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Il coinvolgimento delle parti sociali nell’implementazione dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza: evidenze dall’ultimo report Eurofound

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Bollettino ADAPT  3 aprile 2023, n. 13

 

Il Dispositivo per la ripresa e resilienza (Recovery and Resilience Facility) rappresenta lo strumento principale del Piano NextGenerationEU, un ambizioso programma di investimenti e riforme finalizzato a stimolare la crescita e a stabilizzare l’attuale contesto europeo post-crisi. Questo strumento, orientato alla domanda e basato sulle performance, è una componente chiave della strategia orientata al futuro dell’UE, destinato a contribuire significativamente all’European Green Deal. A oltre un anno e mezzo dalla sua adozione, la valutazione della Commissione Europea di luglio 2022 indica che l’implementazione dei Piani di Ripresa e Resilienza sta procedendo adeguatamente. Tuttavia, il coinvolgimento delle parti sociali nella preparazione e implementazione dei suddetti, stabilito nel regolamento del Recovery and Resilience Facility, è stata alquanto insufficiente. Un recente studio elaborato da Eurofound ha infatti evidenziato una certa insoddisfazione per la qualità generale del coinvolgimento delle parti sociali, con i sindacati maggiormente critici del loro ruolo nell’esecuzione degli investimenti e le organizzazioni dei datori di lavoro più positive, soprattutto in merito alle politiche di digitalizzazione rivolte alle PMI. Viene, inoltre, rilevato come il coinvolgimento delle stesse sia stato più evidente durante la progettazione dei Piani, svoltasi principalmente nel 2021, rispetto alla fase di implementazione.

 

Coinvolgimento generale

 

Ad eccezione di alcuni Stati membri come Repubblica Ceca, Spagna e Svezia, e di alcuni aspetti specifici come il tempo dedicato alla consultazione in Danimarca, le valutazioni delle parti sociali per quanto riguarda l’attuazione dei Piani di Ripresa e Resilienza e la preparazione dei Programmi Nazionali di Riforma risultano molto simili.

 

La maggioranza delle parti sociali reclama che il tempo dedicato al loro coinvolgimento nella stesura dei Programmi Nazionali di Riforma o nell’attuazione delle varie misure incluse nel Piano di Ripresa e Resilienza sia stato inadeguato. Sono poi in molti ad affermare che in alcuni Stati membri è mancato un vero e proprio processo di consultazione e discussione, nonostante diversi Stati abbiano istituito nuovi organismi con il fine specifico di coinvolgere le parti. In aggiunta, viene lamentato che, anche quando si verifica, la consultazione è tipicamente un processo piuttosto formale e superficiale in cui le decisioni vengono adottate unilateralmente dal governo. Un ulteriore criticità emersa si riferisce, inoltre, al fatto che le autorità nazionali hanno dimostrato di non riflettere adeguatamente le opinioni e le proposte dei sindacati e delle organizzazioni dei datori di lavoro, mentre la partecipazione alle istituzioni di dialogo sociale tripartito è stata principalmente limitata allo scambio di informazioni.

 

Tuttavia, tali conclusioni generali dovrebbero essere contestualizzate in riferimento alle strutture nazionali di dialogo sociale e all’impatto che una procedura senza precedenti come lo sviluppo dei Piani di Ripresa e Resilienza ha avuto sulla politica nazionale. Infatti, le valutazioni delle parti sociali possono essere influenzate da vari fattori, come ad esempio le diverse velocità degli Stati membri nell’attuazione delle riforme e degli investimenti, il fatto che il processo di attuazione sia ancora alle prime fasi, la complessità e la diversità delle misure nei PRR che ha favorito in alcuni casi la consultazione degli esperti rispetto ai processi di dialogo sociale, le diverse architetture di governance degli Stati membri che influiscono sul livello di attuazione (centrale, federale o regionale), l’assenza di coordinamento tra i vari ministeri e dipartimenti coinvolti, il diverso impatto finanziario dei Piani all’interno dei vari Stati membri, l’importanza attribuita dalle stesse parti sociali ai PRR, o dispute nazionali e divergenze in merito al dialogo sociale che potrebbero aver influenzato le risposte fornite. Ciononostante, la qualità e l’intensità del coinvolgimento dimostra ancora una volta che nei Paesi con strutture di dialogo sociale ben stabilite, l’attuazione delle riforme richiede un impegno costante con le parti sociali.

 

Coinvolgimento per categoria di misure in 11 Stati membri

 

In merito all’analisi della partecipazione delle parti sociali nello sviluppo e nell’attuazione di alcune delle misure più rilevanti del Piano di Ripresa e Resilienza, basata esclusivamente su 11 Stati membri( Bulgaria, Croazia, Estonia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia), il report indica che le parti sociali tendono ad essere più coinvolte nelle misure afferenti alla dimensione della giustizia, in quanto rientrano generalmente nelle loro competenze (prestazioni sociali, dialogo sociale, ecc.). Tuttavia, ciò non vale per tutti gli Stati membri. Infatti, sono stati frequenti casi in cui le stesse parti hanno criticato la qualità del loro coinvolgimento in misure chiave che avrebbero dovuto essere oggetto di significativi processi di dialogo sociale (ad esempio, nel caso del nuovo Registro generale delle organizzazioni sindacali in Grecia). D’altro canto, le parti sociali sono risultate meno coinvolte nelle misure relative alla sostenibilità e, in particolare, alla transizione digitale e alla produttività. L’analisi ha inoltre mostrato che vi è stata una partecipazione disuguale dei sindacati e delle organizzazioni datoriali in diverse misure. In generale, sembra che le organizzazioni datoriali siano state più prominenti dei sindacati nell’attuazione di misure relative alle competenze digitali (ad esempio, in Estonia e Grecia) e alla sostenibilità (ad esempio, in Estonia, Grecia e Romania). Al contrario, i sindacati in alcuni Stati membri sono stati più coinvolti in misure concernenti la dimensione della giustizia (ad esempio, regolamentazione delle entità dell’economia sociale in Polonia o emendamenti legali contro la corruzione in Slovacchia).

 

Indirizzi politici

 

Il rapporto in questione offre diverse indicazioni politiche sulla base delle criticità emerse. In primo luogo, viene ribadita la necessità di intensificare gli sforzi per migliorare la qualità del coinvolgimento delle parti sociali al fine di garantire una corretta implementazione dei Piani di Ripresa e Resilienza, in linea con gli interessi dei datori di lavoro, dei lavoratori e della società nel suo insieme. Infatti, il coinvolgimento delle medesime nella formulazione delle politiche e in particolare nell’implementazione dei suddetti Piani è un indicatore della qualità del dialogo sociale, come dimostrato durante la crisi COVID-19, in cui il dialogo sociale di buona qualità ha contribuito a gestire la crisi e mitigare i suoi effetti economici e sociali. Inoltre, una volta adottati i Piani, è importante mantenere il coinvolgimento delle parti sociali anche nella fase di implementazione delle misure, e non solo in quella di preparazione. Poiché l’attuazione del Dispositivo per la ripresa e resilienza, compreso REPowerEU, rimarrà al centro della politica macroeconomica dell’UE, l’attuazione delle diverse riforme e investimenti inclusi nei Piani di Ripresa e Resilienza richiederà, parimenti, l’instaurazione di una dinamica idonea al coinvolgimento efficace delle parti sociali in fase di consultazione, soprattutto nei Paesi membri dove si è segnalata una carenza di dialogo sociale. Occorre altresì garantire che le lacune e la frammentazione tra le attività dei diversi dipartimenti governativi e i diversi livelli di governo non siano di impedimento all’efficace coinvolgimento delle parti sociali. Infatti, un approccio governativo nazionale omogeneo o unificato per includere le stesse nell’attuazione dei PRR aiuterebbe a facilitare i periodi e le procedure di consultazione. Allo stesso modo, i Paesi membri dovrebbero prendere in considerazione il bisogno di sforzi aggiuntivi volti a migliorare la segnalazione del coinvolgimento delle parti sociali nei Programmi Nazionali di Riforma, ad esempio indicando quali misure sono supportate dalle stesse o fornendo ulteriori dettagli sulle procedure di consultazione.

 

Valeria Virgili

ADAPT Junior Fellow

@Virgil11Valeria

Rinnovo del CCNL ABI: la revoca di Intesa Sanpaolo e i possibili scenari

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Bollettino ADAPT  13 marzo 2023, n. 10

 

Ha fatto molto scalpore la notizia della revoca, lo scorso 27 febbraio 2023, del mandato conferito da Intesa Sanpaolo ad ABI per la negoziazione del CCNL di settore. Tuttavia, come specificato in un comunicato da un portavoce della Banca, si tratta di una revoca limitata alla sola negoziazione del rinnovo del contratto collettivo; Intesa Sanpaolo, infatti, resta a tutti gli effetti un associato all’ABI e la affiancherà, d’accordo con l’Associazione, «nel confronto con le organizzazioni sindacali nazionali a livello di settore, in una fase di particolare importanza come quella attuale», allo scopo di «fornire il supporto più adeguato» ai negoziati per tutelare il loro «modello organizzativo» e il «ruolo ricoperto da Intesa Sanpaolo nel nostro Paese» (Banche, Intesa resta in Abi ma revoca la delega per il contratto, in Il Sole 24ore, 2 marzo 2023).

 

La vicenda può essere sinteticamente riassunta come un altro caso di “OT-membership”, una tendenza frequentemente riscontrabile negli ultimi anni nella rappresentanza sindacale d’impresa, a partire dall’esperienza tedesca (cfr. T. Schulten, R. Bispinck, Varieties of decentralisation in German collective bargaining – experiences from metal industry and retail trade, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.INT, n. 137/2017, pp. 333-377, spec. p. 342: «however, many employers’associations have introduced a special membership status, know as “OT status” (OT = ohne Tarifbinding; not covered by the collective agreement’») e approdata anche in Italia (B. Caponetti, La rappresentanza datoriale: questioni e prospettive, in LLI, 2018, n. 4, p. 42). In altri termini, l’impresa associata ad una determinata organizzazione resta tale solo per accedere ai servizi associativi, revocando invece il mandato per la negoziazione del contratto collettivo.

