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Contrattazione aziendale e inquadramento del personale*

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Bollettino ADAPT 28 ottobre 2024 n. 38

 

La contrattazione aziendale può essere campo di sperimentazione in cui plasmare in una logica partecipativa modelli organizzativi orientati allo sviluppo delle competenze e all’innovazione, con i sistemi di classificazione e inquadramento che non contengono soltanto il “prezzo” delle mansioni ma una leva strategica per la produttività e la qualità del lavoro. Il cuore della contrattazione collettiva, sin dalle sue origini, è la classificazione economica e l’inquadramento giuridico del lavoro. È infatti nei sistemi di classificazione e inquadramento dei contratti collettivi che viene identificato cosa si compra e cosa si vende sul quel mercato particolare che è il mercato del lavoro, una volta stabilito che il lavoro non è merce. Quello che si compra è dunque il tempo di lavoro delle persone, un tempo qualificato da competenze, specializzazioni, capacità che formano profili professionali e mestieri. È il contratto collettivo che, grazie al processo di divisione sociale e tecnica del lavoro, stabilisce il valore economico di scambio (di mercato) dei singoli mestieri attraverso la loro riconduzione a qualifiche contrattuali.

 

Nonostante ciò, gli studiosi e gli operatori delle relazioni di lavoro, almeno quelli più attenti al formalismo giuridico e a quanto avviene nelle aule dei tribunali, tendono a circoscrivere l’analisi sui sistemi di classificazione e inquadramento dentro la mera funzione di limite (od ostacolo) alla mobilità endo-aziendale e al potere datoriale di modificare le mansioni del proprio dipendente. I livelli di inquadramento, le qualifiche contrattuali e le mansioni identificate dai contratti collettivi sono cioè intese come mero criterio identificativo del “debito” che il lavoratore ha nei confronti del datore di lavoro e del “credito” che questi può esigere. Non a caso, le principali riflessioni in materia raramente hanno per oggetto l’esame dei testi contrattuali ma piuttosto hanno come parametro di riferimento le rassegne della giurisprudenza, ad uso e consumo di consulenti e avvocati, che sistematicamente si interrogano fino a dove si può spingere il potere unilaterale del datore di lavoro di assegnare il lavoratore a compiti diversi rispetto a quelli originariamente pattuiti.

 

Poco o nulla si sa, per contro, del sé e del come cambiano ruoli, mestieri e professionalità individuati dai contratti collettivi di categoria sottoscritti a livello nazionale, ridotti nella teoria e nella pratica a mere scale gerarchiche di “salario” senza alcuna incidenza rispetto ai percorsi di costruzione delle competenze, i modelli organizzativi aziendali, la promozione e valorizzazione della professionalità, le politiche attive del lavoro e la riqualificazione del personale. Ancor meno si conosce, peraltro, delle soluzioni adottate dai contratti aziendali, a cui in molti casi gli stessi contratti collettivi di categoria rinviano per la implementazione dei sistemi di classificazione e inquadramento del personale. Eppure, come emerge dall’osservatorio FareContrattazione di ADAPT, la materia è tra le più trattate dalle relazioni sindacali in azienda: nel 2023, il 16% degli accordi raccolti nella banca dati si occupa del tema. E il numero cresce ulteriormente, fino al 26%, se si prendono in considerazione anche gli accordi che hanno ad oggetto piani formativi per lo sviluppo della professionalità. Le aziende più attive sul punto sono quello che appartengono ai sistemi contrattuali dell’industria alimentare (85%), dell’occhialeria (50%), seguiti dal settore chimico-farmaceutico (33%) e industria metalmeccanica (25%). Tutti settori nei quali, nelle ultime tornate contrattuali dei rinnovi nazionali, sono stati adottate delle riforme più o meno ampie dei sistemi di classificazione e inquadramento.

 

Le clausole collettive negoziate a livello aziendale sono in linea generale di due tipi. Una prima tipologia di previsioni, che possiamo definire di “struttura”, interviene in modifica del sistema di classificazione e inquadramento del contratto nazionale, integrandolo con profili professionali ulteriori se non addirittura sostituendolo del tutto, oppure affida la gestione e l’aggiornamento e dei sistemi di classificazione a commissioni e comitati paritetici. Una seconda tipologia di previsioni è quella che comprende norme di “comando”, cioè tutte quelle clausole contrattuali che si pongono in termini dinamici nella gestione dell’inquadramento della professionalità, definendo i percorsi di mobilità endo-aziendale (ma anche extra aziendale), i percorsi di carriera, premialità economiche.

