto del rinnovo

 

Il 14 maggio 2024, è stato firmato il rinnovo del CCNL per i lavoratori dipendenti da aziende cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici e lavorazione prodotti alimentari. Per la parte datoriale il verbale è stato sottoscritto da Confcooperative-Fedagripesca, Legacoop Agroalimentare, Agci-Agrital, mentre per la parte sindacale hanno firmato l’intesa Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil. Il periodo di validità del nuovo CCNL si estende dal 1° dicembre 2023 al 30 novembre 2027.

 

I dati dei flussi UNIMENS pubblicati sul sito del CNEL rivelano che il rinnovo del CCNL (Cod. CNEL E016) coinvolge 15.257 lavoratori distribuiti su 681 aziende.

 

Le organizzazioni sindacali Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil, nell’ipotesi di piattaforma per il rinnovo del contratto, hanno evidenziato l’importanza del rinnovo come strumento chiave per promuovere lo sviluppo economico e sociale del Paese e del settore. Allo stesso tempo, lo considerano centrale nel definire soluzioni utili a tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni, difendendo i lavoratori dagli effetti dell’inflazione e assicurando loro una retribuzione equa e adeguata.

 

Parte economica

 

Il rinnovo della parte economica del contratto porta con sé importanti novità.

Riguardo al Trattamento Economico Minimo (TEM), le parti hanno concordato un aumento di € 214,00 per il parametro 137 (portando ad una crescita dei minimi tabellari mensili del 14,50%). Ogni livello di inquadramento ha associato uno specifico parametro. L’aumento determinato per il parametro 137 serve come base per calcolare gli aumenti retributivi relativi a tutti gli altri parametri associati ai diversi livelli di inquadramento. L’incremento verrà erogato in cinque tranche distinte: dicembre 2023 settembre 2024 gennaio 2025 gennaio 2026 gennaio 2027.

 

L’articolo 45 prevede, oltre all’aumento del TEM, anche un aggiornamento degli importi dell’Incremento Aggiuntivo di Retribuzione (IAR). L’aumento IAR, calcolato sul parametro 137, ammonta a € 66,00 complessivi ed erogato in due tranche, la prima di € 55,00 corrisposta a partire dal 1° dicembre 2023 e la seconda di € 11,00 corrisposta a partire dal 1° settembre 2027.

 

Si rileva inoltre che, sempre con riferimento al parametro 137, per le aziende che non hanno un accordo di contrattazione sul premio per obiettivi, a partire dal 1° gennaio 2027 l’indennità per la mancata contrattazione di secondo livello sarà pari a € 45,00, a seguito di un incremento di € 15,00 rispetto all’importo attualmente previsto.

 

Le parti intervengono anche in modifica dei trattamenti economici per le prestazioni di lavoro straordinarie del settore della macellazione. In particolare, a causa di specifiche caratteristiche della lavorazione e di vincoli normativi igienico-sanitari, è necessario completare la macellazione giornaliera programmata. Per le ore di straordinario dedicate a queste attività, è prevista una maggiorazione del 50%.

 

Un altro aspetto di particolare rilievo è l’incremento del contributo aziendale al Fondo di previdenza complementare per i lavoratori aderenti. A partire dal 1° gennaio 2025, la contribuzione subirà un aumento dello 0,30%, passando dall’1,20% all’1,50%.

 

Al fine di migliorare le prestazioni dell’assistenza sanitaria integrativa, è stato previsto un aumento del contributo aziendale da € 13,50 a € 15 mensili.

 

Parte normativa

 

All’articolo 9, nella sezione “Patto Formativo”, l’accordo prevede che, nel caso in cui il lavoratore esprima la volontà «di partecipare a corsi di specializzazione per acquisire competenze utili alle attività aziendali, anche se non immediatamente collegate alle mansioni svolte» o l’azienda desideri far partecipare i propri lavoratori a corsi per ottenere competenze difficili da reperire sul mercato, sia possibile ricorrere a ulteriori permessi retribuiti, rispetto a quelli già previsti dal CCNL, fino ad un massimo di 40 ore. Continua l’accordo, introducendo per via contrattuale un vero e proprio patto di stabilità «a fronte dell’impegno da parte del lavoratore alla permanenza in azienda per un periodo di due anni conseguenti il termine del corso».

 

Altre novità significative riguardano il periodo di prova, per i lavoratori del 4° e 5° livello, è stato esteso ad un mese e mezzo, invece, per i lavoratori del 6° livello, è stato esteso a 18 giorni lavorativi. E, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, del D.lgs. 104/2022, le parti sociali prevedono il prolungamento del periodo di prova in caso di assenze per malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, per una durata pari a quella dell’assenza. Anche le assenze per congedi facoltativi comportano un prolungamento del periodo di prova.

 

Di notevole rilievo è la nuova disciplina che regola l’utilizzo dei contratti a tempo determinato. L’accordo introduce le causali che permettono la stipula di contratti a tempo determinato con durata superiore a 12 mesi, pur sempre mantenendo il limite massimo di 24 mesi. Tali condizioni sono: l’esecuzione di progetti, opere o servizi definiti e predeterminati nel tempo che non rientrano nelle normali attività aziendali, realizzazione di progetti temporanei legati alla modifica e modernizzazione degli impianti produttivi e variazioni del prodotto conferito dai soci in cooperativa.

 

Escluso il lavoro stagionale, la stipula di contratti a termine, di somministrazione a termine e a tempo indeterminato non potrà complessivamente superare la soglia limite del 25% e «a decorrere dal 1 luglio 2024 tale limite è da calcolarsi sulla base dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato occupati nell’impresa alla data del 1 gennaio dell’anno di assunzione o nel caso di inizio dell’attività nel corso dell’anno, sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione del lavoratore a tempo determinato».