 

In questo senso, viene da chiedersi come possa conciliarsi la posizione di Intesa Sanpaolo rispetto alle regole associative di ABI, che ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d) dello Statuto, rappresenta i propri iscritti associati (e Intesa pare lo sia ancora) anche per la negoziazione del «regolamento dei rapporti di lavoro […] nei confronti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori».

 

In realtà, da una lettura sistematica delle disposizioni statuarie (tra le tante, l’art. 3, comma 7) è possibile desumere che l’ABI possa associare anche imprese del settore del credito che tuttavia non conferiscono il mandato all’Associazione per negoziare il CCNL. A questa particolare tipologia di associati però non è consentito, ad esempio, prendere parte alle procedure di nomina dei componenti del Comitato per gli affari sindacali e di lavoro, organo associativo deputato a negoziare il contratto collettivo di settore (art. 14, comma 1, lett. d); non è consentito inoltre prendere parte alla procedura di nomina dei membri per la composizione dei comitati tecnici (art. 23, comma 1).

 

Alla luce della revoca specifica comunicata da Intesa e viste le regole statutarie di ABI, viene allora da chiedersi anzitutto a che titolo la Banca parteciperà alle trattative per il rinnovo del CCNL, visto che se non conferisce mandato per negoziare il CCNL, non può nemmeno eleggere i componenti della delegazione trattante (né, a questo punto, potrebbe farne parte); inoltre, viene da chiedersi quali effetti (giuridici) deriverebbero dalla revoca del mandato a trattare.

 

Lasciando sullo sfondo le ragioni che hanno spinto ABI a palesare comunque un invito rivolto ad Intesa a prendere parte alle trattative, gli effetti giuridici che possono derivare da questa situazione sono diversi e vanno brevemente accennati.

 

Anzitutto, nelle more delle trattative del rinnovo del CCNL, Intesa Sanpaolo potrebbe non essere tenuta a rispettare quanto stabilito dal verbale di accordo del 28 febbraio 2023 sottoscritto da ABI, vista la revoca del mandato negoziale avvenuta il 27 febbraio 2023 (cioè il giorno prima della sottoscrizione del verbale di accordo). Ma l’aspetto più interessante quello connesso al termine delle trattative per il rinnovo del CCNL. Intesa Sanpaolo (ora svincolata da ABI almeno sotto il punto di vista dell’applicazione del CCNL) potrebbe infatti: (a) decidere di continuare ad applicare il CCNL; (b) diversamente, negoziare un apposito accordo a margine del CCNL, più adatto al modello organizzativo (come dichiarato); (c) in alternativa, cambiare CCNL una volta ritenuto che sia opportuno abbandonare il tavolo delle trattative per il rinnovo.

 

Possibile che la scelta della Banca possa essere spiegata alla stregua di una mancata soddisfazione verso il precedente rinnovo contrattuale rispetto al proprio modello organizzativo, che peraltro registrava la carenza di «una disciplina nazionale del lavoro ibrido» (G. Mieli, Bancari, un rinnovo all’insegna dell’innovazione tecnologica e dei profili sociali, in Bollettino ADAPT 7 gennaio 2020, n. 1)? L’evoluzione dei negoziati (e quello che ne deriverà) saprà dare sicuramente le giuste risposte.

 

Giovanni Piglialarmi

Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

La contrattazione decentrata in Italia nel 2022: la dimensione quantitativa

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Bollettino ADAPT  9 gennaio 2023, n. 1

 

Il XXIV Rapporto Mercato del lavoro e Contrattazione collettiva, rilasciato dal CNEL alla fine del 2022, dedica un intero capitolo alla contrattazione collettiva decentrata. L’analisi della materia, senz’altro di interesse per il bollettino ADAPT che settimanalmente dà conto di “storie della contrattazione collettiva in Italia”, è affidata ad alcuni rappresentati delle organizzazioni sindacali e datoriali. L’obiettivo, anche in forza del lavoro di monitoraggio dei rispettivi osservatori, è quello di ricostruire le caratteristiche di un fenomeno che, per quanto permangano «detrattori» che gli imputino la responsabilità di «indebolimento del ruolo del CCNL», ha assunto un’entità tale da meritare una analisi oggettivo-quantitativa.

 

La dimensione quantitativa della contrattazione decentrata è stata spesso oggetto di critiche, essenzialmente per tre motivi. Innanzitutto, possiamo constatare una pluralità di Enti (Ministero del lavoro, parti sociali, centri di ricerca come ADAPT) che, a titolo e finalità diverse, sono impegnati nella raccolta degli accordi di secondo livello; in secondo luogo, il fenomeno in esame è tendenzialmente eterogeneo e non banalmente quantificabile (plurime sono le materie coinvolte, così anche le specifiche situazioni che si presentano e il fattore temporale gioca un ruolo centrale); infine, possiamo appurare la presenza di varie tipologie di accordi (dai classici contratti aziendali a quelli di gruppo, quelli territoriali di categoria, di filiera e di sito, sino alla contrattazione sociale). Non esiste una banca dati, né pubblica né “privata”, in cui siano presenti tutti gli accordi aziendali sottoscritti nel nostro Paese e, di conseguenza, è anche impossibile costruire campioni di studio rappresentativi.

 

Detto delle inevitabili difficoltà metodologiche, il rapporto CNEL ha il merito di offrire alcuni dati che comunque ci consentono di trarre le principali tendenze della contrattazione decentrata in Italia nel 2022.

 

Le indagini di Confindustria e del Ministero del lavoro (dati relativi al 2020) mostrano che il numero delle aziende coinvolte varia a seconda dei settori produttivi e delle dimensioni d’impresa: tale contrattazione è maggiormente diffusa nel settore del credito ordinario, in quello chimico e nelle grandi imprese. Il numero assoluto di lavoratori coinvolti risulta invece sarebbe quasi totalitario nel settore bancario e comunque molto alto negli altri, con un tasso di copertura pari al 64%. Infine, l’incidenza delle materie oggetto di contrattazione aziendale deve tenere conto anche dell’andamento economico e del verificarsi di situazioni eccezionali come l’avvento della pandemia nell’anno 2020.

 

Al netto di queste situazioni, i temi sviluppati all’interno dei contratti decentrati sono classificati per «importanza gerarchica». Si osserva che nel tempo alcuni temi sono diventatati centrali ed altri più marginali, alcuni tendono a perpetuarsi nel tempo, mentre altri evolvono nei loro contenuti ed infine insorgono tematiche nuove. In linea generale, gli Osservatori delle Organizzazioni sindacali e Confindustria hanno individuato fra i temi che rimangono costanti nel tempo: il salario, le misure volte a fronteggiare la crisi d’impresa e l’occupazione, l’orario di lavoro e la sua organizzazione, i diritti sindacali e d’informazione. Fra le tematiche che si sono diffuse negli ultimi anni troviamo invece i c.d. flexible benefit, le richieste di conciliazione vita-lavoro, i protocolli di sicurezza, il premio collettivo di risultato, la formazione aggiuntiva, il lavoro agile, la regolazione della disconnessione, le forme partecipative e il contratto di espansione (molti di questi sono divenuti centrali proprio nel 2020).

 

Rispetto alle materie sopra elencate, è il caso di sintetizzare i dati forniti dai report ministeriali sui contratti decentrati depositati ex art. 14 D.Lgs 151/2015, facenti riferimento al lasso temporale intercorso tra il 2019 e il 2022. Si tratta di elementi raccolti in modo non omogeneo dal 2016 ad oggi e che, in ogni caso, non consentono di fare una valutazione analitica completa, ma che tuttavia rappresentano una valida fonte a cui attingere al fine di compiere alcune valutazioni di carattere generale. In sintesi, i report citati mettono in luce l’importanza della contrattazione dei premi di risultato e del welfare a beneficio dei lavoratori (in termini di detassazione, di erogazione di specifici servizi ovvero l’accredito di una somma). Rispetto a questi due temi, le imprese maggiormente coinvolte risultano essere quelle del nord Italia operanti nel settore dei servizi (la percentuale è in crescita dal 53% del 2019, al 57% del 2020, al 59% del 2021 e il 60% ad ottobre 2022, fermo restando le incertezze causate dalla guerra in Ucraina e dai rincari energetici). Inoltre, dal contenuto degli accordi di welfare sottoscritti nel 2022 si possono notare diverse formulazioni a seconda che l’azienda abbia istituito tali forme prima o dopo la fase acuta della pandemia. Nel primo caso, infatti, la contrattazione interverrà semplicemente aggiornando ed attualizzando il modello originario alle nuove necessità dei lavoratori o incrementando la somma erogata. Negli accordi sottoscritti dopo la fase acuta della pandemia notiamo, invece, la tendenza a motivare la scelta di costituire forme di welfare aziendale: da un lato, la volontà di inserire queste previdenze in un contesto più ampio; dall’altro, l’opportunità di ottenere vantaggi fiscali.

 

Sul punto, gli autori dell’analisi sono molto cauti nel segnalare che se su un piano teorico il welfare aziendale rappresenta uno strumento di benessere, su quello sostanziale bisogna fare i conti con alcuni problemi: occorre definire chiaramente cosa appartenga o meno al welfare aziendale e a quello contrattuale – di modo da evitare la contrapposizione strumentale fra gli stessi – e, infine, occorre garantire la diffusione del welfare di bilateralità.

 

Veniamo ora al tema cult degli ultimi anni, quello del lavoro agile. Sulla scorta degli accordi aziendali più significativi, siglati con le Organizzazioni sindacali dei trasporti e sottoscritti tra la fine del 2021 e il 2022, notiamo che generalmente le parti ne confermano l’utilizzo e convengono per la sua prosecuzione anche in prospettiva post pandemica. L’argomento cardine è sicuramente quello della salute e sicurezza dei lavoratori agili: in special modo, aumentare la consapevolezza dei rischi connessi all’uso della strumentazione tecnologica che ad essi viene fornita.  Per quanto riguarda, poi, i diritti sindacali dei lavoratori agili viene di regola riproposta la formulazione ex art. 8 Protocollo 07/12/2021 e il rinvio alla disciplina ex artt. 18, 22 e 23 L. 81/2017 e agli obblighi di cui al D.Lgs. 81/2008 s.m.i.