 

In numerosi contratti aziendali, per esempio, sono contrattate forme di retribuzione variabile legate alle competenze e conoscenze riconosciute al lavoratore sia a livello “oggettivo”, per il solo fatto di essere inquadrato con una data qualifica contrattuale (Banca di Imola, 26 ottobre; Cassa di Ravenna del 31 marzo 2023), sia a livello “soggettivo”, in termini di valutazione della performance individuale e delle competenze espresse in concreto dal singolo lavoratore (Balenciaga Logistica, 5 maggio 2023). Così come vi sono accordi aziendali che configurano veri e propri percorsi di sviluppo professionale, con la elaborazione di specifici mansionari (Bolton Food, 20 giugno 2023), la costituzione di livelli intermedi (Lift Truck Equipment) la valorizzazione della polivalenza e della polifunzionalità, ove presente (Granarolo, 12 ottobre 2023; Parmalat, 13 luglio 2023). Tutte buone pratiche, talvolta episodiche talaltra espressione dei sistemi contrattuali nazionali, ma che mostrano come la contrattazione aziendale possa essere campo di sperimentazione in cui plasmare in una logica partecipativa modelli organizzativi orientati allo sviluppo delle competenze e all’innovazione, con i sistemi di classificazione e inquadramento che non contengono soltanto il “prezzo” delle mansioni ma una leva strategica per la produttività (anche individuale) e la qualità del lavoro.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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*pubblicato anche su Contratti & contrattazione collettiva, n. 40/2024

 

Contrattazione aziendale: il problema della “localizzazione” degli accordi

Contrattazione aziendale: il problema della “localizzazione” degli accordi

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Bollettino ADAPT 17 giugno 2024 n. 24

 

Come evidenziato dal  XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva del Cnel, ancora poco si sa della contrattazione decentrata e in particolare della contrattazione aziendale. Le ricerche più robuste e sistematiche, con tentativi più o meno riusciti di analisi campionarie e comunque scientificamente attendibili, risalgono alla fine del secolo scorso sempre in ambito Cnel (vedi M. Tiraboschi, Il contributo del Cnel alla conoscenza delle dinamiche del mercato del lavoro e degli assetti normativi e retributivi espressi dalla contrattazione collettiva, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2023, n. 4, pp. 977-997).

 

Una delle maggiori criticità nella conoscenza del fenomeno riguarda, come noto, proprio il reperimento del materiale contrattuale. Questo fermo restando che, poi, l’analisi del testo contrattuale andrebbe integrata da una ricostruzione e verifica del contesto per comprenderne il reale impatto e l’effettivo grado di applicazione (in materia vedi, per utili indicazioni di metodo, D. Gottardi, Nota a contratto: l’accordo Pometon S.p.a. nello specchio rotto delle relazioni sindacali nel settore metalmeccanico, in Lavoro e Diritto, 2013, pp. 269-282).

 

Eppure, parliamo di un materiale cospicuo se è vero che, come attesta ancora il rapporto Cnel richiamando i dati forniti da Istat, il 23,1 per cento delle aziende del settore privato (con esclusione del solo settore agricolo) con almeno dieci dipendenti applica un contratto collettivo aziendale per una platea di lavoratori pari al 55,1 per cento del totale dei dipendenti di imprese con almeno dieci addetti. È però anche importante sottolineare che questi lavoratori non possono essere considerati l’insieme completo dei dipendenti interessati dalla contrattazione di secondo livello, poiché all’interno della stessa azienda tali accordi potrebbero non essere applicati alla totalità dei lavoratori.

 

In tempi recenti (dal 2016) l’unica rilevazione ufficiale in materia di contrattazione decentrata (territoriale e aziendale) è quella svolta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nei suoi Report deposito contratti. Questi rapporti, ricavati dalla procedura per il deposito telematico dei contratti aziendali e territoriali che il Ministero ha attivato a seguito del Decreto interministeriale del 25 marzo 2016 (relativo alla detassazione dei premi di produttività), forniscono alcune indicazioni sul numero e sull’ambito di diffusione dei contratti decentrati oggetto di deposito ai fini della fruizione di agevolazioni fiscali, quindi non tutto l’universo della contrattazione aziendale.

 

I dati contenuti nei rispettivi report risultano utili per comprendere alcuni aspetti quantitativi del fenomeno, che seppure limitati ad alcune tipologie di accordi come quelli di produttività ovvero quelli di prossimità, ne dovrebbero rappresentare l’intero universo (es. tutte le aziende che richiedono la misura di incentivazione della contrattazione di produttività). Ciò in base al numero di contratti depositati che sono 95.596 a partire dal 2016, anno in cui è stata resa operativa la misura di detassazione della contrattazione di produttività.