 

Le parti hanno concordato la possibilità di anticipare l’assunzione di personale a tempo determinato per la sostituzione di lavoratori in congedo di maternità, paternità o parentale fino a due mesi prima dell’inizio del congedo stesso, estendendo così il periodo rispetto a quanto previsto dall’articolo 4, comma 2, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

 

All’articolo 27 sono state introdotte novità in materia di riduzione dell’orario di lavoro (ROL). A partire dal 1° gennaio 2027 i dipendenti avranno diritto a ulteriori 4 ore di ROL, per un totale di 80 ore. Ai turnisti che svolgono la loro attività su tre turni per sei giorni alla settimana e su tre turni per sette giorni alla settimana, sono riconosciute ulteriori 4 ore a titolo di riduzione a partire dal 1° gennaio 2026 a cui se ne aggiungono altre 4 a partire dal 1° gennaio 2027.

 

Con riguardo alla flessibilità oraria a favore del datore di lavoro, invece, sono da attenzionare le nuove regole per il lavoro straordinario nel settore della mangimistica. Questo settore è caratterizzato da una normativa europea sulla gestione dello stoccaggio e della somministrazione dei mangimi, che influisce direttamente sulle attività delle cooperative alimentari. Di conseguenza, può essere necessaria una maggiore flessibilità lavorativa nella gestione dei mangimi. L’azienda potrà, eccezionalmente, utilizzare 8 delle 88 ore di flessibilità previste dal contratto collettivo per far fronte a questa particolare situazione, con una maggiorazione del 50% per i lavoratori.

 

Tra le novità introdotte dal rinnovo del contratto, particolare attenzione è riservata al tema del comporto di malattia per i lavoratori con disabilità certificata ai sensi della Legge n. 68/99. Riconoscendo la maggiore possibilità di ricadute a causa della loro condizione, le parti hanno concordato un aumento di 90 giorni a questo periodo. Durante questo periodo aggiuntivo di conservazione del posto di lavoro, non decorrerà né la retribuzione né l’anzianità per alcun istituto (in tema pare utile richiamare F. Alifano, Discriminazione per disabilità, comporto e contrattazione collettiva. Primi appunti ad un anno dalla pronuncia della Cassazione, Working Paper ADAPT, n. 7/2024).

 

All’articolo 55, lettera B), l’accordo ha introdotto importanti novità anche in materia di infrazioni disciplinari per i lavoratori in modalità di lavoro agile. Sono state infatti precisate le condotte che, se ripetute, possono portare al licenziamento (violazione delle disposizioni in materia di trattamento dei dati, utilizzo senza autorizzazione di strumenti informatici e/o telematici diversi da quelli assegnati, disconnessione non autorizzata durante l’orario di lavoro previsto nell’accordo collettivo, accordo individuale e/o nel regolamento aziendale in tema di lavoro agile, ecc.).

 

Infine, è stata introdotta la possibilità per le lavoratrici madri o lavoratori padri di minore con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1 della legge n. 104/1992, in alternativa al prolungamento del congedo parentale, due ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del terzo anno di vita del bambino. La finestra temporale per usufruire dei permessi retribuiti per l’inserimento del figlio all’asilo nido/infanzia è stata estesa. Prima del rinnovo, era possibile fino ai 36 mesi di età del figlio; ora, è estesa fino ai 4 anni.

 

Parte obbligatoria

 

Tra le novità introdotte in merito alla parte obbligatoria, è da evidenziare l’ampliamento delle tematiche oggetto di informative. In particolare, l’articolo 6 della prima parte del CCNL, che sottolinea l’importanza del coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici e delle loro rappresentanze nelle scelte strategiche delle imprese, introduce alla lettera C) nuove materie di confronto a livello di cooperativa, consorzio o gruppo. Tra queste, la procedura di segnalazione whistleblowing, formazione, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, iniziative e misure volte al contrasto delle violenze di genere e del mobbing e, infine, interventi per facilitare il reinserimento di lavoratori e lavoratrici dopo l’assenza per congedi di maternità/paternità. Inoltre, è stata introdotta la possibilità di tenere un ulteriore incontro nell’arco di un anno rispetto a quanto già previsto.

 

Il rinnovo del CCNL prevede, all’articolo 7, lettera B, punto 2, nell’ambito della bilateralità, l’organizzazione e la gestione di nuove attività e servizi bilaterali in tema di welfare, con particolare riferimento a interventi a sostegno della genitorialità, promozione della formazione a livello aziendale e collaborazione con gli Istituti Tecnici Superiori (ITS). Queste misure includono anche il sostegno economico per le vittime di violenza e l’attivazione di coperture assicurative per il rischio morte a beneficio degli operai. Per sovvenzionare la gestione di queste nuove attività e servizi bilaterali, a partire dal 1° gennaio 2025 saranno applicate le seguenti contribuzioni mensili: € 1,50 per lavoratore per le attività di promozione della formazione aziendale e collaborazione con gli ITS; € 0,50 per lavoratore per le attività di sostegno economico alle vittime di violenza; € 2,00 per lavoratore per le coperture assicurative per il rischio morte a beneficio degli operai. Le contribuzioni dovranno essere versate al Filcoop sanitario.

 

L’accordo prevede inoltre la possibilità per la RSU di individuare al proprio interno un delegato alla formazione. Questo delegato avrà il compito di interfacciarsi con l’azienda per tutte le questioni relative alla formazione.