 

Per quanto riguarda il diritto alla disconnessione, occorre richiamare le previsioni di cui all’art. 19 L. 81/2017 e il Protocollo del 2021. In linea generale, nella maggior parte degli accordi la fascia di disconnessione viene intesa come quella nella quale il lavoratore non eroga alcun tipo di prestazione lavorativa, nemmeno l’invio di comunicazioni lavorative per mezzo di mail aziendale. In ogni caso, la previsione di una fascia oraria di riposo mira a garantire il rispetto dei periodi di riposo giornaliero del lavoratore agile ed evita qualsivoglia uso improprio dei canali digitali.

 

Relativamente alle forme partecipative definite con la contrattazione decentrata, nel 2021-2022 possiamo riscontrare nuove prassi come quella dei gruppi di lavoro e la costituzione di Osservatori aziendali (ancora poco diffusi). A ciò si aggiunge anche l’adozione di forme partecipative sui singoli problemi, finalizzate alla gestione del welfare aziendale e dei problemi connessi alla pandemia. Inoltre, fra le tipologie di partecipazione oggetto dei contratti, le più diffuse risultano essere quella organizzativa-gestionale e non finanziaria. Tuttavia, pur in presenza di alcune esperienze significative, ad oggi si registra la quasi totale la mancata vincolatività della maggior parte delle previsioni ed una diffusione limitata delle forme suddette.

 

Adriana Ghezzi

ADAPT Junior Fellow

@ghezzi_adriana

I premi di risultato: una fotografia della contrattazione aziendale tra il 2012 e il 2021

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Bollettino ADAPT 19 dicembre 2022, n. 44

 

Come noto il premio di risultato è un elemento della retribuzione complementare ai minimi fissati dai contratti di categoria, di natura monetaria e a carattere variabile, la cui corresponsione è collegata alla misurazione e al raggiungimento di obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Il premio, sostenuto da robuste normative di agevolazione sul piano fiscale e contributivo, può essere istituito unilateralmente dalla direzione aziendale oppure, più spesso, dalla contrattazione, individuale o collettiva, a livello aziendale oppure nazionale.

 

La retribuzione di risultato si diffonde a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ma è solo negli anni Ottanta e Novanta che si assiste a un suo primo radicamento nella esperienza italiana  (vedi, ad accesso aperto, il numero monografico del 1991 della rivista Diritto delle Relazioni Industriali dedicato alla retribuzione ad incentivi); anni in cui, nella dialettica tra lavoratori e datori di lavoro, si manifestano i diversi e coincidenti interessi ad ottenere la condivisione dei benefici legati all’andamento positivo dell’azienda, da un lato, e ad incentivare la prestazione lavorativa dei dipendenti, dall’altro. La funzione dei premi di risultato, dunque, è fin dal principio duplice: per i lavoratori, infatti, consente la redistribuzione dei ricavi conseguenti alle migliori prestazioni aziendali, per i datori di lavoro, invece, permette di stimolare i lavoratori a raggiungere determinati obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Alla funzione redistributiva e a quella incentivante si è poi aggiunta anche una funzione sanzionatoria, solitamente connessa ai giorni di assenza dal lavoro.

 

In virtù della logica sottesa a tale istituto, dunque, è stata principalmente la contrattazione collettiva aziendale a farne uso, tanto da portare la retribuzione premiale ad essere la materia più presente negli accordi di secondo livello. È a livello aziendale, infatti, che la previsione di premi può essere maggiormente utile per garantire, nell’ambito di una cooperazione tra datore di lavoro e lavoratore, il raggiungimento di determinati obiettivi d’impresa, nell’ottica affermata, ad esempio, dall’accordo Hayes Lemmerz del 2013 (vedi il I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), secondo cui «il premio di risultato ha lo scopo di contribuire a massimizzare la partecipazione e il coinvolgimento dei collaboratori al conseguimento dei risultati aziendali» connessi «al conseguimento di obiettivi concordati tra le parti, misurati attraverso opportuni indicatori di performance».

 

È possibile affermare, come testimoniato dall’esperienza degli ultimi dieci anni, che esiste una enorme varietà nella regolazione della retribuzione di risultato, che muta in considerazione delle strategie e dell’organizzazione della singola azienda. Anche per quanto attiene alla modalità di determinazione, quindi, esistono molteplici tipologie di indicatori e algoritmi utili a stabilire l’an e il quantum del premio, che è determinato in funzione degli obiettivi aziendali, a loro volta funzione del tipo di processo produttivo, del tipo di prodotto e della tipologia di mercato di riferimento.

 

Per quanto attiene agli indicatori la misurazione cronometrica dei tempi di lavoro non è più oggi il principale parametro della retribuzione di risultato. La principale distinzione, infatti, può esser fatta tra indicatori di redditività e indicatori di efficienza produttiva/qualità del lavoro, anche se è complesso tracciare una linea di demarcazione netta, poiché, in realtà, i premi risultano spesso calcolati sulla base di un’ibridazione dei diversi indicatori, su cui incidono anche altri indici costruiti ad hoc in base alla realtà aziendale di riferimento. Pur nell’impossibilità di adottare una rigida categorizzazione, si possono osservare, esaminando i contratti aziendali, alcune linee di tendenza, come la maggiore incidenza di parametri connessi a redditività e efficienza.

 

La redditività, in particolare, permette di parametrare la retribuzione di risultato alle sorti dell’impresa, implicando una gratificazione del lavoratore a seguito di un’effettiva crescita economica dell’attività imprenditoriale, anche se è da sottolineare come i risultati dell’attività d’impresa non dipendano esclusivamente da fattori endogeni, ma anche esogeni, come la concorrenza, la selettività, la collocazione dei prodotti sul mercato e così via. Per riequilibrare tale circostanza, quindi, alcuni contratti affiancano al premio di risultato una gratifica una tantum per i lavoratori che si distinguono per l’apporto all’attività d’impresa. Da questo punto di vista è molto peculiare il caso dell’accordo Rodacciai del 2012 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), che ha introdotto una indennità di polivalenza per il lavoratore che si è distinto per la capacità di svolgere mansioni diverse da quelle per le quali viene assunto, stabilendo un premio congruo all’ulteriore mansione svolta e meritevole di gratifica. Una simile prassi, tuttavia, potrebbe rivelarsi in contrasto con la disciplina delle mansioni prevista dall’art. 2103 del Codice Civile. Meno ambiguo, da questo punto di vista, si rivela, invece, l’accordo integrativo Tenaris del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 177),  che, ad integrazione del premio di risultato, prevede una serie di premi volti a gratificare i lavoratori che si sono distinti sotto alcuni profili sul posto di lavoro (sicurezza sul lavoro, professionalità, assiduità o formazione oltre l’orario ordinario di lavoro).

 

Quanto all’indicatore dell’efficienza, è diversamente definito a seconda dell’azienda e del settore produttivo, ma è possibile affermare che si tratta generalmente di indicatori che riguardano l’efficienza orientata in termini di produttività, qualità e riduzione dei costi. Gli indicatori di produttività utilizzati dalle aziende sono i più disparati: il rapporto tra il tempo predeterminato per l’effettuazione delle singole produzioni e il tempo utilizzato per raggiungere l’obiettivo, il raggiungimento di determinati tempi di consegna e di eliminazione delle non conformità, il rapporto tra i costi di produzione interna e i giorni di produzione interna, il rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, ma anche indicatori relativi all’efficienza organizzativa e produttiva, come la crescita dello smart working e la riduzione dei tempi di reazione dell’organizzazione aziendale alle oscillazioni della domanda. Alcuni accordi, poi, prevedono che l’efficienza sia da intendere in termini di qualità, utilizzando quale indicatore il rapporto tra il numero di prodotti buoni e processati in linea di montaggio oppure il numero di pezzi difettosi su ogni milione di pezzi consegnati. È interessante il caso dell’accordo Spumador (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225), dove, a partire dal 2018, l’indicatore di produttività misura la prestazione della singola linea produttiva in termini di efficienza, di qualità e di manutenzione, così da valorizzare il tempo di lavoro effettivamente produttivo. Per quanto attiene all’efficienza organizzativa è emblematico l’accordo Sibelco Italia del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 174), che, mirando a perseguire logiche coerenti con le trasformazioni tecnologiche e organizzative, ha individuato come presupposti dell’erogazione della retribuzione di risultato l’«introduzione dello smart working tra il 3% e il 5% dei ruoli compatibili» e la diminuzione dei costi effettivi inerenti al monte ore ferie.

 

Spesso il premio è assegnato in base alla combinazione di diversi indicatori legati a redditività e produttività: è il caso dell’accordo Fisher&Paykel del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 195), che prevede che il premio dipenda per un 20% da indicatori di redditività, per un 40% dall’efficienza produttiva, intesa come rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, e per un 40% da un indice di qualità della produzione, calcolato sulla base della difettosità primaria.

 

Alcuni accordi collettivi, inoltre, prevedono indicatori diversi dalla efficienza e dalla redditività, volti a raggiungere altri obiettivi dell’impresa, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro: è il caso dell’indicatore del Total Case Incident Rate, previsto dall’accordo Pittway del 2014 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 234),  che esprime il numero di infortuni registrati rispetto al target stabilito dall’azienda. Con una logica simile, l’accordo Diamalteria Italiana del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 170) prevede che gli obiettivi di efficienza aziendale siano connessi a indicatori che valutano la partecipazione di tutti i dipendenti a progetti utili a identificare i rischi e a rinforzare i comportamenti positivi in materia di sicurezza sul lavoro.