 

Attualmente risultano depositati 10.078 contratti aziendali vigenti (a cui si aggiungono 2.094 contratti territoriali). Il report fornisce anche qualche indicazione sui settori (il 60% dei contratti depositati si riferisce ai servizi, il 39% all’industria e l’1% all’agricoltura) e soprattutto sulla ripartizione territoriale di detti accordi. Da questo ultimo punto di vista, secondo l’ultimo report disponibile, risulterebbe che la contrattazione aziendale è, come era lecito aspettarsi, molto più diffusa in Lombardia, Veneto e Piemonte rispetto a regioni come Calabria, Basilicata e Molise. In particolare, sempre secondo i dati dell’ultimo rapporto, in Lombardia risultano depositati 2.891 accordi aziendali, 1.070 in Veneto e 962 in Piemonte, mentre sono 60 i contratti depositati in Calabria, 48 in Basilicata e 19 in Molise.

 

Il punto, tuttavia, per comprendere l’affidabilità di questi dati, quantomeno ai fini di analisi e ricerca sul fenomeno, e quindi anche la validità della affermazione circa la scarsa penetrazione della contrattazione aziendale nelle regioni del Mezzogiorno, attiene ai criteri di raccolta e archiviazione dei testi contrattuali. Un problema noto alle parti sociali che nel tempo hanno costruito banche dati sulla contrattazione aziendale. Nel rapporto Fondazione di Vittorio – Cgil del 13 aprile 2022, per esempio, si sottolinea come gli accordi vengano catalogati in funzione del territorio su cui gli effetti dell’accordo di secondo livello si riflettono. Non così per il report del Ministero del lavoro, come vedremo a breve.

 

Si tratta di una questione non banale per fornire una mappatura attendibile del peso e della diffusione degli accordi aziendali anche nella prospettiva di realizzare un atlante della contrattazione collettiva in Italia (nel nostro caso ad integrazione dell’Atlante già realizzato da ADAPT per la contrattazione nazionale). Lo stesso archivio ADAPT della contrattazione collettiva, che ad oggi contiene oltre 5.000 accordi aziendali, ha subito nel tempo una evoluzione. Dalla prima banca dati (2004-2014) e fino al 2021 si teneva traccia del luogo di sottoscrizione, che è cosa diversa sia dall’ambito di applicazione del contratto sia dalla sede legale dell’azienda. A partire del 2022 si è deciso invece di considerare l’ambito di applicazione suddiviso in aree geografiche (nord, centro, sud e isole, multi-territoriale/nazionale). È utile quindi interrogarsi su come questi accordi vengano raccolti e catalogati dal Ministero del Lavoro per valutarne l’attendibilità.

 

L’articolo 14 del Decreto Legislativo n.151/2015 stabilisce che le agevolazioni legate alla stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali siano riconosciute a condizione che questi vengano depositati in via telematica. Tale adempimento è necessario a prescindere dal tipo di agevolazione che può essere di natura fiscale, contributiva o di altro genere. Una volta effettuato il deposito telematico, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro mettono a disposizione delle altre amministrazioni e degli enti pubblici interessati le informazioni contenute nei contratti.

 

Dal 17 luglio 2019 l’applicativo informatico è semplificato e può essere utilizzato anche per depositare i contratti di primo livello. La procedura è strutturata in due fasi. In un primo momento, l’utente deve caricare il file in formato pdf e inserire alcune informazioni essenziali (dati del datore di lavoro/associazione di categoria che effettua il deposito, tipologia di contratto, data di sottoscrizione e periodo di validità). Successivamente, è prevista la possibilità di specificare l’agevolazione per cui si intende effettuare il deposito telematico (detassazione, decontribuzione per le misure di conciliazione tra i tempi di vita lavoro, credito d’imposta per la formazione 4.0, contrattazione di prossimità, omnicomprensività ex art. 3 del D.L. 318/96, accordo collettivo aziendale ex art. 14, co. 3 del D.L. 104/2020). Il sistema potrà chiedere, per alcune tipologie di deposito, di inserire alcuni dati aggiuntivi. Qualora la motivazione che rende necessario il deposito non sia nessuna di queste, l’utente potrà compilare il campo testuale “Altro”, aggiungendo ulteriori informazioni.

 

Nel manuale operativo (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,  Applicazione Deposito Telematico Contratti. Manuale Utente, 2020) non si specifica quale sia la sede competente per il deposito, se la sede legale o la sede dove fisicamente c’è la fabbrica o l’unità produttiva a cui si applica quel contratto. È vero che una FAQ del Ministero indica che l’impresa, in fase di deposito dell’accordo sul portale, sarebbe tenuta ad indicare l’ITL competente prendendo come riferimento l’ubicazione della propria sede legale. Tuttavia, questa indicazione non ha valore prescrittivo e non pare neppure nota tra gli addetti ai lavori che fanno riferimento al solo manuale.