 

Valutazione d’insieme

 

La piattaforma sindacale aveva proposte molto ambiziose e il rinnovo del contratto, pur non avendo raggiunto tutti gli obiettivi prefissati (per esempio in materia di appalti e processi di re-internalizzazione, di aumento delle ore di permesso retribuito per gli RLS e di riduzione dell’orario settimanale a 36 ore a parità di salario), contiene comunque miglioramenti per i lavoratori. Tra questi, un significativo aumento delle retribuzioni minime e un potenziamento delle misure di welfare. Questi cambiamenti rappresentano un passo avanti verso condizioni di lavoro migliori per chi opera nelle cooperative di trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici e nella lavorazione di prodotti alimentari.

 

Matteo Santantonio

ADAPT Junior Fellow

@santantonio_mat

La contrattazione settoriale nel Regno Unito

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Bollettino ADAPT 2 settembre 2024 n. 30

 

A differenza del panorama italiano, in cui la contrattazione c.d. “multi-datoriale” di settore è fortemente sviluppata, nel Regno Unito, sin dagli anni ’80 si è assistito ad un decentramento della contrattazione collettiva. Si è giunti, dunque, ad una situazione in cui la contrattazione di settore è tendenzialmente scomparsa e si è creato un mercato del lavoro altamente individualizzato con uno scarso ruolo dei sindacati.

 

All’interno del contributo Introducing sectoral bargaining in the UK: why it makes sense and how it might be done, Keith Sisson, professore emerito di Relazioni industriali presso l’Università di Warwick si dedica all’analisi di un potenziale reinserimento della contrattazione settoriale nel Regno Unito e ai benefici che questa comporterebbe sia per i sindacati che per le associazioni dei datori di lavoro. Nella seconda parte del suo contributo, si affrontano invece le questioni che sarebbe necessario risolvere nel caso in cui il Regno Unito riuscisse ad introdurre la contrattazione settoriale.

 

I benefici dell’introduzione di una contrattazione di settore

 

Il contributo prende le mosse dalla circostanza che i lavoratori inglesi avrebbero perso molto a causa del declino della contrattazione settoriale e della regolamentazione congiunta: un esempio sono gli aumenti salariali inferiori all’inflazione e la maggiore insicurezza dei rapporti di lavoro. È però interessante osservare come anche i datori di lavoro risultino impoveriti dallo scarno ruolo della contrattazione di settore, avendo ottenuto non tanto la flessibilità contrattuale sperata, quanto piuttosto una maggiore rigidità giuridica. In mancanza di accordi settoriali, infatti, è stato necessario introdurre una serie di tutele legali per la gestione dei rischi, ma non sempre soluzioni uniformi nel panorama nazionale risultano efficaci in contesti lavorativi fortemente differenziati.

 

È essenziale tenere a mente che quando si parla di contrattazione collettiva, non ci si riferisce al solo salario, ma a una regolamentazione congiunta di diverse questioni, come il coinvolgimento dei dipendenti, la formazione e lo sviluppo del personale, la disciplina del licenziamento e tanto altro. Sisson si dedica all’approfondimento dei benefici dello sviluppo della contrattazione di settore. Secondo l’autore, ci sono due ragioni principali per cui gli accordi settoriali devono essere preferiti alla regolamentazione legale: la prima è il maggiore coinvolgimento dei lavoratori e la seconda è la capacità della contrattazione collettiva di adeguarsi alle peculiarità dei singoli ambiti e settori.

 

La contrattazione di settore andrebbe preferita alla regolazione unilaterale aziendale, inoltre, perché per i datori di lavoro vi è un notevole risparmio sui costi di gestione delle relazioni di lavoro.

 

Sulla base dell’analisi dell’autore, un approccio di settore permetterebbe di uniformare le condizioni di lavoro delle aziende di un determinato ambito e di evitare che si crei una ricchezza fondata su salari bassi e cattive condizioni per i lavoratori. Questo approccio va a vantaggio sia dei sindacati che delle organizzazioni datoriali. Queste ultime, infatti, acquisirebbero un ruolo di intermediario, consentendo a tutte le aziende rappresentate e non solo alle grandi realtà, di partecipare ai processi di definizione delle politiche sul lavoro a livello nazionale.

 

Peraltro, i benefici del coinvolgimento dei rappresentanti sindacali e datoriali sono stati riconosciuti anche nel rapporto dell’OCSE, Global Deal report, Social Dialogue, Skills and Covid-19 (2020),  in cui si afferma che il dialogo sociale è stato fondamentale per affrontare i danni causati dalla pandemia. La contrattazione settoriale migliora, infatti, la qualità delle decisioni rendendole più coerenti con la specifica problematica. Un confronto costante con le organizzazioni rappresentative migliora la comprensione dei problemi e permette, all’insorgere di una crisi, di trovare un maggiore consenso e una maggiore apertura ad una soluzione condivisa.