 

La retribuzione incentivante, inoltre, può anche collegarsi alla misurazione delle competenze dei lavoratori: nel caso della Santander, ad esempio, una quota di retribuzione premiale è demandata dal 2016 ad una valutazione delle competenze comportamentali dei lavoratori, al cui esito si lega l’importo del premio. Il tema è affrontato in maniera articolata anche dall’accordo ICAM del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 192), che realizza un sistema di retribuzione della professionalità e delle competenze acquisite dai lavoratori, valido per tutte le mansioni e per tutti i dipendenti: tale sistema prevede un importo fisso, denominato “professionalità” e legato alla mansione svolta dal lavoratore, e un importo variabile, definito attraverso un sistema chiamato “pagella”, basato sulla valutazione complessiva delle competenze tecniche e comportamentali del lavoratore. Un ultimo spunto interessante è offerto dall’accordo Bonfiglioli del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 197), che collega il premio di risultato alla professionalità e quest’ultima alla formazione, stabilendo che l’accesso ad una quota significativa della retribuzione premiale venga subordinato alla frequenza di alcune ore di formazione tecnica (svolta in maniera individuale e al di fuori dell’orario di lavoro) e in materia di sicurezza sul lavoro (svolta collettivamente all’interno dell’orario di lavoro).

 

Un’altra traiettoria evolutiva è segnata dalla diffusione di intese che prevedono meccanismi retributivi connessi ai c.d. “obiettivi verdi”, parametri finalizzati all’efficienza e conservazione energetica, come nel caso dell’accordo Luxottica del 2015 (II Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2015, qui p. 210), dove il premio di risultato è legato ad una serie di indicatori di sostenibilità, detti “zero sprechi”, legati al consumo di energia elettrica, alla riduzione di stampe, all’incremento di utilizzo dei mezzi pubblici, nonché alla riduzione nel consumo di materiali indiretti in funzione dei volumi di produzione.

 

Dall’analisi degli indicatori previsti dai contratti collettivi, è possibile affermare che il sistema del premio di risultato è volto ad incentivare non il singolo lavoratore, ma l’intera azienda o quantomeno un’area produttiva. Soltanto attraverso un buon andamento dell’azienda nel complesso e dell’organizzazione in cui è inserito il singolo lavoratore, infatti, è possibile conseguire il premio. La retribuzione di risultato, dunque, così intesa ha natura collettiva, in quanto incentiva il personale ad una maggiore efficienza ed è spesso legato anche alla redditività dell’azienda. Il singolo, per quanto virtuoso possa essere, non ha la possibilità di conseguire un premio elevato se il resto della forza lavoro non è altrettanto efficiente e l’azienda non raggiunge determinati risultati in termini di redditività o efficienza.

 

Tuttavia, non sempre la condotta del singolo lavoratore è irrilevante ai fini della determinazione del premio. Gli accordi collettivi, infatti, possono prevedere una rimodulazione del premio in base all’effettiva presenza in azienda del dipendente. A tal proposito, dunque, si osservano indici individuali correttivi di adeguamento del premio di risultato percepito dal singolo lavoratore. In particolare, il coefficiente moltiplicatore correttivo può essere strutturato in tre diversi modi: il premio presenza, che interviene aumentando il premio di risultato al raggiungimento dell’obiettivo di presenze, ma non ha effetti in caso contrario; la penalità per assenza, che comporta una diminuzione del premio in corrispondenza di certe soglie di eventi di assenza; il correttivo proporzionale in funzione della presenza e dell’assenza, che agisce in entrambe le direzioni. Emblematico è, da questo punto di vista, l’accordo Menarini del 2016 (III Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2016, qui p. 172), che, con una previsione confermata anche nel successivo accordo del 2019, considera l’assiduità individuale sul posto di lavoro come «uno dei fattori principali per il conseguimento del risultato economico dell’Azienda». A tal fine l’accordo prevede che l’importo del premio possa crescere o decrescere in base alla frequenza dei periodi di malattia e della durata della stessa (con esclusione dei ricoveri ospedalieri e dei giorni dedicati a particolari tipi di terapie). Il premio, quindi, non è corrisposto ai lavoratori che si trovino in aspettativa, in maternità (per il periodo di astensione facoltativa), in cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, ovvero in periodi di solidarietà superiori a due settimane. Ispirato da una logica simile è anche l’accordo Lombardini del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 174), che affianca ad un elemento di natura collettiva legato all’andamento globale dello stabilimento, misurato in termini di produttività e qualità del lavoro, un indicatore di assiduità individuale, che misura la percentuale di assenza dello stabilimento (intesa come carenza per malattia con costo interamente a carico del datore di lavoro) e le ore di assenza individuali. Un caso parzialmente diverso è quello dell’accordo AARTEE del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 179), che prevede distinti premi di risultato erogati in base a produttività e qualità dei prodotti a livello di stabilimento e assiduità delle presenze a livello individuale.

 

Per quanto attiene all’apporto individuale, è possibile anche che gli accordi mirino a premiare particolari contributi dei singoli lavoratori, come nel caso dell’accordo Peroni del 2018  (V Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2018, qui p. 172),  in cui «il premio si pone gli obiettivi di riconoscere i contributi eccellenti, le idee più innovative e valorizzare le persone, considerandole centrali anche per il processo di cambiamento».

 

Con riferimento alle modalità di corresponsione, si segnala un’ulteriore diversificazione negli accordi di secondo livello: il premio può essere riconosciuto in un’unica soluzione durante l’anno o, alternativamente, le parti possono prevedere la rateizzazione in due o più tranches, solitamente collocate a metà e a fine anno. In ogni caso, però, il premio fa riferimento all’annualità, con la conseguenza che per i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo parziale è da riproporzionare considerando solo il tempo effettivamente lavorato.

 

Diversi contratti aziendali, inoltre, consentono al lavoratore di richiedere la conversione del premio di risultato in beni e servizi di welfare. Tale conversione può riguardare l’intero premio di risultato, come nel caso dell’accordo Liquigas del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 178),  che lascia al lavoratore la possibilità di determinare la quota (compresa tra il 5% e il 100%) del premio da convertire, o solo una parte, come previsto dall’accordo Hera del 2017, confermato per la stessa azienda anche dal contratto del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 175), per cui è possibile convertire fino alla metà del premio. Alcuni accordi, inoltre, possono decidere di selezionare i lavoratori a cui viene riservata la possibilità di welfarizzazione della retribuzione di risultato: è il caso dell’accordo Creval del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194),  che prevede una simile facoltà solo per i dipendenti con redditi da lavoro superiori a €80.000. Altri contratti, invece, adottano a monte una combinazione tra le diverse modalità di erogazione della retribuzione premiale: ad esempio il contratto Albaleasing del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194) prevede, sempre con riferimento ai lavoratori con redditi superiori a €80.000, che il premio sia erogato al 50% in forma monetaria e al 50% sotto forma di servizi di welfare. Di particolare interesse risulta anche l’accordo Ineos del 2017 (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225),  che consente ai lavoratori di convertire una piccola quota del premio di risultato (corrispondente a 60 euro lordi) in una giornata di riposo da godere durante l’anno.

 

In chiusura, è possibile osservare, analizzando le previsioni della contrattazione collettiva di secondo livello in materia di retribuzione di risultato nel corso dell’ultimo decennio, come, sul punto, la linea di tendenza principale sia rappresentata dall’utilizzo di parametri e indicatori che sempre meno hanno a che fare con la mera misurazione del tempo di lavoro. Gli indicatori più diffusi, infatti, sono quelli collegati ai risultati raggiunti dall’impresa in termini di redditività e produttività, ma si stanno affermando anche parametri che premiano il raggiungimento di obiettivi legati ad altri interessi, come quelli relativi alla sicurezza sul lavoro o alla sostenibilità ambientale ed energetica. In quest’ottica, dunque, si può affermare che la retribuzione di risultato è certamente un importante testimone del passaggio da un mercato del lavoro connotato principalmente come mercato del tempo di lavoro ad un diverso modello in cui rilevano maggiormente competenze e professionalità, necessarie per raggiungere gli obiettivi delle imprese.

 

Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@FrancescoAlifan

Il ruolo della contrattazione collettiva nell’organizzazione dell’orario di lavoro dei quadri e degli impiegati direttivi. Il caso del CCNL Chimico-Farmaceutico

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Bollettino ADAPT 12 dicembre 2022, n. 43

 

In un rapporto di lavoro subordinato, il tempo di lavoro ha sempre rappresentato un elemento centrale in quanto ancora oggi, fatta eccezione per i dirigenti, la retribuzione mensile risulta commisurata alle ore di lavoro prestate e i contratti collettivi fissano, sulla base di norme di rinvio legali, maggiorazioni per lavoro notturno, eccedente, straordinario o festivo, assegnando quindi un valore diverso a ore di lavoro perché svolte in determinati periodi del giorno o dell’anno o perché aggiuntive rispetto all’orario normale di lavoro. La tradizionale distinzione tra locatio operis e locatio operarum, rispettivamente riconducibili a lavoro autonomo e lavoro subordinato, trova ancora un significato dal momento che, se nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione consiste in un’opera o un servizio, nel lavoro subordinato il lavoratore dipendente mette a disposizione del datore di lavoro le proprie energie e le proprie competenze prestando lavoro manuale o intellettuale che trova nel tempo di lavoro una sua quantificazione e, al tempo stesso, una tutela secondo le norme di legge e della contrattazione collettiva.

 

Tuttavia, nelle professioni che richiedono applicazione di conoscenze di alto livello o legate a ruoli gestionali, il tempo di lavoro non trova più un valore oggettivo della sua misurazione: ciò risulta sempre più attuale non soltanto per i dirigenti, ma anche per la categoria dei quadri e degli impiegati direttivi, figure che rientrano nel novero degli impiegati ex art. 2095 c.c. Se si pensa a figure prevalentemente gestionali o anche al lavoro creativo o di ricerca, il tempo di lavoro perde quel valore oggettivo dal momento che la sua quantificazione non trova una corrispondenza diretta in termini di aumento di volumi produttivi come potrebbe avvenire per una professione manuale. Oggi tali lavoratori prestano un’attività lavorativa in un determinato tempo messo a disposizione del datore di lavoro per svolgere una prestazione che debba raggiungere o garantire determinati obiettivi, o che talvolta consiste in una obbligazione di mezzi a partire da competenze elevate e da progetti da seguire. Si potrebbe affermare, in un certo senso, che il tempo di lavoro per queste categorie di lavoratori acquisisca un valore come il negativo di una fotografia, in quanto garanzia del diritto al riposo e al tempo libero del singolo e non più garanzia – per il datore di lavoro –  dello svolgimento di una prestazione che porta a risultati produttivi; in questo, la retribuzione di produttività risulta essere la migliore “cartina tornasole”, dal momento che, se gli strumenti per incrementare la produttività del lavoratore manuale sono riconducibili al lavoro a cottimo o a indicatori con un approccio quantitativo nei premi di risultato collettivi, per il personale direttivo si è progressivamente sviluppata una gestione per obiettivi (definita appunto MBO, e quindi Management by Objectives”) che sono strategici per l’azienda e slegati ad un oggettivazione del tempo di lavoro.