 

Ora, è evidente che il riferimento alla sede legale dell’azienda rende problematico e fuorviante il dato sulla distruzione territoriale degli accordi almeno se teniamo come punto di riferimento per l’analisi il loro campo di applicazione, cioè il luogo dove effettivamente si applica. Molte imprese, specialmente quelle di grandi dimensioni, potrebbero infatti avere diversi siti produttivi e unità operative dislocate in diverse aree geografiche del Paese, rendendo l’ubicazione della sede legale un parametro poco rappresentativo dell’effettiva distribuzione territoriale degli accordi. Per questa ragione, l’archivio del Ministero del Lavoro potrebbe non fornire un quadro preciso e concreto sulla distribuzione geografica dei contratti decentrati e del loro impatto a livello locale.

 

Le finalità del Ministero non sono ovviamente di ricerca e analisi del fenomeno. Tuttavia, un allineamento tra le diverse banche dati sarebbe importante per far dialogare le diverse fonti informative sulla contrattazione decentrata e aziendale in particolare. Una armonizzazione dei parametri di catalogazione permetterebbe infatti una maggiore coerenza e comparabilità dei dati, fornendo una rappresentazione più accurata della contrattazione di secondo livello.

 

Jacopo Sala
Apprendista di ricerca ADAPT

@_jacoposala

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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Evoluzione e prospettive della contrattazione collettiva nella regolazione dell’orario di lavoro*

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Bollettino ADAPT 8 maggio 2023, n. 17

 

Dagli albori della rivoluzione industriale in poi, gli aspetti legati alla dimensione temporale hanno costantemente ricoperto un ruolo centrale nella regolazione del lavoro. Non è un caso che, al termine della prima guerra mondiale, l’appena costituita Organizzazione Internazionale del Lavoro abbia adottato, quale suo primo atto, la Convenzione n. 1/1919, volta a limitare le ore di lavoro ad otto per giorno e a quarantotto per settimana. In Italia il medesimo principio è stato sancito dal Regio Decreto-Legge n. 692 del 1923, che – fino all’entrata in vigore della Legge n. 196 del 1997 che ha fissato l’orario normale di lavoro in quaranta ore settimanali – si è occupato di disciplinare l’orario di lavoro.

 

Tra la disciplina degli anni Venti e la Legge del 1997, però, sono state le parti sociali a farsi carico delle istanze di regolazione (e riduzione) dell’orario di lavoro: con il contratto collettivo nazionale dell’industria metalmeccanica privata del 1970, ad esempio, è fissato, a partire dal 1° dicembre 1972 e per tutti i settori merceologici afferenti alla categoria contrattuale, il limite delle quaranta ore settimanali di lavoro. Non sorprende, quindi, constatare che, all’approvazione del Decreto Legislativo n. 66 del 2003 (il testo che oggi, in attuazione delle direttive europee sull’orario di lavoro, regola la materia), nella maggioranza dei settori l’orario lavorativo era già stato ridotto a quaranta ore o era addirittura inferiore (si prenda il settore chimico, per cui dal 1998 l’orario è di trentasette ore e quarantacinque minuti a settimana).

 

Attualmente, dunque, il Decreto Legislativo n. 66 del 2003 prevede che l’orario normale di lavoro sia articolato sulla base di quaranta ore settimanali, ma consente ai contratti collettivi di stabilire una durata minore o di riferire l’orario alla durata media delle prestazioni rese in un periodo non superiore all’anno (c.d. orario multiperiodale). La possibilità di intervenire regolando la variabile temporale, dunque, risulta una delle facoltà più importanti che il legislatore assegna alle parti sociali per disciplinare e organizzare il mercato del lavoro.

 