 

All’interno del suo elaborato, Sisson elenca anche quelli che potrebbero essere i vantaggi degli accordi di settore a livello macroeconomico, ovvero:

1. un migliore bilanciamento fra salari, inflazione, livelli di disoccupazione e tassi di crescita economica. Sempre secondo l’OCSE (in Negotiating Our Way Up: Collective Bargaining in a Changing World of Work del 2019): “(…) il coordinamento aiuta le parti sociali a tenere conto della situazione del ciclo economico e degli effetti macroeconomici degli accordi salariali sulla competitività. Il livello effettivo di centralizzazione è un’altra dimensione cruciale: i sistemi in cui il decentramento è organizzato e coordinato dal centro (cioè sistemi in cui gli accordi a livello settoriale stabiliscono ampi quadri normativi ma lasciano le disposizioni di dettaglio alle negoziazioni di livello aziendale e dove il coordinamento è piuttosto forte) tendono a produrre buone performance occupazionali e una maggiore produttività”;

2. minori disuguaglianze. L’OCSE prende come riferimento tre misure per i confronti internazionali sulle disuguaglianze: la dispersione dei redditi (in base alla quale per salario basso si intende un salario inferiore di due terzi rispetto al salario orario mediano e per salario alto si considera quello che supera di 1,5 volte il salario orario mediano); il coefficiente di Gini (che condensa la distribuzione del reddito disponibile fra le famiglie in un numero compreso fra zero e uno; più alto il numero, maggiore la disuguaglianza); il c.d. “gender wage gap” misurato come differenza tra i guadagni mediani di uomini e donne rispetto ai guadagni mediani degli uomini. Con riferimento a tutte e tre le misure, la disuguaglianza risulta maggiore nel Regno Unito e negli Stati Uniti rispetto agli altri paesi OCSE, e ciò probabilmente è legato ad un maggiore decentramento (disorganizzato) della contrattazione collettiva. È emerso, infatti, che maggiori densità sindacale e centralizzazione/coordinamento della contrattazione salariale sono direttamente proporzionali ad una minore disuguaglianza salariale complessiva.

 

Contrattazione settoriale nel Regno Unito – Come introdurla

 

Sisson parte da un punto di attualità nel Regno Unito, ossia l’impegno da parte del Labour Party di introdurre un accordo nel settore socio-sanitario, ad oggi incapace di assolvere ai suoi compiti essenziali a causa di numerose questioni, tra cui l’assetto composto sia dal settore pubblico (NHS) che da servizi privati, problemi nell’assunzione e nel mantenimento della forza lavoro.

 

Nonostante il Labour Party mostri cautela verso il sostegno alla contrattazione di settore per l’intera economia del Regno Unito, questa è ritenuta particolarmente necessaria nella cosiddetta “foundational economy”, ovvero quella parte di economia composta da settori non competitivi e al di fuori della concorrenza internazionale (es.: assistenza all’infanzia, servizi di pulizie, logistica). Di particolare importanza è la struttura di questi settori, costituiti principalmente da piccole e medie imprese (PMI) costrette a contrattare individualmente, che quindi beneficerebbero grandemente dall’introduzione di un accordo di settore capace di abbattere i costi di transazione. Tuttavia, la debolezza delle parti datoriali nel settore è fonte di preoccupazione, rispetto alla quale accordi tripartiti (con il coinvolgimento del governo) potrebbero essere risolutivi.

 

Istituzioni principali

 

La proposta ha come punto di partenza i Wages Council e i contratti già consolidati, e la responsabilità statutaria di avviare le procedure spetterebbe al Segretario di Stato. Dopo la consultazione delle parti, egli dovrebbe quindi istituire un National Joint Council (NCJ) qualora “non esistesse una contrattazione collettiva efficace a livello settoriale; o la contrattazione collettiva presente nel settore non sia sufficiente a stabilire termini e condizioni minimi per l’intero settore in relazione alle materie obbligatorie”. Tale consiglio sarebbe composto da un pari numero di rappresentanti dei lavoratori e datori di lavoro e in cui il Segretario di Stato potrebbe decidere se inserire dei membri indipendenti con diritto di voto con il compito di conciliatori in caso di stallo delle negoziazioni. L’importanza degli accordi tripartiti rimarrebbe la stessa.

 

Gli accordi settoriali come codici anziché contratti

 

Sisson ricostruisce la storia del quadro giuridico riguardante le relazioni industriali, affermando che il declino della contrattazione collettiva in Regno Unito si riconduce spesso alla mancanza di contratti giuridicamente vincolanti, obbligari solo a livello d’onore e non come codici statutari in un contesto di common law. Tuttavia, di fatto non c’era nessun ostacolo per le parti sociali nel rendere i contratti negoziati legalmente vincolanti, quanto piuttosto una mancanza di volontà delle stesse parti e un’incompatibilità di linguaggio (a questo proposito la Royal Commission on Trade Union and Employers’ Associations argomentava che per essere codificati, essi avrebbero dovuto essere stati riscritti con l’ausilio di un avvocato professionista). Invero, la maggioranza della Commissione ha respinto le proposte di rendere giuridicamente vincolanti i contratti collettivi non tanto per motivi di principio, quanto piuttosto adducendo come causa la concretezza della contrattazione collettiva nel Regno Unito.

 

Dunque, oggi, per quanto riguarda la legislazione necessaria per introdurre la contrattazione settoriale, il suggerimento è di rendere gli accordi di settore dei contratti giuridicamente vincolanti, in forma di “Good Work sector Agreements”, e attuati, ad esempio, dagli stessi organismi governativi che vigilano sulle normative nazionali, come avviene in Irlanda e in Nuova Zelanda. A sostegno di tale proposta, si suggerisce l’introduzione di un nuovo sistema di Tribunale del Lavoro, articolato in più livelli, con giurisdizione esclusiva per trattare tutte le questioni relative al lavoro. Le criticità emerse per questa ipotesi riguardano i numerosi problemi di adattamento del quadro legislativo: difatti, la stessa Royal Commission afferma che il modello di common law britannico richiederebbe il lavoro congiunto di esperti di relazioni sindacali e di avvocati.