 

Conseguentemente, la disciplina dell’orario di lavoro affidata alla legge e alla contrattazione collettiva si è modificata con l’obiettivo di garantire maggiore flessibilità anche a figure come quadri e impiegati direttivi e di uscire da una logica di misurazione del tempo di lavoro che ricollega la retribuzione ad una quantità di ore prestate e non alla qualità del lavoro svolto, piuttosto che a determinati obiettivi raggiunti. In particolare, la norma di riferimento è l’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003, la quale dispone che “Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi […]”. Le deroghe previste sono assai ampie, poiché di fatto vengono disapplicati gli articoli sull’orario normale di lavoro, sulla durata massima dell’orario di lavoro, sul lavoro straordinario, sul riposo giornaliero, sulle pause e sul lavoro notturno: ne risulta una disciplina assai scarna, in cui, fermo li rispetto dei principi generali della protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, restano solo le ferie e il riposo settimanale a trovare applicazione per i suddetti lavoratori. Il medesimo comma, inoltre, stabilisce un elenco a cui applicare le deroghe: dirigenti, personale direttivo delle aziende o altre persone aventi potere di decisione autonomo, manodopera familiare, lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose e prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro. Sulla norma è intervenuta la Circolare n. 3/2005 del Ministero del Lavoro, che, anzitutto, ha stabilito che l’elenco di figure professionali a cui applicare le deroghe è esemplificativo, e non tassativo; in più, il medesimo documento si sofferma sulla lettera a) del quinto comma dell’articolo 17 – “dirigente, personale direttivo aziendale o di altre persone aventi potere di decisione autonomo” – specificando che “nell’ampia formulazione della norma trovano ingresso nuove figure professionali che, sebbene prive di potere gerarchico, conservano, nel disimpegno delle loro attribuzioni, ampia possibilità di iniziativa, di discrezionalità e di determinazione autonoma sul proprio tempo di lavoro”. Tali indicazioni, peraltro, rispecchiano una posizione del Ministero del Lavoro già emersa con la Circolare n. 10/2000 (antecedente al D.lgs. n. 66/2003) che, sulla nozione di personale direttivo, ha evidenziato come la giurisprudenza sia costante nel ritenere che tale concetto “è comprensivo non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative o vicarie, bensì anche – in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga – del personale direttivo c.d. “minore”, ossia gli impiegati con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni di aziende e, in definitiva, i capi ufficio ed i capi reparto che eccezionalmente possono svolgere persino attività manuali”. Inoltre, il Ministero ha puntualizzato come “l’inquadramento nella categoria del personale direttivo dipende dalla corrispondenza delle mansioni in concreto assegnate al lavoratore a quelle previste dalla disposizione definitoria di detto personale, non potendo derivare dal mero dato formale del conferimento della qualifica”.

 

In un simile scenario le Parti Sociali, nell’accordo interconfederale de l2 novembre 1997 che recepisce la Direttiva UE 93/104 in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, sono intervenute con una previsione tanto semplice quanto incisiva: infatti, nella parte dell’intesa relativa alle deroghe alla disciplina sulla durata settimanale dell’orario, la clausola dispone una deroga per il personale con funzioni direttive o da altre persone aventi potere di decisione autonomo sul proprio tempo di lavoro, “tenuto comunque conto di eventuali limiti fissati dalla contrattazione collettiva”. In tal senso, le Parti hanno sottolineato come la contrattazione collettiva possa autonomamente stabilire dei “limiti” alle deroghe poi previste dal D.lgs. n. 66/2003 e quindi hanno aperto esplicitamente alla possibilità che i contratti collettivi introducano una differente organizzazione dell’orario di lavoro per il personale direttivo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione, al tempo stesso, ha fissato due principi in materia di limitazioni dell’orario di lavoro del personale direttivo: il primo interpreta il limite legale di cui all’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003 e quindi guarda ai principi generali in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, mentre il secondo appare in linea con le previsioni dell’accordo interconfederale sopracitato e attiene al ruolo della contrattazione collettiva: “i funzionari direttivi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, hanno diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per essi l’orario normale e tale orario venga in concreto superato oppure se la durata della loro prestazione valichi il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori” (Cass. Civile n. 11929/2003; Cass. Civile n. 3038/2011; Cass. Civile n. 12687/2016).

 

Dal quadro normativo e giurisprudenziale delineato, integrato con le previsioni dell’accordo interconfederale e con la prassi amministrativa del Ministero del Lavoro, emerge una disciplina dell’organizzazione dell’orario di lavoro che trova nelle deroghe dell’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003 un livello di tutela standard – in conformità alla Direttiva UE 2003/88 – sul quale può intervenire una disciplina collettiva o individuale di favore. Ai fini del presente contributo risulta dunque d’interesse guardare non tanto alla figura del dirigente, per il quale i contratti collettivi (si pensi, ad esempio, al CCNL Dirigenti Industria siglato il 30 luglio 2019) non intervengono sulla disciplina dell’orario di lavoro, ma ai quadri e agli impiegati direttivi, in cui una limitazione dell’orario di lavoro stride con l’autonomia e la natura delle mansioni svolte e del ruolo ricoperto in un determinato contesto lavorativo. La contrattazione collettiva nazionale è intervenuta in diversi settori per modellare l’organizzazione dell’orario di lavoro dei funzionari direttivi definendo il relativo inquadramento contrattuale e introducendo specifiche discipline in materia di maggiorazioni o riposi che integrano in melius le previsioni dell’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003: diversamente, alla luce del quadro delineato, anche a quadri e impiegati direttivi si applicherebbe il contratto collettivo nazionale con i relativi limiti di orario di lavoro.

 

Un esempio concreto è rappresentato dal CCNL Chimico-Farmaceutico, che interviene in due aspetti: da una parte, nelle declaratorie contrattuali riconduce la Categoria A alla qualifica dei quadri e la Categoria B alla qualifica di “impiegati che espletano funzioni direttive”, e dall’altra all’articolo 9 lett. B) riconosce che tali lavoratori non siano soggetti a limitazione di orario e siano esclusi dall’applicazione delle maggiorazioni per prestazioni eccedenti e straordinarie, rinviando all’articolo 21, che rappresenta una disposizione apposita del CCNL. Tale articolo, tra le altre cose, riconosce a quadri e impiegati direttivi il diritto al godimento delle riduzioni di orario e introduce un’apposita maggiorazione “a fronte di prestazioni aggiuntive in giorno di sosta (il sabato, n.d.r.) o in orario di lavoro notturno” e limitatamente a “prestazioni espressamente richieste o comunque dettate da fattori esterni all’autonomia e discrezionalità di tali lavoratori”. Una simile previsione, in un certo senso, si innesta sulle deroghe previste dall’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003 per ricostruire una disciplina speciale che esclude i lavoratori della Categoria A e B dalle ordinarie maggiorazioni per prestazioni eccedenti o straordinarie (non li esclude in caso di lavoro festivo o notturno ordinario),  ma riconosce comunque agli stessi maggiorazioni speciali in caso di lavoro aggiuntivo nella giornata di sabato o di notte che non sia dettato dall’autonomia e dalla discrezionalità degli stessi lavoratori.

 

L’esempio del CCNL Chimico-Farmaceutico dimostra l’importanza del ruolo della contrattazione collettiva nell’organizzazione dell’orario di lavoro di lavoratori la cui prestazione lavorativa risulta difficilmente inquadrabile nell’ordinaria disciplina legale ma che, al tempo stesso, può richiedere interventi ulteriori a tutela degli stessi non limitandosi ad un rinvio alle deroghe di cui all’articolo 17, comma 5 del D.lgs. n. 66/2003. In quest’ottica, spetta al sistema di relazioni industriali e quindi alle Parti sociali affrontare il tema dell’organizzazione dell’orario di lavoro, che può diventare un punto di forza per la qualità di un lavoro in cui il tempo perde quell’oggettività che ha connotato il Novecento industriale e richiede anch’esso un ripensamento e una ricostruzione a partire dalle peculiarità dei nuovi contesti sociali e di lavoro.

 

Lorenzo Citterio

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@CitterioLorenzo

Accordi collettivi, rappresentanza e normativa antitrust: arrivano le linee guida della Commissione Europea

Accordi collettivi, rappresentanza e normativa antitrust: arrivano le linee guida della Commissione Europea

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Bollettino ADAPT 10 ottobre 2022, n. 34

 

Il 29 settembre 2022 la Commissione Europea ha adottato delle linee guida per dirimere il (possibile) conflitto tra la normativa euro-unitaria in materia di antitrust e gli accordi collettivi dei lavoratori autonomi. Come è noto, l’art. 101 del TFUE vieta la stipulazione di accordi tra imprese che restringono la concorrenza. Se da un lato, il contratto collettivo negoziato tra rappresentanze dei lavoratori dipendenti e rappresentanze dei datori di lavoro non viene considerato in contrasto con l’art.101 TFUE, dall’altro, occorre considerare che i lavoratori autonomi vengono considerati dalla giurisprudenza euro-unitaria alla stregua di “imprese”: da qui il rischio di violare la normativa antitrust nel caso di negoziazione di accordi collettivi aventi ad oggetto tariffe e/o condizioni di lavoro.