È in ogni caso da sottolineare che, storicamente, nel contesto italiano la contrattazione in materia di tempo di lavoro si è concentrata sulla richiesta, lato datoriale, di maggiore flessibilità oraria e, lato sindacale, di minore orario di lavoro. La rivendicazione di riduzione dell’orario, inoltre, trae argomenti anche dalla constatazione per cui, secondo le ultime stime dell’OCSE disponibili, relative al 2021, l’Italia è, con 1669 ore in media effettivamente lavorate all’anno per singolo lavoratore, tra i Paesi europei in cui si lavora di più, staccata da Portogallo (1649) e Spagna (1641), ma soprattutto da Francia (1490), Danimarca (1363) e Germania (1349). È però da sottolineare che la produttività, intesa come valore del PIL per ora lavorata, da anni non cresce in Italia come negli altri Paesi europei e, dunque, i tempi di lavoro più lunghi sarebbero frutto della scarsa produttività oraria. Sul punto, è anche bene evidenziare che la produttività è determinata primariamente da fattori di contesto: le ore di lavoro, infatti, sono meno produttive in un contesto, come quello italiano, in cui la produzione è ad alta intensità di manodopera e caratterizzata da un minor apporto delle tecnologie, testimoniato anche da bassi investimenti nella ricerca e nello sviluppo (1,3% del PIL contro il 2% di media UE). Non è un caso, dunque, che le rivendicazioni sindacali di riduzione dell’orario siano accompagnate da altre istanze di intervento, oltre che sui livelli occupazionali, anche sulla innovazione tecnologica, poiché, nell’ottica delle organizzazioni dei lavoratori, un minor orario di lavoro potrebbe essere compensato da una crescita dell’occupazione e degli investimenti in ricerca e sviluppo.

 

È inoltre da segnalare che, accanto alle tradizionali prestazioni lavorative cronometricamente delimitate, grazie allo sviluppo tecnologico sono in aumento i lavoratori che rendono la propria prestazione – utilizzando le parole della Legge n. 81 del 2017 in materia di lavoro agile – con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, la cui regolazione rappresenta una delle sfide delle parti sociali per governare il mercato del lavoro in trasformazione.

 

In sintesi è da rilevare che, se non appaiono attuali gli scenari di drastica riduzione dell’orario, come quella prospettata nel 1930 da John Maynard Keynes che aveva profetizzato una settimana lavorativa di quindici ore, è indubbio che il tema della regolazione del fattore temporale è centrale per lo sviluppo dell’intero mercato del lavoro, poiché, dalle scelte in materia, potrebbero derivare conseguenze anche su produttività e livelli occupazionali. Alle parti sociali e alla contrattazione, dunque, il compito di trovare il punto d’equilibrio.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@FrancescoAlifan

 

*Pubblicato anche su Il Sole 24 Ore col titolo Quali prospettive nella regolazione, 26 aprile 2023

 

I premi di risultato: una fotografia della contrattazione aziendale tra il 2012 e il 2021

I premi di risultato: una fotografia della contrattazione aziendale tra il 2012 e il 2021

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Bollettino ADAPT 19 dicembre 2022, n. 44

 

Come noto il premio di risultato è un elemento della retribuzione complementare ai minimi fissati dai contratti di categoria, di natura monetaria e a carattere variabile, la cui corresponsione è collegata alla misurazione e al raggiungimento di obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Il premio, sostenuto da robuste normative di agevolazione sul piano fiscale e contributivo, può essere istituito unilateralmente dalla direzione aziendale oppure, più spesso, dalla contrattazione, individuale o collettiva, a livello aziendale oppure nazionale.

 

La retribuzione di risultato si diffonde a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ma è solo negli anni Ottanta e Novanta che si assiste a un suo primo radicamento nella esperienza italiana  (vedi, ad accesso aperto, il numero monografico del 1991 della rivista Diritto delle Relazioni Industriali dedicato alla retribuzione ad incentivi); anni in cui, nella dialettica tra lavoratori e datori di lavoro, si manifestano i diversi e coincidenti interessi ad ottenere la condivisione dei benefici legati all’andamento positivo dell’azienda, da un lato, e ad incentivare la prestazione lavorativa dei dipendenti, dall’altro. La funzione dei premi di risultato, dunque, è fin dal principio duplice: per i lavoratori, infatti, consente la redistribuzione dei ricavi conseguenti alle migliori prestazioni aziendali, per i datori di lavoro, invece, permette di stimolare i lavoratori a raggiungere determinati obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Alla funzione redistributiva e a quella incentivante si è poi aggiunta anche una funzione sanzionatoria, solitamente connessa ai giorni di assenza dal lavoro.

 

In virtù della logica sottesa a tale istituto, dunque, è stata principalmente la contrattazione collettiva aziendale a farne uso, tanto da portare la retribuzione premiale ad essere la materia più presente negli accordi di secondo livello. È a livello aziendale, infatti, che la previsione di premi può essere maggiormente utile per garantire, nell’ambito di una cooperazione tra datore di lavoro e lavoratore, il raggiungimento di determinati obiettivi d’impresa, nell’ottica affermata, ad esempio, dall’accordo Hayes Lemmerz del 2013 (vedi il I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), secondo cui «il premio di risultato ha lo scopo di contribuire a massimizzare la partecipazione e il coinvolgimento dei collaboratori al conseguimento dei risultati aziendali» connessi «al conseguimento di obiettivi concordati tra le parti, misurati attraverso opportuni indicatori di performance».