 

Per questi motivi, sono esplorate nel testo altre ipotesi, fra cui la possibilità di rendere l’accordo di settore un ‘Order’, il mancato rispetto del quale costituirebbe un reato, legittimando così i lavoratori a presentare una richiesta civile in caso di mancato pagamento delle tariffe appropriate; ovvero, consentire al Segretario di Stato di proporre alle parti sociali di trasformare il proprio accordo di settore in un Codice di Condotta dell’Acas, ente pubblico che fornisce servizi di consulenza, conciliazione e mediazione fra le parti sociali. È indubbio, d’altronde, che questo approccio richiederebbe minori aggiustamenti al quadro legislativo, avendo inoltre il vantaggio di far esprimere i contratti di settore nel linguaggio delle relazioni sindacali e di non richiedere il supporto di un avvocato, oltre a promuovere e condividere le relazioni industriali stesse, nonché le best practices con ruolo educativo fondamentale nell’aiutare le imprese a rimanere aggiornate sulle sfide di settore.

 

Se, da un lato, chiarisce Sisson, è chiaro che la scelta di un percorso rispetto a un altro dipenderà da come il governo vorrà promuovere gli accordi settoriali in termini di obiettivi e finalità, dall’altro è evidente che, qualunque sia il percorso scelto, vi sia la necessità di istituire un’autorità pubblica che controlli la legittimità degli accordi settoriali.

 

Il principio di equità

 

All’interno del documento, il principio di equità (fairness) assume un ruolo centrale, soprattutto riguardo alla priorità da attribuire al “lavoro equo” rispetto alla “paga equa”. Questo principio si articola in due dimensioni: l’equilibrio tra sforzi e benefici e l’equità nelle decisioni che vengono prese. Il pericolo di concentrarsi sulla sola questione del salario è che, infatti, questioni come queste così come il dialogo sociale, vengono marginalizzate perché poco si prestano alla “negoziazione distributiva”. In aggiunta, ciò deteriorerebbe anche la situazione delle PMI in quanto si aumenterebbe in maniera significativa il costo del lavoro, portando a tagli del personale e un aumento del carico di lavoro sui dipendenti rimanenti.

 

Il contenuto degli accordi

 

Due sono quindi le tipologie di contenuti degli accordi descritti da Sisson se venisse inserita la contrattazione settoriale, considerando poi che argomenti specifici varierebbero da settore a settore:

il lavoro equo, ripreso anche da Fair Work Tales, e in particolare le questioni relative a: giusta ricompensa; rappresentanza collettiva; sicurezza e flessibilità; possibilità di accesso; crescita e progresso; ambiente lavorativo sano e inclusivo; diritti sostanziali;

– la disciplina di questioni sostanziali come retribuzione, straordinari, pensioni e ferie, come riaffermato anche da una proposta del Trade Union Congress (TUC); aspetti procedurali e diritti dei lavoratori, come quello di informazione e consultazione.

 

È indubbio, però, afferma Sisson, che le proposte finali dovranno tenere in considerazione il rapporto fra i diversi livelli di contrattazione. Le preoccupazioni dell’autore riguardano principalmente il fenomeno della “decentralizzazione disorganizzata” che può verificarsi quando la contrattazione si sposta dal livello settoriale a quello aziendale senza alcun coordinamento tra i due livelli. Questo comporta infatti il rischio che l’autorità dell’accordo settoriale venga indebolita, soprattutto a discapito dei lavoratori nelle PMI, a causa delle deroghe, delle riforme e delle eccezioni previste a livello aziendale. Difatti, solo se avviene in maniera adeguata e dunque con un “decentramento organizzato”, caratterizzato da coordinamento fra i livelli, questa transizione può portare ad una situazione ideale in cui vengono affermate le condizioni minime a livello settoriale, senza il rischio che vengano messe in discussione nelle negoziazioni a livello aziendale.

 

A tal fine, il documento suggerisce la necessità che le stesse parti sociali sostengano lo sviluppo del dialogo sociale, in particolare attraverso una dichiarazione dell’obiettivo complessivo dell’accordo settoriale, dunque facendo esplicito riferimento alle questioni che l’accordo si propone di affrontare; ovvero l’organizzazione di incontri trimestrali del consiglio tripartito, con gruppi di lavoro congiunti che si occupino di ricercare e monitorare le principali criticità del settore, anche con l’ausilio di esperti e terze parti.

 

Per quanto riguarda invece il ruolo del governo nazionale guidato dai Labour, l’autore si rifà alle linee guida della Commissione Europea. Si richiama, in particolare, la necessità di:

– assicurare la consultazione delle parti sociali nella progettazione di politiche economiche e sociali;

– incoraggiare le parti sociali a prendere in considerazione nuove forme di lavoro;

– consentire alle organizzazioni datoriali e dei lavoratori di crescere, facendo in modo che abbiano le informazioni rilevanti e assicurando loro il supporto da parte del governo nazionale.

 

Promuovere la produttività

 

Afferma Sisson che, tuttavia, nelle discussioni sull’introduzione della contrattazione settoriale si è prestata poca o nessuna attenzione a come verranno finanziati i miglioramenti previsti in termini di salario e condizioni di lavoro, che ovviamente dipenderanno a seconda del settore. Ad esempio, nel settore socio-sanitario è probabile che i fondi possano arrivare direttamente dal governo nazionale nella forma di investimenti sulla forza lavoro. Diversamente, in altri settori, non essendo previsto alcun finanziamento a causa delle pressioni attese sulla spesa pubblica, si prevede che i finanziamenti potranno derivare dagli stessi profitti delle aziende.  Tuttavia, anche in questo caso alcune aziende registreranno alcune criticità poiché ancora intrappolate nello schema di “bassa retribuzione, bassa qualificazione, bassa produttività”. Considerando, dunque, la limitata capacità di redistribuzione dai lavoratori più pagati a quelli meno pagati all’interno del settore, queste aziende avranno bisogno di aiuto per migliorare la loro produttività e performance, agendo non solo sull’eliminazione del basso salario ma incentivando tutta una serie di politiche coordinate e di sotto investimento e crescita.