 

Le linee guida hanno l’obiettivo di chiarire in quali circostanze le rappresentanze dei lavoratori autonomi possono negoziare un accordo collettivo per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Sono il frutto di un lungo iter, iniziato nel 2020 e proseguito nel dicembre 2021, con cui la Commissione Europea ha proposto una serie di misure volte a migliorare le condizioni del lavoro svolto mediante piattaforma digitale, con l’obiettivo di sostenere una crescita sostenibile delle piattaforme di lavoro digitale nell’UE. Il progetto comprendeva: 1) una proposta di direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme (cfr. F. Capponi, Dalla Commissione Europea una proposta di direttiva sul lavoro tramite piattaforma digitale: il punto sulle previsioni in materia di qualificazione del rapporto di lavoro, in Bollettino ADAPT 13 dicembre 2021, n. 44); 2) una comunicazione contenente indicazioni su come sfruttare appieno i vantaggi derivanti dalla digitalizzazione per il futuro del lavoro; 3) infine, un progetto di orientamenti che riguardante chiarimenti sull’applicazione del diritto della concorrenza dell’UE in materia di contratti collettivi dei lavoratori autonomi individuali, compresi coloro che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali.

 

La Commissione successivamente ha avviato una consultazione pubblica, invitando i diversi stakeholders (cittadini, imprese, parti sociali, mondo accademico, enti governativi e tutti i diversi portatori di interessi) a presentare osservazioni sul progetto relativo ai contratti collettivi riguardanti le condizioni di lavoro dei lavoratori autonomi individuali e le relative aporie con la materia concorrenziale.

 

Gli orientamenti pubblicati dalla Commissione il 29 settembre pongono una serie di chiarimenti sulle circostanze nelle quali determinate tipologie di lavoratori autonomi possono unirsi con l’obiettivo di negoziare collettivamente condizioni di lavoro senza entrare in conflitto con le norme di concorrenziali di matrice sovranazionale. Sul tema è intervenuta anche la Commissaria per la concorrenza dell’Unione Europea che ha messo in luce come “Getting together to collectively negotiate can be a powerful tool to improve such conditions. The new Guidelines aim to provide legal certainty to the solo self-employed people by clarifying when competition law does not stand in the way of their efforts to negotiate collectively for a better deal”. Pertanto, l’obiettivo delle nuove linee guida è quello di fornire una certezza giuridica ai lavoratori autonomi che si trovano in una condizione negoziale debole o di dipendenza economica rispetto ai committenti, cercando di chiarire quando il diritto della concorrenza non ostacola lo sforzo di negoziazione collettiva per ottenere migliori condizioni lavorative. La Commissione ritiene che la condizione di dipendenza economica si realizzi quando un lavoratore autonomo “on average, at least 50 % of total workrelated income from a single counterparty, over a period of either one or two years”, cioè quando almeno il 50% del reddito totale è legato ad un unico committente.

 

Gli orientamenti stabiliscono, nel punto III del progetto, che il diritto della concorrenza e l’art.101 TFUE non si applichino alle forme di rappresentanza collettiva dei lavoratori autonomi che si trovino in una situazione affine a quella dei lavoratori subordinati, quali i lavoratori autonomi che prestano servizi esclusivamente o prevalentemente a una sola impresa, lavorando di fianco a lavoratori autonomi o fornendo servizi a una piattaforma di lavoro digitale o attraverso una piattaforma.

 

La Commissione Europea si è posta l’obiettivo di un monitoraggio costante e una revisione di dette linee guida entro il 2030 tramite riunioni periodiche con le parti sociali europee. Queste iniziative fanno parte di una serie di azioni che la Commissione sta portando avanti con l’obiettivo di garantire condizioni migliori ai lavoratori autonomi che eseguono la propria prestazione lavorativa tramite piattaforme digitali.

 

La progettualità della Commissione su questa materia è indirizzata nell’invertire quella che è stata la pregressa impostazione sugli accordi collettivi tra lavoratori autonomi da parte della normativa, e, soprattutto, della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Diverse pronunce intervenute nel corso del tempo – a tal proposito si ricordino la sentenza Albany e la sentenza FNV Kunsten – hanno confermato questo orientamento restrittivo, che ha visto di fatto annullare le intese sottoscritte collettivamente da associazioni di attori, musicisti o altri lavoratori autonomi. L’impostazione seguita dalla Commissione Europea sembra prendere atto del profondo cambiamento strutturale che è avvenuto nell’ambito del mercato del lavoro autonomo ove i lavoratori sembrerebbero non godere più della indipendenza e forza contrattuale che normalmente derivava dallo status di lavoratore autonomo. Pertanto, sembrerebbero aprirsi degli spazi di contrattazione collettiva per i lavoratori autonomi in difficoltà per migliorare la propria situazione contrattuale.

 

Il profilo di maggiore rilevanza degli orientamenti, essendo la matrice quella della soft low, è quello attinente all’applicazione del diritto della concorrenza dell’UE, alle prerogative degli Stati membri e delle parti sociali. Le attuali impostazioni giurisprudenziali dominanti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, calate nel contesto italiano, potrebbero avere dei riflessi notevoli sulla legittimazione di alcuni soggetti e di alcune categorie (quali le rappresentanze delle professioni ordinistiche) a stabilire l’equità dei compensi professionali1. Anche in tal caso la giurisprudenza europea ha sempre identificato gli ordini professionali come cartelli di imprese impedendo perciò misure restrittive della libertà concernenti l’emanazione di tariffe professionali e dando anzi la stura al loro definitivo superamento. In questa prospettiva, che vede (ri)emergere una nuova legittimazione di soggetti collettivi ad agire negoziando accordi sindacali, potrebbero beneficiarne anche enti esponenziali come gli ordini professionali tramite una valorizzazione dei concetti di dipendenza e debolezza contrattuale del professionista. Si pensi ad esempio alla tematica dell’equo compenso e alle diverse proposte2 esaminate nel corso della legislatura appena conclusa (e non approvate, se non in prima lettura in uno dei due rami del parlamento) che attribuivano agli ordini il potere di adottare modelli di convenzione vincolanti ritenuti presuntivamente equi.

 

Concludendo, le problematiche applicative sono di non poco conto nel caso di recepimenti delle linee guide nei singoli contesti nazionali. Potrebbero configurarsi scenari in netta controtendenza con impostazioni consolidate nella prassi del diritto antitrust italiano che sin dal 2017, tramite l’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato, si è pronunciata con pareri netti in merito al tema equo compenso, ritenuto come una surrettiziareintroduzione delle tariffe minime nell’ordinamento” che si “pone in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”.

 

In ogni caso, rimane centrale il tema dello sviluppo di sistemi di rappresentanza adeguati e la necessità di nuove forme di tutela del lavoro autonomo (interamente inteso) che non vadano a configurare anomalie nella concorrenza. Il rapporto tra diritto della concorrenza e diritto del lavoro è una tematica molto spinosa. Infatti, risulta ancora attuale il monito di Mario Grandi: “il diritto del lavoro (forse anche quello autonomo) non è in genere amico della libertà” e “la legislazione del lavoro riflette, nel suo decorso storico, un processo costante di restrizione dell’illimitata libertà d’impresa” (cfr. M. Grandi, In difesa della rappresentanza sindacale, DLRI, 2004, n. 104).

 

Andrea Zoppo

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@AndreaZoppo

 

1 Pur con i dovuti adattamenti ai singoli contesti nazionali è la stessa Commissione a prendere come riferimento nel punto 3.1 delle guidelines il caso della professione di architetto mono committente di un unico studio.

2 Cfr. la proposta AC.301 a prima firma Meloni, la proposta AC.1979 a prima firma Mandelli, AC.2192 a prima firma Morrone, AC. 2741 a prima firma Bitonci, AC. 3058 a prima firma Di Sarno, AC.620 a firma Porchietto, AS.1425 a firma Santillo.

Una breve riflessione su rincari energetici e gestione dei tempi di lavoro

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Bollettino ADAPT 19 settembre 2022, n. 31

 

Il rischio di scarichi di lavoro, imputabili al maggiore costo di produzione derivante dagli attuali rincari dell’energia, è stato affrontato dal D.M. n. 67 del 31 marzo 2022 con l’integrazione, come è noto, delle causali legittimanti il ricorso alla cassa integrazione guadagni ordinaria. L’inserimento, nell’articolo 5 del D.M. n. 95442 del 15 aprile 2016, del comma 1-bis ha infatti comportato la precisazione che “la fattispecie mancanza di materie prime o componenti (…) sussiste anche quando sia riconducibile a difficoltà economiche, non prevedibili, temporanee e non imputabili all’impresa, nel reperimento di fonti energetiche, funzionali alla trasformazione delle materie prime”. Una formulazione che la circolare Inps n. 97 del 10 agosto 2022, al paragrafo 8.2, ha circoscritto riferendola alle sole imprese “energivore” ovvero a forte consumo di energia elettrica e di gas naturale. L’appartenenza è dimostrata con l’iscrizione in apposito elenco predisposto dalla Cassa dei servizi energetici ed ambientali (CSEA) e deve essere dichiarata nella relazione tecnica allegata all’istanza di autorizzazione del trattamento di integrazione salariale.  Secondo le attuali indicazioni Inps, oltre al necessario possesso dei requisiti previsti da specifici decreti del MISE e del MITE del 21 dicembre 2017, occorre: a) l’avvenuta esecuzione formale della procedura di accreditamento all’elenco, che peraltro per le imprese a forte consumo di gas ancora non è operativa: b) la dimostrazione di sopravvenute difficoltà finanziarie, temporanee e contingenti, dovute all’aumento dei costi dell’energia, con uno scostamento medio degli oneri superiore al 30% nel trimestre precedente l’attivazione della CIGO rispetto al medesimo trimestre del biennio precedente; c) la prospettazione di un adeguato novero di azioni finalizzate al superamento delle difficoltà riscontrate a seguito del caro energetico, oggetto di verifica discrezionale da parte delle sedi territoriali dell’Istituto previdenziale. Si tratta di requisiti stringenti, che possono contenere significativamente l’ambito dei destinatari della nuova misura, precludendone l’applicazione come rimedio per la generalità delle imprese coinvolte nella crisi energetica.