 

È possibile affermare, come testimoniato dall’esperienza degli ultimi dieci anni, che esiste una enorme varietà nella regolazione della retribuzione di risultato, che muta in considerazione delle strategie e dell’organizzazione della singola azienda. Anche per quanto attiene alla modalità di determinazione, quindi, esistono molteplici tipologie di indicatori e algoritmi utili a stabilire l’an e il quantum del premio, che è determinato in funzione degli obiettivi aziendali, a loro volta funzione del tipo di processo produttivo, del tipo di prodotto e della tipologia di mercato di riferimento.

 

Per quanto attiene agli indicatori la misurazione cronometrica dei tempi di lavoro non è più oggi il principale parametro della retribuzione di risultato. La principale distinzione, infatti, può esser fatta tra indicatori di redditività e indicatori di efficienza produttiva/qualità del lavoro, anche se è complesso tracciare una linea di demarcazione netta, poiché, in realtà, i premi risultano spesso calcolati sulla base di un’ibridazione dei diversi indicatori, su cui incidono anche altri indici costruiti ad hoc in base alla realtà aziendale di riferimento. Pur nell’impossibilità di adottare una rigida categorizzazione, si possono osservare, esaminando i contratti aziendali, alcune linee di tendenza, come la maggiore incidenza di parametri connessi a redditività e efficienza.

 

La redditività, in particolare, permette di parametrare la retribuzione di risultato alle sorti dell’impresa, implicando una gratificazione del lavoratore a seguito di un’effettiva crescita economica dell’attività imprenditoriale, anche se è da sottolineare come i risultati dell’attività d’impresa non dipendano esclusivamente da fattori endogeni, ma anche esogeni, come la concorrenza, la selettività, la collocazione dei prodotti sul mercato e così via. Per riequilibrare tale circostanza, quindi, alcuni contratti affiancano al premio di risultato una gratifica una tantum per i lavoratori che si distinguono per l’apporto all’attività d’impresa. Da questo punto di vista è molto peculiare il caso dell’accordo Rodacciai del 2012 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), che ha introdotto una indennità di polivalenza per il lavoratore che si è distinto per la capacità di svolgere mansioni diverse da quelle per le quali viene assunto, stabilendo un premio congruo all’ulteriore mansione svolta e meritevole di gratifica. Una simile prassi, tuttavia, potrebbe rivelarsi in contrasto con la disciplina delle mansioni prevista dall’art. 2103 del Codice Civile. Meno ambiguo, da questo punto di vista, si rivela, invece, l’accordo integrativo Tenaris del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 177),  che, ad integrazione del premio di risultato, prevede una serie di premi volti a gratificare i lavoratori che si sono distinti sotto alcuni profili sul posto di lavoro (sicurezza sul lavoro, professionalità, assiduità o formazione oltre l’orario ordinario di lavoro).

 

Quanto all’indicatore dell’efficienza, è diversamente definito a seconda dell’azienda e del settore produttivo, ma è possibile affermare che si tratta generalmente di indicatori che riguardano l’efficienza orientata in termini di produttività, qualità e riduzione dei costi. Gli indicatori di produttività utilizzati dalle aziende sono i più disparati: il rapporto tra il tempo predeterminato per l’effettuazione delle singole produzioni e il tempo utilizzato per raggiungere l’obiettivo, il raggiungimento di determinati tempi di consegna e di eliminazione delle non conformità, il rapporto tra i costi di produzione interna e i giorni di produzione interna, il rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, ma anche indicatori relativi all’efficienza organizzativa e produttiva, come la crescita dello smart working e la riduzione dei tempi di reazione dell’organizzazione aziendale alle oscillazioni della domanda. Alcuni accordi, poi, prevedono che l’efficienza sia da intendere in termini di qualità, utilizzando quale indicatore il rapporto tra il numero di prodotti buoni e processati in linea di montaggio oppure il numero di pezzi difettosi su ogni milione di pezzi consegnati. È interessante il caso dell’accordo Spumador (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225), dove, a partire dal 2018, l’indicatore di produttività misura la prestazione della singola linea produttiva in termini di efficienza, di qualità e di manutenzione, così da valorizzare il tempo di lavoro effettivamente produttivo. Per quanto attiene all’efficienza organizzativa è emblematico l’accordo Sibelco Italia del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 174), che, mirando a perseguire logiche coerenti con le trasformazioni tecnologiche e organizzative, ha individuato come presupposti dell’erogazione della retribuzione di risultato l’«introduzione dello smart working tra il 3% e il 5% dei ruoli compatibili» e la diminuzione dei costi effettivi inerenti al monte ore ferie.