 

In generale, si raccomanda al governo nazionale di modificare il suo modello di sviluppo economico investendo nell’innovazione e nella produttività della foundational economy, oltre a eliminare fattori che minano standard lavorativi dignitosi.

 

Conclusioni

 

Auspicando l’introduzione della contrattazione settoriale nel Regno Unito, Sisson analizza nel suo paper come questo possa concretamente attuarsi nel contesto politico-legislativo attuale britannico. È evidente, infatti, che questa transizione possa avvenire in un sistema di common law, in cui gli accordi sono di difficile codificazione, solo attraverso concrete misure a sostegno. Sisson raccomanda, inoltre, una visione più ampia del concetto di contrattazione settoriale, non basata esclusivamente sull’aumento dei salari ma piuttosto sul ‘fair work’, ossia l’insieme delle garanzie di cui deve godere il lavoratore (es.: formazione, sicurezza).

 

Nel contesto delineato, è quindi chiaro come la proposta dell’attuale Governo di introdurre la contrattazione settoriale nell’ambito socio-sanitario possa essere un trampolino di lancio per mettere in pratica le proposte illustrate dall’autore per migliorare non solo la contrattazione collettiva, ma anche, attraverso essa, le condizioni di quei settori appartenenti alla ‘foundational economy.

 

Francesca Coluccia

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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Emanuele Ligas

ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti

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Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/223 – Work life balance e potere d’acquisto al centro del rinnovato CCNL Giocattoli

Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/223 – Work life balance e potere d’acquisto al centro del rinnovato CCNL Giocattoli

 La presente analisi si inserisce nei lavori della Scuola di alta formazione di ADAPT per la elaborazione del

Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia.

Per informazioni sul rapporto – e anche per l’invio di casistiche e accordi da commentare –

potete contattare il coordinatore scientifico del rapporto al seguente indirizzo: tiraboschi@unimore.it

 

Bollettino ADAPT 2 settembre 2024, n. 30

 

Contesto del rinnovo

 

Il giorno 12 giugno 2024 è stato siglato il documento finale per il rinnovo del CCNL Giocattoli Industria tra Assogiocattoli e Femca-CISL, Filctem-CGIL e Uiltec-UIL. Il CCNL interessa i lavoratori e le lavoratrici dipendenti delle aziende che producono giocattoli, giochi hobby e modellismo, ornamenti natalizi e articoli per la prima infanzia. Secondo i dati del CNEL del 2023 l’accordo interesserà 495 aziende e 5391 dipendenti.

Le principali novità introdotte nel rinnovo riguardano gli aumenti contrattuali e una serie di misure volte a migliorare la work-life balance di lavoratori e lavoratrici con particolare attenzione alla genitorialità.

 

Parte economica

 

Sotto il profilo economico sono due le principali novità del nuovo accordo: l’aumento dei minimi contrattuali e la maggiorazione dell’elemento di garanzia retributiva (EGR).

Come indicato nelle tabelle retributive allegate al testo del rinnovo, è previsto un aumento di 182 euro lordi per il terzo livello nel triennio 2024-2026. Gli aumenti sono così distribuiti: 55 euro a giugno 2024, 55 euro a settembre 2025 e 72 euro a marzo 2026. L’importo, riparametrato, è esteso a tutti i livelli previsti nella tabella allegata al testo del rinnovo. Va inoltre sottolineato che entro il 31 dicembre 2024 tutti i lavoratori e le lavoratrici inquadrate al primo livello saranno inquadrati al secondo, con la conseguente eliminazione del primo livello di inquadramento.

 

L’EGR è un importo annuo lordo spettante a tutti quei lavoratori e lavoratrici che non percepiscono altri trattamenti economici oltre a quelli previsti dal contratto collettivo, ovvero a coloro le cui aziende non applicano la contrattazione di secondo livello. Tale somma, indicata all’articolo 8 comma 6 del contratto collettivo, passerà, a partire dal 2025,da 200 a 300 euro lordi.

 

Per quanto concerne il welfare, vengono modificati gli articoli 79 e 80 del CCNL che riguardano rispettivamente la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa. Per la prima, viene aumentato di 0,3 punti percentuali il contributo a carico delle aziende arrivando così al 2,30% dal 1° gennaio 2026. Per la seconda, sempre da gennaio 2026, verrà aumentato a 15 euro mensili il contributo a carico delle imprese. Inoltre, dal gennaio 2025, sempre a carico delle imprese, verrà istituito un contributo di 2 euro per ogni dipendente a favore di Sanimoda (l’assistenza sanitaria integrativa) per la copertura di prestazioni per la non autosufficienza (LTC Long Term care – non autosufficienza).

 

Infine, vengono aumentate le maggiorazioni per i lavoratori e le lavoratrici turniste e in regime di flessibilità. Per i primi (art. 40), la maggiorazione passerà dal 1,1% al 2,2% della retribuzione di fatto. Per i secondi (art. 33), tutte le ore lavorate oltre le 8 giornaliere e le 40 settimanali: dal 13% al 15% per le ore prestate dal lunedì al venerdì e dal 18% al 20% per le ore prestate il sabato. Entrambe le maggiorazioni avranno efficacia dal 1° gennaio 2025.

 

Parte normativa

 

Dal punto di vista normativo sono diverse le novità introdotte dal rinnovo del contratto in merito a diritto allo studio e formazione continua, work-life balance e pari opportunità.