 

Tuttavia il superamento, sia nel breve che nel medio periodo, delle contingenti criticità produttive dovute al costo dell’energia e, più in generale, alla carenza di materie prime e componenti, potrebbe non essere correlato solo all’efficacia di questa misura né ad una, seppure importante, maggiore disponibilità di altri specifici ammortizzatori sociali. Si consideri infatti che sono già praticabili, anche all’esito del riordino operato dalla Legge n. 234 del 30 dicembre 2021, art.1 commi 191 e ss, trattamenti di integrazione salariale ordinari e straordinari imputabili a causali ampie, relative a situazioni di crisi temporanea o strutturale, a riorganizzazioni o comunque a situazioni di rischio occupazionale. Se adeguatamente impostati, questi interventi possono probabilmente coprire, con ragionevole attendibilità, anche la maggior parte delle situazioni di difficoltà indotte dalla crisi energetica. Si consideri in particolare la disciplina del contratto di solidarietà, di cui all’art.21 del D.Lgs. n.148 del 14 settembre 2015, revisionata dal comma 199 nel senso di una maggiore flessibilità: tale intervento può trovare applicazione a prescindere dalla contingenza che determina l’esigenza di contrazione dell’orario, rilevando solo la finalizzazione ad evitare riduzioni di personale. Inoltre il generale ricorso nel biennio 2020/2021 alla speciale CIG con causale Covid-19, nelle varie modalità decretate in costanza di emergenza sanitaria, ha determinato per la maggior parte delle imprese, trattandosi di un intervento in deroga ai limiti massimi di utilizzo degli ammortizzatori ordinari e straordinari (36 mesi nell’ultimo quinquennio ed altri limiti specifici per i singoli istituti), il riaccredito di un notevole quantitativo di ore/settimane di CIG.

 

Non sembrano pertanto in genere prevedibili, nei prossimi mesi, rischi diffusi di esaurimento della disponibilità di ammortizzatori sociali. Considerando poi:

– la ricorrente esigenza aziendale di preservare il capitale di competenze professionali del personale in forza, per la generale difficoltà di reperimento, nel mercato del lavoro, di competenze ed esperienze adeguate alle necessità delle imprese, quindi l’interesse ad evitare penalizzanti sospensioni/riduzioni di orario con applicazione della CIG, che potrebbero indurre esodi spontanei;

– la probabile propensione delle imprese a ridurre i margini di redditività preservando la continuità della produzione, evitando quindi il ricorso alla CIG per non perdere quote di mercato difficilmente recuperabili in ragione della competitività del mercato.

 

Forse per molte imprese il percorso più efficace per la gestione della contingente crisi energetica, quando non induttiva di criticità insormontabili, potrebbe essere un altro.  Si considerino infatti le agevoli procedure che molti CCNL già attualmente prevedono, per la variazione dell’articolazione dei tempi di lavoro, incrementatesi negli ultimi anni in quanto i negoziati nazionali di categoria, intervenendo negli ambiti consentiti dalla regolamentazione legale di cui al D.Lgs. n.66 del 8 aprile 2003 e s.m.i. hanno frequentemente cercato di trovare soluzioni alle esigenze aziendali di flessibilità. Molti gli istituti attivabili: orari plurisettimanali, turnazioni, banca delle ore, pianificazione di permessi e ferie, distribuzioni orarie disomogenee, variazione dei giorni di distribuzione settimanale dell’orario o modifica degli orari di ingresso/uscita giornaliera etc. Sovente la loro gestione è consentita con modalità oramai molto dinamiche e nel rispetto di limiti non costrittivi. Queste procedure dettate dai CCNL potrebbero allora risultare particolarmente utili nell’attuale contingenza, permettendo ad esempio la contrazione della prestazione ordinaria settimanale su 4 giorni settimanali, per consentire 3 giorni consecutivi di chiusura degli impianti,  la variazione dei giorni di riposo settimanale per farli coincidere con i periodi di minore disponibilità di energia, l’incremento delle prestazioni notturne per favorire la fruizione di riduzioni tariffarie, l’applicazione dell’orario plurisettimanale per contrarre l’attività in attesa di approvvigionamenti energetici ed incrementarla poi rapidamente, a regime ordinario, per non perdere produzione. C’è tuttavia un potenziale rischio. Un fattore di debolezza potrebbe essere rappresentato dai contenuti del confronto sindacale preventivo all’adozione di queste soluzioni, solitamente previsto dalle discipline di CCNL, seppure con diverso grado di pervasività nei differenti comparti. Il consueto scambio tra maggiori disagi indotti da orari non ordinari e maggiori compensazioni dirette, che frequentemente rappresenta l’esito delle negoziazioni aziendali sui tempi di lavoro, orientate all’identificazione di un punto di equilibrio sostanzialmente economico, non può ragionevolmente rappresentare, nell’attuale contesto di costi crescenti e di ricorso a modifiche di orario difensive, una dinamica adeguata.

 

Occorrerà prevedibilmente, in molte situazioni, uno sforzo negoziale più strutturato, di mediazione tra flessibilità e tutele occupazionali, pause e riposi, informazione e formazione adeguata in tema di sicurezza del lavoro, erogazioni variabili condizionate dal recupero di redditività aziendale, altre compensazioni non retributive. La prospettiva non appare semplice, se contrastante con abitudini negoziali consolidate, ma un tentativo di contrattazione in tal senso potrebbe rappresentare forse l’occasione, in molte situazioni, per un affinamento delle relazioni industriali aziendali, orientandole in senso più maturo, ampio ed adeguato al contesto, creando meno antagonismo e più consapevolezza e capacità di condivisione di limiti e obiettivi. Questo approccio negoziale evoluto, se adeguatamente declinato potrebbe allora originare, per alcune aziende, un lascito positivo, utile anche per le dinamiche negoziali post emergenziali, se gli interlocutori aziendali e sindacali coinvolti sapranno dimostrarsi sufficientemente attenti e disponibili.

 

Stefano Malandrin

Confindustria Bergamo

Risoluzione delle crisi d’impresa e relazioni industriali. Appunti per un’indagine

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

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Bollettino ADAPT 11 luglio 2022, n. 27

 

A gennaio 2022 la struttura per le crisi d’impresa del Ministero dello sviluppo economico informava la stampa che l’anno si apriva con 69 tavoli di crisi ed un totale di circa 80mila lavoratori coinvolti. Secondo i numeri che circolano in Via Veneto negli ultimi 10 anni, solo nei tavoli di confronto aperti al MiSE negli ultimi dieci anni sono state coinvolte oltre 500 medio-grandi aziende (il 20% circa delle quali interessate da procedure di amministrazione straordinaria, dati riportati da Giampiero Castano in Relazioni industriali e contrattazione collettiva nella gestione delle crisi aziendali, in Working Paper ADAPT n. 2/2022).

 

Si tratta di un dato meramente indicativo del numero e della tipologia delle crisi aziendali o dei processi di riorganizzazione aziendale che si sono svolti nel nostro Paese negli anni più recenti.

Sul sito ufficiale del Mise si possano consultare i verbali relativi alle singole sedute, ma ad oggi non sono reperibili dati rielaborati in merito alla natura delle crisi, al numero di lavoratori coinvolti e alla soluzione individuata (o meno).

 

Non tutte le casistiche di crisi giungono inoltre ai vertici nazionali di confronto con le Istituzioni. Molte si svolgono a livello regionale e altre si risolvono per un verso o per l’altro senza nemmeno sperimentare il coinvolgimento delle istituzioni oltre il livello comunale.

Una premessa fondamentale per inquadrare il fenomeno delle crisi aziendali e dei processi di riorganizzazione riguarda dunque un’estrema eterogeneità nella loro. Il 10 giugno scorso i dottorandi della Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro ADAPT ed Università degli Studi di Siena e i partecipanti al corso di specializzazione ADAPT in Diritto delle Relazioni Industriali hanno avuto l’opportunità di  su questo argomento attraverso il  seminario dal titolo “Teoria e pratica delle crisi aziendali. Profili giuridici, previdenziali e sindacali”. In merito alla varietà di tipologie di processi di crisi/riorganizzazione, è intervenuto in particolare il Dottor Giampietro Castano, responsabile dell’area Gestione crisi d’Impresa presso il Ministero dello Sviluppo Economico da novembre 2007 a gennaio 2019, durante svoltosi a Bergamo il 10 giugno 2022, una prima distinzione si può operare fra le crisi determinate da necessità di ristrutturazioni ma che non mettono in discussione la continuità dell’impresa e quelle nelle quali le aziende risultano insolventi, non in grado pertanto di assolvere agli obblighi economici e patrimoniali. (sul punto, cfr. G. Castano, Relazioni industriali e contrattazione collettiva nella gestione delle crisi aziendali, in Working Paper ADAPT n. 2 2022).

Nei casi di crisi per necessità di ristrutturazione o riorganizzazione le procedure giuridiche a cui generalmente si ricorre sono quelle per richiedere la cassa integrazione straordinaria (L. 148/2015), quale sostegno al reddito per i lavoratori delle aziende che devono affrontare una crisi temporanea.

 

Ove poi si verificasse l’impossibilità a continuare l’attività dell’impresa si fa riferimento al codice delle crisi d’impresa (Dlgs. 14/2019), che prevede strumenti giuridici quali il Concordato preventivo (art.84), la Liquidazione giudiziale (art.121), il Concordato nella liquidazione giudiziale (art.240), la Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa (Recentemente introdotta da D.l. 118/2021). Ci si può poi avvalere delle procedure relative ai licenziamenti collettivi (L.223/1991) o al trasferimento d’azienda (L. 428/1990).

La diversa natura delle crisi implica il coinvolgimento di stakeholder differenti, in grado di influenzare le sorti della vicenda. Ove non si tratti di casistiche di riorganizzazione, infatti, ciò che risulta centrale è un solido sistema di relazioni industriali, sono chiamati a trattare e sono i soggetti direttamente interessati i rappresentanti dell’azienda, quelli delle segreterie sindacali ai vari livelli (nazionale, regionale e di territorio) i rappresentanti dei lavoratori (RSU o RSA) e le Istituzioni (nazionali o regionali).