 

Spesso il premio è assegnato in base alla combinazione di diversi indicatori legati a redditività e produttività: è il caso dell’accordo Fisher&Paykel del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 195), che prevede che il premio dipenda per un 20% da indicatori di redditività, per un 40% dall’efficienza produttiva, intesa come rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, e per un 40% da un indice di qualità della produzione, calcolato sulla base della difettosità primaria.

 

Alcuni accordi collettivi, inoltre, prevedono indicatori diversi dalla efficienza e dalla redditività, volti a raggiungere altri obiettivi dell’impresa, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro: è il caso dell’indicatore del Total Case Incident Rate, previsto dall’accordo Pittway del 2014 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 234),  che esprime il numero di infortuni registrati rispetto al target stabilito dall’azienda. Con una logica simile, l’accordo Diamalteria Italiana del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 170) prevede che gli obiettivi di efficienza aziendale siano connessi a indicatori che valutano la partecipazione di tutti i dipendenti a progetti utili a identificare i rischi e a rinforzare i comportamenti positivi in materia di sicurezza sul lavoro.

 

La retribuzione incentivante, inoltre, può anche collegarsi alla misurazione delle competenze dei lavoratori: nel caso della Santander, ad esempio, una quota di retribuzione premiale è demandata dal 2016 ad una valutazione delle competenze comportamentali dei lavoratori, al cui esito si lega l’importo del premio. Il tema è affrontato in maniera articolata anche dall’accordo ICAM del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 192), che realizza un sistema di retribuzione della professionalità e delle competenze acquisite dai lavoratori, valido per tutte le mansioni e per tutti i dipendenti: tale sistema prevede un importo fisso, denominato “professionalità” e legato alla mansione svolta dal lavoratore, e un importo variabile, definito attraverso un sistema chiamato “pagella”, basato sulla valutazione complessiva delle competenze tecniche e comportamentali del lavoratore. Un ultimo spunto interessante è offerto dall’accordo Bonfiglioli del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 197), che collega il premio di risultato alla professionalità e quest’ultima alla formazione, stabilendo che l’accesso ad una quota significativa della retribuzione premiale venga subordinato alla frequenza di alcune ore di formazione tecnica (svolta in maniera individuale e al di fuori dell’orario di lavoro) e in materia di sicurezza sul lavoro (svolta collettivamente all’interno dell’orario di lavoro).

 

Un’altra traiettoria evolutiva è segnata dalla diffusione di intese che prevedono meccanismi retributivi connessi ai c.d. “obiettivi verdi”, parametri finalizzati all’efficienza e conservazione energetica, come nel caso dell’accordo Luxottica del 2015 (II Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2015, qui p. 210), dove il premio di risultato è legato ad una serie di indicatori di sostenibilità, detti “zero sprechi”, legati al consumo di energia elettrica, alla riduzione di stampe, all’incremento di utilizzo dei mezzi pubblici, nonché alla riduzione nel consumo di materiali indiretti in funzione dei volumi di produzione.

 

Dall’analisi degli indicatori previsti dai contratti collettivi, è possibile affermare che il sistema del premio di risultato è volto ad incentivare non il singolo lavoratore, ma l’intera azienda o quantomeno un’area produttiva. Soltanto attraverso un buon andamento dell’azienda nel complesso e dell’organizzazione in cui è inserito il singolo lavoratore, infatti, è possibile conseguire il premio. La retribuzione di risultato, dunque, così intesa ha natura collettiva, in quanto incentiva il personale ad una maggiore efficienza ed è spesso legato anche alla redditività dell’azienda. Il singolo, per quanto virtuoso possa essere, non ha la possibilità di conseguire un premio elevato se il resto della forza lavoro non è altrettanto efficiente e l’azienda non raggiunge determinati risultati in termini di redditività o efficienza.

 