Viene introdotto l’articolo 10 bis incentrato sulla formazione continua; a partire dal 1° gennaio 2025 le aziende coinvolgeranno i dipendenti in forza a tempo indeterminato e determinato (con contratto non inferiore a 9 mesi) in percorsi di formazione della durata di 8 ore pro-capite. Come specificato nel testo, la formazione sarà inizialmente concentrata per affrontare il gap sulle competenze digitali. Viene inoltre specificato che la formazione in materia di sicurezza non può rientrare in questi percorsi formativi.

 

Per quanto riguarda il diritto allo studio non sono presenti novità rispetto al testo del 2021, ma viene sottolineato l’impegno da parte del datore di lavoro di agevolare lavoratori e lavoratrici frequentanti corsi di studio di poter usufruire di permessi per svolgere le prove di esame e di richiedere turni di lavoro che agevolino la frequenza alle lezioni e la preparazione degli esami (art. 64).

 

Sul tema della conciliazione vita-lavoro sono introdotte differenti innovazioni. La principale novità in tema di conciliazione vita-lavoro è la definizione del lavoro agile all’articolo 38. È competenza del datore di lavoro stabilire la sussistenza delle condizioni necessarie per la concessione del lavoro agile e, se queste sussistono, i lavoratori e le lavoratrici potranno accedervi su base volontaria. I luoghi convenuti per la prestazione dell’attività lavorativa devono rispettare le norme sulla privacy e sulla sicurezza e potranno essere definiti dalle parti in sede aziendale.

 

Vengono introdotte delle novità in tema di genitorialità (art. 60) con la previsione di due giornate aggiuntive di congedo parentale oltre a quelle previste dalla legge, l’indenizzazione del secondo mese gi congedo parentale all’80% anche per gli anni successivi al 2024 e l’istituzione di 30 giorni continuativi di permesso non retribuito per tutte le lavoratrici che al rientro dell’aspettativa facoltativa post partum non dispongano più di giorni di ferie o ROL. Inoltre, per i lavoratori e le lavoratrici con figli viene prevista la possibilità di flessibilizzare l’orario di lavoro per facilitare l’inserimento al nido o alla scuola materna (art. 52).

 

Sempre in tema di permessi, all’articolo 53, vengono previsti i permessi per la donazione di sangue e viene introdotto un mese, fruibile anche a giorni, di aspettativa non retribuita per le lavoratrici che avviano un percorso di fecondazione assistita.

 

Per quanto riguarda le pari opportunità, con l’articolo 61 bis viene recepita la normativa in merito ai congedi per le donne vittime di violenza con la possibilità, secondo quanto previsto dall’art. 24 comma 1 del d.lgs. 80/2015, di astenersi dal lavoro per un periodo massimo di tre mesi percependo un’indennità a carico dell’INPS. L’art. prevede il prolungamento dell’astensione dal lavoro per un ulteriore mese retribuito a carico dell’azienda, rispetto a quanto già previsto dalla legge. Con l’articolo 66 bis (Diversity and Inclusion) le parti si impegnano invece, attraverso la contrattazione nazionale e di secondo livello, a promuovere delle soluzioni per diffondere nei luoghi di lavoro una cultura basata sull’inclusione e sul rispetto dell’altro.

 

Parte obbligatoria

 

Sul rapporto fra le parti firmatarie del rinnovo vengono introdotte delle novità agli articoli 9 e 15 bis. Il primo introduce la possibilità da parte dell’Osservatorio Nazionale del settore giocattoli, composto dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali e di quella datoriale, di promuovere il settore attraverso delle iniziative di informazione e sensibilizzazione con autorità ed enti pubblici. Con l’art. 15 bis viene invece introdotta, in caso di appalti esterni, la possibilità di istituire dei gruppi di monitoraggio insieme alle RSU per vigilare sull’applicazione da parte dell’azienda appaltatrice del CCNL del settore di riferimento dell’azienda appaltatrice sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul territorio nazionale.

 

Valutazione d’insieme

 

Il rinnovo del CCNL Giocattoli Industria rappresenta un passo avanti per il settore. In linea con il precedente rinnovo sono stati previsti nuovi aumenti salariali, fondamentali in un periodo in cui il potere di acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici si fa sempre più debole e precario. Oltre ai miglioramenti economici, anche i progressi normativi per favorire la formazione continuano e il bilanciamento vita privata e vita professionale sottolineano la volontà delle parti di garantire il miglioramento delle condizioni lavorative e il benessere dei e delle dipendenti.

 

Davide Rossi

ADAPT Junior Fellow

@98Rdavide

 

La contrattazione collettiva alla prova dell’inflazione*

La contrattazione collettiva alla prova dell’inflazione*

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

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Bollettino ADAPT 24 giugno 2024 n. 25

 

Nel biennio 2022-23 i lavoratori italiani hanno subito una perdita netta del potere di acquisto di circa il 10 per cento. È quanto emerge dalla recente relazione annuale della Banca d’Italia relativa al 2023. Il dato, particolarmente significativo, si spiega con lo straordinario andamento inflazionistico, dovuto alle vicende belliche, che ha condizionato notevolmente l’andamento dei prezzi dei beni energetici. L’inflazione del 2023, difatti, si è attestata al 5,9 per cento come dato medio e a fronte di ciò, le retribuzioni minime stabilite dalla contrattazione collettiva, sempre secondo i dati di Banca di Italia, sono cresciute con tempi di reazione più lenti rispetto a quelli di altri Paesi europei.