 

Ove, invece, si consideri un caso di insolvenza la platea degli stakeholder si allarga notevolmente, si tratta di vicende regolate da procedimenti giuridici che coinvolgono giudici, organi delle procedure, istituzioni governative. Inoltre l’insolvenza genera spesso la necessità di ricorrere ad investitori o a procedure di trasferimento d’azienda e, dunque, a nuovi imprenditori. Infine, vi sono procedimenti giuridici i quali comportano la presenza di creditori, dal cui voto può dipendere la continuità aziendale (ad esempio nel caso del concordato).

In un contesto caratterizzato da una tale pluralità di attori si innescano naturalmente dei processi comunicativi, interni ed esterni, attraverso i quali le parti esercitano pressione le une sulle altre. Il tutto in un ambiente della comunicazione pubblica nel quale, nel corso dell’ultimo decennio, le notizie relativa ai casi di crisi e riorganizzazioni aziendali hanno trovato sempre maggiore eco.

 

Protagonisti indiscussi di questi processi sono senza dubbio i sindacati, ossia le organizzazioni maggiormente interessate ad utilizzare la leva del potere comunicativo e mediatico per controbilanciare il potere decisionale del management; il quale agisce invece spesso ricercando la minore esposizione pubblica possibile.

 

Per quanto concerne i profili della comunicazione pubblica le organizzazioni sindacali hanno a disposizione numerosi strumenti e canali attraverso cui esprimersi ed esercitare pressione nei confronti dell’azienda e delle istituzioni: comunicati stampa, iniziative pubbliche (cortei, picchetti, presidi), post sui canali social.

 

La comunicazione è poi interna, nei confronti dei propri iscritti al fine di creare un interesse condiviso da portare avanti nei confronti dell’azienda.

Il libero confronto tra le parti è altresì giuridicamente codificato sia da una normativa che lo regola quale momento fisiologico fra le aziende e le Organizzazioni sindacali (L.25/2097) sia da un apparato di norme riguardante le procedure di informazione e consultazione obbligatorie in momenti di “crisi” patologica (Si pensi alla procedura di mobilità ex 223/1991 Art. 4, alla Cassa Integrazione Straordinaria ex L. 148/2015 Art. 24, al Trasferimento d’azienda ex L. 428/1990 Art. 47 ed infine alla composizione negoziata della crisi d’impresa D.l. 118/2021 Art. 4 comma 8).

Le tecniche comunicative messe in campo attraverso la comunicazione pubblica ed interna, in particolare da parte dei sindacati, si intrecciano dunque con i procedimenti giuridici previsti dal nostro ordinamento per la risoluzione delle crisi favorendo o ostacolando la possibilità di giungere ad intese.

Le Organizzazioni Sindacali possono dunque ricorrere a strategie comunicative con lo scopo di influenzare l’esito delle questioni vertenziali e, in alcuni casi, di indurre la controparte ad assumere decisioni differenti da quelle di partenza. In questo senso l’esposizione mediatica risulta sicuramente una delle tecniche più efficaci, ma si consideri altresì l’attenzione che si può ottenere da parte delle Istituzioni. Tale pressione sui diversi soggetti coinvolti, in particolare azienda ed istituzioni, si esercita tramite l’organizzazione di iniziative che vengono poi raccontate a mezzo stampa o più recentemente sui social media, fra queste si annoverano i presidi, i cortei, i picchetti e lo sciopero.

Come ha mostrato un’analisi già pubblicata sul VII Rapporto ADAPT sulla Contrattazione collettiva in Italia svolta su un campione di 338 casi di crisi aziendali consumatesi nell’ultimo decennio, non è possibile individuare una relazione biunivoca tra l’esposizione mediatica delle vertenze e il livello di centralità della sede all’interno del quale si svolge il relativo tavolo di confronto. Sono in altre parole frequenti, benché minoritari, casi di crisi e riorganizzazioni aziendali che sono state gestite al MiSE, ma che non hanno goduto di un’eco mediatica particolarmente ampia (si veda F. Nespoli Tra conflitto e contrattazione: dieci anni di crisi aziendali in VII Rapporto sulla Contrattazione Collettiva p. 4 e ss.). Come ha osservato lo stesso dott. Castano, non è difficile menzionare casi in cui non si è registrata una proporzionalità tra il numero di lavoratori coinvolti dalla vertenza e l’esposizione mediatica della vicenda. Ciò a dimostrazione di come sulla comunicazione pubblica di queste vicende influiscano processi di simbolizzazione e strumentalizzazione politica che seguono dinamiche ancora da esplorare.

In questo senso la direttiva relativa alla gestione della crisi d’impresa siglata dal ministro Giorgetti nell’ottobre 2021 stabilisce i parametri attraverso i quali si valuta se le crisi vertenziali possano approdare sui tavoli del ministero. Le questioni considerate di interesse nazionale sono quelle che riguardano imprese che hanno più di 250 dipendenti assunti in Italia, sono localizzate in una regione italiana in cui la crisi dell’impresa può comportare effetti significativi su livelli occupazionali o sistema produttivo, svolgono un’attività di particolare rilevanza in termini di indotto per il sistema economico- produttivo e infine imprese titolari di marchi storici di interesse nazionale iscritti nell’apposito registro (reperibile qui). Sarà dunque interessante poter effettuare un confronto tra i processi comunicativi innescati nell’ambito della gestione delle crisi pre e post approvazione di questa direttiva.

Non meno interesse destano le conseguenze giuridiche che l’interlocuzione tra le parti produce quando si addiviene ad una soluzione negoziale: accordi siglati dalle parti, attraverso i quali si giunge alla risoluzione della vertenza. Talvolta questi ultimi sono il frutto dei procedimenti di informazione e consultazione giuridicamente normati menzionati pocanzi, in altri casi si tratta dell’esito della negoziazione avvenuta sui tavoli istituzionali regionali, al Mise o presso le aziende. Gli effetti derivanti dalla stipula di accordi non sono solo giuridici, gli impegni assunti dalle parti hanno infatti anche un valore di tipo reputazionale e contribuiscono alla creazione di narrative con le quali si interpreteranno le vicende successive alla crisi.

Il contenuto di tali accordi copre un ventaglio molto ampio di soluzioni, andando dall’attivazione della cassa integrazione, con l’obiettivo di contenere gli esuberi, all’utilizzo di politiche attive e di ricollocamento, creando ad esempio reti di territorio con altre aziende (vedi Lombardo F. Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/2 – Accordo Laika: verso relazioni industriali di territorio? In Bollettino ADAPT 18 gennaio 2021, n. 2) sino alla condivisione di un vero e proprio piano industriale.

Recentemente il legislatore ha tentato di riformare l’accesso alla CIG con la legge n. 234/2021 [commi 191-223] che ha modificato in più punti la normativa in materia di CIGS e di Fondi Bilaterali di sostegno al reddito. Sul punto durante il già citati seminario si è soffermato il prof. Domenico Garofalo, già professore ordinario di Diritto del Lavoro presso l’università di Bari, il quale ha sottolineato che l’essenza della riforma del 2021 (entrata in vigore il 1° gennaio 2022) potrebbe essere identificata nella volontà di acceleratore il processo di collegamento tra politiche passive e politiche attive. Un processo da lungo tempo auspicato ma ancora lontano dal realizzarsi (per un approfondimento sistematico sul panorama degli strumenti di tutela dei lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali e nei processi di riorganizzazione, si veda il WP a firma dello stesso prof. Garofalo, dal titolo Gli strumenti di gestione della crisi di impresa. Un quadro d’insieme. pubblicato nel Bollettino ADAPT n. 27/2022). Per questo motivo si tratta di una sfera di pertinenza, quella delle politiche attive, alla quale la comunicazione pubblica del sindacato dovrà prepararsi a dare la giusta risonanza.

Ad ogni modo, con riferimento al contenuto degli accordi siglati nei contesti di gestione di crisi aziendali e ristrutturazioni, le questioni aperte, ad avviso di chi scrive, sono innanzitutto relative alla portata giuridica di tali accordi. Ossia sono relative agli obblighi o impegni assunti dalle parti e delle conseguenze derivanti dal mancato rispetto di questi ultimi. La comunicazione si rivela in questo senso un’arma a doppio taglio: è capace di influenzare i processi di produzione degli accordi attraverso la leva reputazionale, ma al contempo può trattarsi di accordi che non vincolano giuridicamente i comportamenti delle parti, soprattutto a distanza di tempo e comunque garantendo l’effettività delle tutele dal punto di vista del diritto. Col rischio che accordi declamati oggi possano tramutarsi in vittorie di Pirro domani.

Infine si segnala un ultimo spunto di riflessione. Come sostenuto sia dal Professor Domenico Garofalo sia dal Dottor Castano, durante il già citato seminario del 10 giugno, esiste una responsabilità politica nella costruzione di norme relative al confronto. Vi sono talune casistiche in cui la procedimentalizzazione del confronto risulta insufficiente. Si consideri ad esempio la “misura anti-delocalizzazione” (art. 1, commi 224-236, l. n. 234/2021) Indubbiamente un buon primo risultato è costituito dalle sanzioni previste in caso di mancata presentazione alle organizzazioni sindacali di un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura, ci si domanda tuttavia se non sarà necessario nel caso specifico restringere ulteriormente la libertà di impresa.

Il confronto dunque fra parti sociali ed istituzioni che mira ad influire sulla gestione delle crisi si estende anche ad aspetti di sistema, influenzati dal lobbying politico istituzionale. La comunicazione pubblica nella gestione dei processi di crisi e riorganizzazioni aziendali si configura così come un’attività a 360 gradi per il sindacato, un’attività in espansione, da curare e sviluppare attraverso la formazione di professionalità specifiche. Una sfida dunque non solo comunicativa, ma anche organizzativa.

 

Serena Bergamaschi

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@SerenaBergamas1