Tuttavia, non sempre la condotta del singolo lavoratore è irrilevante ai fini della determinazione del premio. Gli accordi collettivi, infatti, possono prevedere una rimodulazione del premio in base all’effettiva presenza in azienda del dipendente. A tal proposito, dunque, si osservano indici individuali correttivi di adeguamento del premio di risultato percepito dal singolo lavoratore. In particolare, il coefficiente moltiplicatore correttivo può essere strutturato in tre diversi modi: il premio presenza, che interviene aumentando il premio di risultato al raggiungimento dell’obiettivo di presenze, ma non ha effetti in caso contrario; la penalità per assenza, che comporta una diminuzione del premio in corrispondenza di certe soglie di eventi di assenza; il correttivo proporzionale in funzione della presenza e dell’assenza, che agisce in entrambe le direzioni. Emblematico è, da questo punto di vista, l’accordo Menarini del 2016 (III Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2016, qui p. 172), che, con una previsione confermata anche nel successivo accordo del 2019, considera l’assiduità individuale sul posto di lavoro come «uno dei fattori principali per il conseguimento del risultato economico dell’Azienda». A tal fine l’accordo prevede che l’importo del premio possa crescere o decrescere in base alla frequenza dei periodi di malattia e della durata della stessa (con esclusione dei ricoveri ospedalieri e dei giorni dedicati a particolari tipi di terapie). Il premio, quindi, non è corrisposto ai lavoratori che si trovino in aspettativa, in maternità (per il periodo di astensione facoltativa), in cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, ovvero in periodi di solidarietà superiori a due settimane. Ispirato da una logica simile è anche l’accordo Lombardini del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 174), che affianca ad un elemento di natura collettiva legato all’andamento globale dello stabilimento, misurato in termini di produttività e qualità del lavoro, un indicatore di assiduità individuale, che misura la percentuale di assenza dello stabilimento (intesa come carenza per malattia con costo interamente a carico del datore di lavoro) e le ore di assenza individuali. Un caso parzialmente diverso è quello dell’accordo AARTEE del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 179), che prevede distinti premi di risultato erogati in base a produttività e qualità dei prodotti a livello di stabilimento e assiduità delle presenze a livello individuale.

 

Per quanto attiene all’apporto individuale, è possibile anche che gli accordi mirino a premiare particolari contributi dei singoli lavoratori, come nel caso dell’accordo Peroni del 2018  (V Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2018, qui p. 172),  in cui «il premio si pone gli obiettivi di riconoscere i contributi eccellenti, le idee più innovative e valorizzare le persone, considerandole centrali anche per il processo di cambiamento».

 

Con riferimento alle modalità di corresponsione, si segnala un’ulteriore diversificazione negli accordi di secondo livello: il premio può essere riconosciuto in un’unica soluzione durante l’anno o, alternativamente, le parti possono prevedere la rateizzazione in due o più tranches, solitamente collocate a metà e a fine anno. In ogni caso, però, il premio fa riferimento all’annualità, con la conseguenza che per i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo parziale è da riproporzionare considerando solo il tempo effettivamente lavorato.

 

Diversi contratti aziendali, inoltre, consentono al lavoratore di richiedere la conversione del premio di risultato in beni e servizi di welfare. Tale conversione può riguardare l’intero premio di risultato, come nel caso dell’accordo Liquigas del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 178),  che lascia al lavoratore la possibilità di determinare la quota (compresa tra il 5% e il 100%) del premio da convertire, o solo una parte, come previsto dall’accordo Hera del 2017, confermato per la stessa azienda anche dal contratto del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 175), per cui è possibile convertire fino alla metà del premio. Alcuni accordi, inoltre, possono decidere di selezionare i lavoratori a cui viene riservata la possibilità di welfarizzazione della retribuzione di risultato: è il caso dell’accordo Creval del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194),  che prevede una simile facoltà solo per i dipendenti con redditi da lavoro superiori a €80.000. Altri contratti, invece, adottano a monte una combinazione tra le diverse modalità di erogazione della retribuzione premiale: ad esempio il contratto Albaleasing del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194) prevede, sempre con riferimento ai lavoratori con redditi superiori a €80.000, che il premio sia erogato al 50% in forma monetaria e al 50% sotto forma di servizi di welfare. Di particolare interesse risulta anche l’accordo Ineos del 2017 (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225),  che consente ai lavoratori di convertire una piccola quota del premio di risultato (corrispondente a 60 euro lordi) in una giornata di riposo da godere durante l’anno.

 

In chiusura, è possibile osservare, analizzando le previsioni della contrattazione collettiva di secondo livello in materia di retribuzione di risultato nel corso dell’ultimo decennio, come, sul punto, la linea di tendenza principale sia rappresentata dall’utilizzo di parametri e indicatori che sempre meno hanno a che fare con la mera misurazione del tempo di lavoro. Gli indicatori più diffusi, infatti, sono quelli collegati ai risultati raggiunti dall’impresa in termini di redditività e produttività, ma si stanno affermando anche parametri che premiano il raggiungimento di obiettivi legati ad altri interessi, come quelli relativi alla sicurezza sul lavoro o alla sostenibilità ambientale ed energetica. In quest’ottica, dunque, si può affermare che la retribuzione di risultato è certamente un importante testimone del passaggio da un mercato del lavoro connotato principalmente come mercato del tempo di lavoro ad un diverso modello in cui rilevano maggiormente competenze e professionalità, necessarie per raggiungere gli obiettivi delle imprese.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@FrancescoAlifan