 

Le cause del ritardo italiano sono principalmente tre. Di regola, la durata di vigenza di un contratto collettivo, secondo quanto concordato negli accordi interconfederali, è di tre anni, cioè un periodo lungo il quale rimane vigente quanto pattuito alla stipula e che (salvo casi particolari, come per il CCNL della metalmeccanica) non tiene conto delle vicende, talvolta eccezionali, che possono svilupparsi nel frattempo. In Belgio o in Francia, per fare un esempio, la vigenza di un contratto collettivo è di appena uno-due anni. In secondo luogo, non sono previsti – come non esistono neppure in Europa, dove solo un Paese su cinque è dotato di questi meccanismi – clausole generalizzate di indicizzazione automatica che nel corso della esecuzione del contratto collettivo garantiscono che i salari seguano l’andamento dei prezzi di consumo in modo automatico, senza la necessità di nuovi accordi tra le parti. Infine, è frequente che un contratto collettivo vada in ultra-vigenza, perché le parti sociali non trovano un accordo soddisfacente, prolungandosi così l’attesa per nuovi minimi contrattuali. Un’attesa che nel 2023 riguardava un numero molto elevato di lavoratori, secondo quanto riportato da Banca d’Italia: nel settore dei servizi di mercato, ad esempio, al 67,2 per cento dei lavoratori si applicava un contratto collettivo scaduto.

 

Lo scenario è notevolmente cambiato soltanto nella prima metà del 2024 quando, in una sorta di generale riscossa delle parti sociali in un momento di raccolta dopo la (abbondante) semina dell’anno precedente, sono stati rinnovati alcuni dei contratti collettivi più importanti, almeno in termini di lavoratori e aziende interessati, nel mercato del lavoro italiano. Nella prima metà dell’anno sono stati rinnovati una trentina di accordi, tra quelli firmati da Cgil Cisl e Uil, quando nell’intero 2023 erano stati in totale 44 (fuori dall’area di giurisdizione di Cgil, Cisl, Uil i rinnovi contrattuali del 2023 sono stati più di 150 per un totale di circa 200 CCNL rinnovati).

 

Nei primi tre mesi del 2024 le retribuzioni minime contrattuali sono cresciute complessivamente del 3,4 per cento, contro una inflazione che nel frattempo è scesa al 2 per cento. Il numero di lavoratori in attesa di un rinnovo contrattuale si è praticamente azzerato nel settore industriale e, sempre secondo Banca d’Italia, è sceso al 29,7 per cento in quello dei servizi – un dato che verosimilmente possiamo considerare ancora più basso alla luce del recente rinnovo del CCNL degli esercizi pubblici che riguarda oltre 600mila lavoratori secondo i dati Cnel-Inps.

 

Gli aumenti contrattuali calcolati sui profili professionali medi, si attestano all’incirca sui 170-200 euro complessivi (200 euro nel CCNL FIPE, 240 in nel CCNL Confcommercio, 170 nel CCNL Studi professionali 203 nell’Industria Alimentare) con una crescita percentuale sui minimi tabellari (che però non tengono conto di elementi consistenti come l’indennità di contingenza, il terzo elemento, gli scatti di anzianità e così via) che si attesta in doppia cifra in quasi tutti i settori (dal 10 al 22 per cento) senza contare le pur presenti erogazioni una tantum, volte a compensare eventuali periodi di vacanza contrattuale e/o la perdita del potere di acquisto. Il tutto a dimostrazione del fatto che la questione salariale in Italia si sviluppa, almeno dal punto di vista della contrattazione collettiva, non tanto e non solo sul piano degli importi orari quanto piuttosto su quello dei tempi di reazione e di allineamento tra le buste paga e gli andamenti inflazionistici.

 

È su questo punto che le parti sociali devono innanzitutto concentrare gli sforzi e la loro capacità negoziale. Alcune pratiche esistono già, come documentato anche dal X Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia pubblicato nelle scorse settimane. C’è il modello “a doppia pista salariale” del settore del legno-arredo (sia industria che piccola media impresa), che impegna le parti a incontrarsi a gennaio di ogni anno per definire gli incrementi dei minimi contrattuali relativi all’anno precedente sulla base del dato Ipca generale dell’anno precedente comunicato dall’Istat. Oppure c’è il modello adottato dal CCSL Stellantis che prevede che la parte economica del contratto duri soltanto due anni, anziché quattro come le parti normative e obbligatorie. Oppure il CCNL doppiatori che ha stabilito ex ante (diversamente dalle somme una tantum) l’erogazione di un elemento di garanzia parametrato all’indice Istat IFO da corrispondere al termine della vigenza contrattuale.

 

Un altro esempio, più consolidato e ormai noto agli operatori delle relazioni industriali, è infine quello, già richiamato sopra, del settore della metalmeccanica nel quale il contratto collettivo prevede una clausola di salvaguardia che àncora gli importi delle singole tranche all’andamento dell’indice IPCA. Proprio nel mese di giugno, quando ai lavoratori della meccanica sarà erogato la quarta tranche di aumento, saranno corrisposti 137 euro, cioè circa il 30 per cento in più quanto previsto in origine (32 euro in più, in termini nominali). Non pare un caso, a tal proposito, che la piattaforma sindacale unitaria delle sigle metalmeccaniche possa permettersi, a differenza di quanto accaduto in altre negoziazioni, di concentrare le proprie rivendicazioni su temi anche molto eterogenei e non solo direttamente collegati ai salari, cioè professionalità, formazione, orario di lavoro e partecipazione: tutte leve che, se adeguatamente sviluppate in chiave di produttività e qualità del lavoro, possono anche rendere più sostenibile per le imprese la rincorsa all’inflazione.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 25/2024